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Autore: Astrid Romanova    16/06/2014    1 recensioni
«Il segreto per non subire la mancanza di controllo è desiderare di non averlo. Se non hai aspettative non hai delusioni, se scegli di non scegliere non puoi mai sbagliarti» [...]
«Lancia una moneta» [...] «Aspetta che ti dica cosa il caso ha scelto per te» [...] «non tirarti indietro».
Io mi tiravo sempre indietro. [...] Mi sembrava tutto vano. E anche se avevo sempre saputo che ogni cosa non viene creata per esistere per sempre, che prima o poi, in un modo o nell'altro, tutto finisce in niente, non mi ero mai resa conto di quanto la parola “effimero” potesse fare paura. Non era solo qualcosa che spariva. Era qualcosa che spariva e ti lasciava con un pugno di mosche. Ma persino le mosche volavano via quando aprivi la mano. [...]
«Credo che dovresti provarci» disse lui all'improvviso, ridestandomi dai miei pensieri.
[...] In fondo aveva ragione. Alla peggio avrei scoperto di non essere pronta, di non essere in grado di vivere in quel modo. Il termine provarci era già di per sé sintomatico di qualcosa da cui non ti aspetti necessariamente una vittoria. Provare non è obiettivo.
«Se non hai obiettivi, qualsiasi meta è un traguardo»
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 7
Courtship

Cosa vediamo dipende soprattutto da che cosa stiamo cercando.
-J. Lubbock
   «Definisci stronzo».
   Non sembrava offeso. Era tornato il solito, ilare Hamilton, quello che sorrideva di traverso quando trovava spiritoso qualcosa che per nessun altro sarebbe stato spiritoso.
   «Kendall Hamilton» risposi di getto.
   Esplose in una risata che era davvero divertita, il che ebbe quasi l'effetto di offendere me. Era come se non gli importasse cosa pensavo o, peggio ancora, come se più bassa fosse la mia opinione di lui più spassoso fosse ascoltarmi.
   «Un po' più precisamente?» Insistette tutto sorridente.
   Ecco perché era irritante: perché niente sembrava riuscire a fargli abbassare quella maledettissima cresta.
   «Odioso, detestabile, insopportabile, antipatico, prepotente, arrogante...»
   «Questi sono sinonimi» mi interruppe.
   Pignolo, insistente, insolente, petulante. Roteai gli occhi, esasperata.
  «Sostantivo maschile, epiteto ingiurioso di senso figurativo con significato generale di persona che si comporta in modo criticabile, anche in funzione di aggettivo con riferimento ad atteggiamento deprecabile e/o stupido. Per amor di sintesi, persona con una grande capacità di far girare le palle.»
   La seconda risata di Hamilton fu anche meno contagiosa della prima.
   «Allora credo proprio di essere uno stronzo» ammise – sempre sorridente – con una certa sincerità che non mi aspettavo.
  Evidentemente non ero l'unica a cui faceva girare le palle, e non mi era difficile immaginarlo. Io potevo essere abbastanza permalosa, ma Hamilton era un campione nel dare sui nervi.
   «Felice che te ne sia accorto.»
   «Mi trovi davvero detestabile?» Domandò ignorando il mio commento, sebbene un'eventuale risposta affermativa non sembrava preoccuparlo.
   «C'è una bella differenza tra odio e scarsa sopportazione» gli feci notare.
Anche se mi faceva spazientire come poche altre persone al mondo, non volevo pensasse che lo odiavo. L'odio era un sentimento che mi ero accorta di provare verso una sola persona che mai avrei potuto paragonare a chiunque altro. Hamilton era insopportabile, ma non mi aveva rovinato la vita. 
   «Felice che tu sappia fare questa distinzione» mi disse.
   Il suo sorriso, in quel caso, fu molto diverso. Era più aperto, genuino, autenticamente lieto.
   Riprendemmo a camminare, in silenzio.
  Quando giungemmo di fronte al primo cavalletto non ci fermammo, dando giusto un'occhiata alle fotografie appese. Avanzavamo lentamente per avere il tempo di vedere i soggetti immortalati, ma nessuno attirava la mia attenzione tanto da indurmi a fermarmi ed Hamilton, che procedeva dietro di me, sembrava volermi lasciare il tempo di trovare qualcosa che mi interessasse sul serio.
   Lo trovai. Su un solo cavalletto erano disposte tre foto e, sul momento, credetti che si trattasse di una sequenza. Tutti e tre gli scatti rappresentavano lo stesso momento, la stessa scena dallo stesso punto di vista. Ma in tre parti distinte.
   La fotografia in alto era quasi incomprensibile: c'era un cielo azzurro cosparso qua e là di nuvole bianchissime, sospese sopra un campo di grano maturo. Dal bordo inferiore spuntava una cunetta che sarebbe stata impossibile da identificare se non si avesse avuta la possibilità di vedere il secondo scatto, quello che proseguiva l'immagine. Era la sommità di una testa dai capelli biondi e lucenti, così intensi che facevano sembrare il grano di un giallo sporco. Il viso della donna dalla chioma dorata era bello e sorridente. Stava guardando qualcosa che stava sotto di sé, qualcosa che dalla posizione delle braccia potevo intuire che stesse anche toccando. Ma i suoi avanbracci erano tagliati, perciò per vedere l'oggetto delle sue attenzioni bisognava spostarsi ulteriormente, arrivando alla terza e ultima fotografia: un'uomo guardava la bella afrodite con gli occhi sgranati e un silenzioso urlo sulla bocca spalancata; una sua mano stringeva debolmente il polso della donna, l'altra era coperta dal resto del corpo. E il suo collo – il suo dannato collo – era stretto nella morsa di dita sottili, i pollici che premevano sulla giugulare.
   Afrodite stava uccidendo lo sventurato. Quando si diceva “bella da togliere il fiato”.
   «Una vera opera d'arte» commentai ironica.
  Per quel che mi riguardava era una rappresentazione piuttosto sessista, sia interpretandola dal lato femminista che da quello maschilista. O la donna si stava prendendo una meritata vendetta per poter guadagnare la propria libertà o, al contrario, l'emancipazione delle donne stava rendendo l'uomo sempre più succube o, per fare dell'ironia, lo stava “soffocando”.
Tutte stronzate. Se gli uomini non erano abbastanza bravi da tenersi la loro virilità attaccata al posto giusto non erano uomini, e se la donna era così infima da strappargliela per vendetta non era una donna. Semplice.
   Hamilton colse il mio sarcasmo – o almeno così mi suggerì il ghigno che comparve sul suo volto – ma per il resto rimase in religioso silenzio. Meglio così, non mi andava di iniziare una diatriba riguardo ai ruoli dell'uomo e della donna nella società, soprattutto non con lui.
   Ripresi a camminare.
   Attraversando la sezione degli scatti paesaggistici mi ritrovai in quella dei nudi artistici. Le immagini di nudo non mi avevano mai attirata molto, o almeno non da quando avevo dodici anni e non ero ancora molto sicura di come fosse fatto un corpo maschile, anche se Tommy Wright, una volta, si era abbassato i pantaloni durante l'ora di ginnastica alle elementari.
   Lanciai solo uno sguardo ai cavalletti che mi circondavano, ma più che notare delle foto in particolare constatai l'alta affluenza di osservatori in quella zona della mostra. Uomini, per lo più, ma anche diverse donne. Tutte più grandi di me.
   In effetti, più mi guardavo in giro più rilevavo che l'età media dei visitatori fosse sui quarant'anni. Eccetto una bambina attaccata alla gamba della madre, io ero la più giovane avventrice. Questo poteva significare solo una cosa, che avrei dovuto capire non appena avevo visto la corposa vigilanza presente all'esterno: era una mostra seria.
   Non una di quelle, come mi ero immaginata, dove ti fai un giro di ricognizione giusto per poter dire di aver partecipato ad una mostra d'arte fotografica, così da far salire di un paio di punti il proprio quoziente di rispettabilità – o almeno credere di sembrare più rispettabile –, ma una mostra per intenditori, per gente del mestiere o molto vicina adesso. E, in tutto questo, io non c'entravo assolutamente niente.
   «Perché mi hai fatta venire qui?» chiesi ad Hamilton, voltandomi verso di lui.
   Non servivano spiegazioni, ero certa che avrebbe capito cosa sottintendeva la mia domanda.
   Infatti lui abbassò lo sguardo – assumendo di nuovo quel maledetto ghigno da “so qualcosa che tu non sai” - e si passò un dito sul labbro inferiore, annuendo a sé stesso.
   «Te l'ho detto. Perché sai osservare, e volevo che tu osservassi».
   Sì, quello lo ricordavo. Ma se fosse stata l'unica ragione avrebbe potuo invitarmi alla galleria dove si tenevano le lezioni.
   «Questo l'ho capito. E?» cercai di spronarlo.
   Lui insipirò e, quando buttò fuori l'aria, mi parve rassegnato.
   «C'è una spiegazione semplice, ma devi farmici arrivare per gradi».
   «Wow, ti sei fatto la scaletta?».
   Non avevo pazienza. Per me non esisteva il concetto di “andare per gradi”. Non era una di quelle cose alla “mi sono accorta che la vita è troppo breve” o della serie “voglio il dolce prima dell'antipasto”. Procrastinare significava solo perdere tempo nella speranza che, arrivati al punto, le rivelazioni risultassero più facili da digerire, ma se erano digeribili non serviva girarci tanto intorno. Se non lo erano, invece, be'... se andando in Groenlandia passi dall'equatore, quando ci arrivi non senti meno freddo.
   «No, ma c'è un modo giusto e uno sconsiderato di fare le cose. Non voglio essere sconsiderato».
   Giustificazione interessante.
   E pessima.
   «Hai tutta la mia benedizione per essere sconsiderato, e comunque il concetto di “giusto” è fortemente opinabile».
   Ridacchiò, e seppi che qualsiasi cosa avessi detto non sarebbe servita a niente.
   «La cortesia no, però».
   «In alcune culture è scortesia guardare direttamente negli occhi qualcuno. Quindi, tecnicmente, sei già stato abbastanza scortese, e nessuno ti ha sparato alle ginocchia per questo».
   Rise di nuovo. Era fastidioso.
   «Valida argomentazione» mi concesse sorridendo, «ma inutile.»
   Alzai gli occhi al cielo e sbuffai esasperata, ripartendo a passo di marcia per andare alla sezione successiva. Nature morte.
   «Almeno inizia, per l'amor di Dio, o per i fuochi d'artificio non avremo ancora finito» lo esortai, scorrendo rapida con lo sguardo su una serie di noiosissimi scatti. L'avevo detto che non mi erano mai piaciute le immagini predefinite, figurarsi se rappresentavano una bacinella d'acqua immobile sopra il quale galleggiava una foglia.
   «Non ci sono i fuochi d'artificio, all'ultimo il comune ha ritirato i permessi».
   Cosa? Perché, dovevano esserci?
   «Parlavo di quelli di capodanno».
   Anche se lieve, riuscii comunque ad udire la sua risatina soffocata. Era meglio quando rideva che quando faceva il prepotente alla galleria per dimostrare la propria autorità, ma non mi sarebbe dispiaciuto se per cinque minuti fosse tornato un insegnante invece di un ragazzino di undici anni.
   «Ora chi è che fa la stronza?»
   Colpita. Non affondata, quello mai. Ma colpita sì: non aveva tutti i torti. A dispetto di quello che avevo detto poco prima, iniziavo seriamente ad odiarlo.
   Eppure, se non avessi creduto che la sua personalità eccentrica non valesse almeno un minimo sforzo, in quel momento non sarei stata lì insieme a lui ad una stramaledetta di mostra piena di quarantenni.
   «Definisci stronza» lo imitai, continuando a voltargli le spalle.
   Rise. Basta, per l'amor del cielo.
   «Stiamo divagando» mi avvertì, e aveva ragione.
   Io avevo insistito perché arrivasse dritto al punto, ed ora ero la prima a distrarsi.
   «Ma visto che mi hai molto chiaramente espresso la tua opinione di me, credo che dovresti permettermi di renderti il favore» continuò, mentre davo una sbirciata alla foto di un orologio rotto che segnava l'una e dieci da chissà quanto tempo.
   Non mi preoccupava particolarmente l'impressione che Hamilton si era fatto di me, non era un problema mio. Non avevo mai posto molta attenzione ai giudizi degli altri, se non altro perché dovevo già confrontarmi con ciò che io per prima pensavo di mé stessa. Avevo idee così contrastanti che mi ci voleva troppo impegno per capire cosa vedevo quando mi guardavo allo specchio. Perciò rimasi in silenzio, senza vietargli di fare le sue considerazioni né invitarlo esplicitamente a rivelarmele.
   «Ti ho già riferito quanto ti trovi assolutamente strana, ma non credo di averti mai confidato quanto io ami le stranezze».
   Mi arrestai e aggrottai le sopracciglia, distogliendo lo sguardo da un velo di raso che vorticava su una distesa di cemento nella foto di un certo P. Bloomingdale. Guardai il tappeto d'erba sotto i miei piedi, la figura di Hamilton presente solo al margine del mio campo visivo.
   «Non sei affascinante nel senso comune, non c'è un tratto del tuo viso particolarmente accattivante o una nota nella tua voce che risulti singolarmente suggestiva. Ma c'è qualcosa in te - e ad essere affascinante è proprio l'impossibilità di capire cosa con precisione - che è incantevolmente avvincente. So che è un pensiero controverso, ma è l'unico modo che ho per definirti, perché tu stessa sei straordinariamente controversa. In una parola, Cameron... sei...».
   «Controversa?».
   «Intrigante».
Questo mi stupì. Supponevo che il suo fosse un complimento, ma la parola “intrigante” mi suggeriva che mi vedesse un po' come un mistero da risolvere, come il soggetto di una fotografia che non sapesse bene come catturare. Questo non mi piaceva, perché mi poneva di fronte all'aspettativa che lui avesse intenzione di studiarmi proprio come avrebbe fatto se avesse dovuto scattare una foto. Se non mi dava fastidio essere giudicata, mi irritava a morte l'essere analizzata come un curioso soggetto umano. A tentare di sviscerarmi ci aveva già pensato lo psicologo da cui ero stata mandata dopo l'incidente, con esiti pressocché nulli visto che lo ostacolavo mentendo o comportandomi da idiota. Dal mio referto psichiatrico era risultato, in parole povere, che fossi una testa di cazzo. In verità lì avevano scritto che, se pure non ero a rischio di depressione, tendevo al completo disinteresse per la vita nella sua forma organizzata, o una cosa del genere. Questa era la parte che ricordavo di più, ma ero certa che il mio psicologo avrebbe volentieri scritto che ero una testa di cazzo e basta. Di pazienti difficili ce n'erano tanti in giro, anche più difficili di me, ma prendi una venticinquenne incazzata col mondo, che ha appena visto il suo futuro crollare, emotivamente distrutta e laureata in lettere e avrai una paziente perfettamente in grado di mettere a dura prova la tua pazienza professionale.
   «Io ti trovo intrigante» specificò Hamilton, distogliendomi dai miei pensieri. «E in questo momento vorrei che tu mi guardassi».
  Il suo tono si era fatto terribilmente serio, ora. Forse per questo non mi venne di fare alcuna espressione impertitente che alleggerisse l'atmosfera: il suo essere serio era contagioso come non lo era la sua risata.
   Mi voltai.
  Anche la sua espressione era seria, e per un attimo mi chiesi com'eravamo arrivati a quel punto. Già la domenica precedente, all'Imperial Mall, avevamo passato diversi minuti a fissarci; sarei dovuta essere abituata al suo sguardo insistente. Solo, non era così semplice. Perché non c'era più quel mezzo sorriso sul suo volto, né c'era quella cocciutaggine nervosa da parte mia che mi aveva aiutata persino a sopportare il bruciore agli occhi.
  Bruciavano anche in quel momento. Sbattei le palpebre, aspettando che aggiungesse qualcosa. Aspettando che sorridesse di nuovo e dicesse qualcosa che mi avrebbe mandata in bestia, ma non fece niente per parecchi secondi. Stavo per rompere il silenzio quando si decide a riprendere la parola.
   «Perché l'hai fatto?».
   Sbattei le palpebre, questa volta confusa, e socchiusi le labbra pensando di dire qualcosa.
   «Cosa?» fu tutto quello che chiesi.
   «Guardarmi».
   La mia confusione divenne sconcerto, ma non ero meno spiazzata di prima.
   «Perché me l'hai chiesto» risposi in tono ovvio.
   «Io ti ho detto solo che avrei voluto che tu mi guardassi. Ti capita spesso di interpretare i desideri degli altri come richieste?».
   Ed ora era di nuovo confusa. Pensai che stesse già iniziando a studiarmi come avevo pronosticato, ma la sua non era curiosità, era più... incredulità. Non risposi. Non sapevo come rispondere.
   «Riformulo la domanda: perché pensi di dover soddisfare i desideri degli altri come se ti avessero chiesto di farlo?».
   Ecco, questa era curiosità. Ma nemmeno a questa sapevo rispondere. Mi stavo stancando.
   «Vuoi arrivare al punto?» chiesi spazientita.
   Finalmente sorrise di nuovo, proprio in quel modo insolente di sempre.
   «Ti sto corteggiando, Cameron».
   Ah-ah.
   «Se mi avessi dato il tempo di fare le cose con calma lo avresti capito da sola, ma tu hai sempre fretta».
   Era vero, ora che l'aveva detto mi accorsi di avere fretta. Fretta di andarmene.
   Invece rimanevo incollata al prato, di fronte a quella foto col velo di raso. In silenzio, con un'espressione analoga a quella di qualcuno a cui avessero appena detto “Natale è stato spostato al tre agosto”, ogni singolo centimetro del mio corpo era immobile, senza un singolo pensiero in testa se non: “io devo andarmene di qui”.
   Abbassai lo sguardo e guardai, guardai Hamilton per la prima, vera volta come un'uomo. Solo un'uomo. Quella sera – con quel completo grigio scuro, le scarpe lucide, la barba ben rasata, il viso pulito e solo un'ombra di occhiaie – non c'era niente che rovinasse l'immagine di quello che era innegabilmente un uomo attraente.
   Ma ne ero attratta? Il pensiero non mi aveva mai sfiorata nemmeno alla lontana, nemmeno per sbaglio, nemmeno per scherzo, e forse non avrebbe dovuto farlo nemmeno in quel momento.
   O forse sì.
   «Non devi rispondermi in qualche modo, Cameron. Lascia solo che ti corteggi».
   Non ero mai stata timida. Avrei potuto presentarmi di fronte al Pentagono e gridare al segretario della difesa di lavarsi i denti più spesso, ma non riuscivo a gestire il mio eventuale ascendente su un uomo. In effetti, preferivo di gran lunga elencare diverse marche di dentifricio a tutto il Dipartimento della Difesa che trovarmi nella situazione in cui mi trovavo proprio in quel preciso momento.
   Non ero timida, nossignore.
   Ma allora non sapevo come spiegarmi perché avvertissi così forte il desiderio di allontanarmi.
   «Me lo permetterai?» mi domandò dolcemente.
   Era carino da parte sua darmi la possibilità di rifiutare le sue attenzioni, e questo mi impediva di dargli un secco no come sentivo impellentemente di voler fare. Era facile mandare al diavolo qualcuno di insistente e sfrontato, ma la gentilezza... la gentilezza mi aveva sempre indebolita. Era rara, ed io non era una che se la sapesse guadagnare. La gentilezza mi smontava. Mi sgonfiava.
   Non potevo dire no, non potevo dire sì. Ma non potevo nemmeno dirgli “non lo so”.
   Abbassai lo sguardo.
   «Non posso impedirtelo».
   Mi era sembrata la soluzione più logica.
   «Sì, puoi. Devi solo dirmelo».
   Non sapevo cosa stessi negando, ma scossi la testa.
   «Posso...» mi uscì, prima che potessi rendermi davvero conto di cosa volessi dire.
   Lui aspettò pazientemente che terminassi la frase, ma non ero sicura di come intendevo finirla.Visto che i miei pensieri stavano risultando tristemente infruttuosi, forse era meglio schiacciare off e lasciare che fosse l'istinto a tirari fuori da quella situazione. Se avessi fatto un casino, ero comunque più brava a sistemare le cazzate che ad evitarle.
   «Posso andare?».
   Codarda. Ero una codarda. Una bambina lagnosa e codarda. Ma preferivo esserlo da qualsiasi altraparte.
   «Certo. Vai».
   Era ancora gentile, quasi remissivo, ma non ero abbastanza concentrata su di lui per stupirmidi questo suo lato nascosto.
   Annuii alzando di nuovo gli occhi su di lui, non volevo essere così pietosa da non guardarlo nemmeno più in faccia. Aveva un sorriso caldo in volto, che formava piccole rughe intorno ai suoi occhi. Rimasi lì qualche altro secondo, respirando a fondo, molto a fondo, ma lentamente. Trattenni il fiato.
   Mentre espiravo dalla bocca con un colpo secco, scattai verso l'uscita.
Immagino abbiate notato il cambio di rating per la storia. Una scelta dettata dalla necessità: le scene a rating rosso sarebbero dovute essere due, una delle quali, ripensandoci, non sono sicura rientri in quella categoria; la seconda era senza dubbio a rating rosso, ma portava la trama su una via che ho deciso di non percorrere più. Il finale rimane fondamentalmente uguale a quello inizialmente previsto, ma ho deciso di arrivarci in un modo diverso.
Ho fatto un calcolo approssimativo e la storia si comporrà di una quarantina di capitoli. Forse qualcosa in meno, ma di sicuro non staremo sotto i trenta. 
Grazie a tutti i lettori abitudinari, ai visitatori che hanno dato una possibilità a The Random Story e a chiunque avrà la voglia, e il tempo, di lasciarmi una recensione.

Lunga vita e prosperità,
Astrid
   
 
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