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Autore: Eveine    19/06/2014    0 recensioni
A volte, quando tutto sembra andare storto, quando sei sull'orlo di un baratro, le uniche persone che possono salvarti sono i tuoi amici.
Charlotte Paciock, Noah Baston e James Potter: tre amici, una storia.
Grazie alla mia beta Lady Viviana (http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=146007) per il suo grande aiuto.
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: James Potter, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
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“Sei morta, e sono così stanca di sentire la tua mancanza.”

-Pretty Little Liars-

 

Era lunedì pomeriggio, quando Charlie ricevette il via libera per lasciare l’infermeria; Madama Chips aveva controllato il taglio alla testa e, avendolo trovato già in via di guarigione, le aveva dato il permesso di tornare alla normale vita del castello. Le consegnò anche alcune fiale piene di una pozione che avrebbe dovuto bere la sera prima di andare a letto per i giorni successivi e le consigliò di nutrirsi di più e meglio. Suo padre non si era neanche degnato di andare a farle visita, e aveva solo chiesto novità sulla sua salute, quando aveva incontrato l’infermiera a cena la sera precedente. L’unico che quella mattina era andato a trovarla era stato Neal, un ragazzino così dolce che aveva passato tutta la notte sveglio al pensiero della sorella a letto malata: era così tenero che si sentì in colpa per non essersi dedicata a sufficienza alla sua salute.

Girovagando per i corridoi, si soffermò a osservare la neve che cadeva all’esterno, i fiocchi che battevano delicati sui vetri delle grandi finestre e tutto ricoperto da un manto bianco che gli donava eleganza. Adorava quell’evento atmosferico, perché le dava un senso di pace e tranquillità, ma anche di gioia, dato che le ricordava quando, da bambina, i suoi genitori la portavano, insieme a suo fratello, in vacanza in montagna. Era lì che aveva imparato a sciare, grazie a suo padre, l’uomo che aveva paura a lasciarla da sola con gli sci ai piedi e che ora non si interessava a lei, nemmeno dopo una grave caduta dalla scopa.

Sospirò; si sentiva tremendamente sola, le mancavano il Neville Paciock di un tempo e sua madre. Era strano rientrare a casa e trovare un silenzio completo, invece dei soliti rumori che provenivano dalla cucina, dovuti alle pentole che sbattevano a destra e a sinistra, e le pietanze che preparava erano le migliori che avesse mai mangiato perché, tra i vari ingredienti, ci metteva anche amore e allegria. Era triste svegliarsi la mattina, durante le vacanze e non sentire il profumo del caffè misto a quello dei muffins appena sfornati invadere tutte le stanze e non udire quella voce, dolce e tranquilla, che arrivava a fare degli acuti da far invidia ai cantanti quando doveva sgridarli, le faceva avere perennemente un macigno sul cuore. Sentiva la mancanza di ogni singolo gesto, degli abbracci morbidi, dei baci bagnati, delle belle parole che diceva a tutti, della dolcezza che emanava da ogni poro e che poteva essere paragonabile solo a quella delle torte che preparava la domenica. Hannah era una donna straordinaria, donava felicità a chiunque le stava intorno e si sentiva fortunata a essere sua figlia, perché le aveva trasmesso valori come la bontà, la lealtà e la generosità che, purtroppo, dopo la sua morte, si erano un po’ nascosti.

Charlie era sempre stata una bambina scostante, ma, in quegli ultimi anni, era peggiorata, visto che riusciva a dare confidenza solo ai suoi amici più intimi, e che le sembrava di aver perso gli insegnamenti della madre; era più forte di lei, non voleva che gli altri provassero pietà.

Erano passati cinque anni da quella gita a Londra, ma l’immagine di sua madre, immersa in una pozza di sangue, era ancora vivida nei suoi ricordi, e la sognava quasi ogni notte, la sua testa perennemente affollata dai “se” e dai “ma” che avrebbero potuto cambiare quella giornata da tragica a meravigliosa. Il dubbio più grande che aveva, però, riguardava proprio se stessa: se non avesse insistito tanto per andare a visitare il National Museum, probabilmente quella macchina non avrebbe portato via la vita a quella donna dai grandi occhi gentili. Ne era certa: la sua ossessione per l’arte babbana era stata la causa della perdita di sua madre.

-Charlotte!- stava ancora osservando la neve, immersa in quei pensieri tristi, quando la voce cupa di suo padre la chiamò, sorpreso e un po’ spaventato di incontrarla in giro per il castello.

-Papà!- anche lei non si aspettava di vederlo, dato che era convinta fosse a lezione.

-Cosa ci fai nei corridoi? Pensavo di vederti giù alla serra.- la prima cosa che gli era venuta in mente era che sua figlia stava marinando le lezioni, poiché si era dimenticato della sventura del giorno precedente.

-Madama Chips mi ha dimessa solo pochi minuti fa.- si giustificò lei.

-Beh, tanto oggi abbiamo fatto solo un’ora, con questa tempesta non sarebbe stato prudente rimanere fuori da queste mura fino a tardi.- menzionare l’infermiera aveva riportato alla mente dell’uomo i fatti accaduti alla partita di Quidditch e, così, cercò di sembrare più indulgente.

-Se vuoi vado a prendere il tema che ci avevi assegnato, non ho potuto ricontrollarlo, ma, almeno, è finito.- gli disse, dopo aver visto il pacco di fogli che teneva sottobraccio.

-Non importa, ti sei fatta male e quindi sei esonerata. A proposito, come stai?- non gli sembrò corretto accettare l’offerta, visto che aveva passato tutta la domenica in infermeria e pensò fosse doveroso chiederle informazioni sulla sua salute.

-Ancora dolorante e con mal di testa per via della ferita.- indicò la garza bianca leggermente sporca di sangue che aveva sul lato destro del cranio.

-Sta sanguinando, forse dovresti ritornare da Madama Chips.- vedere quella macchia rossa lo fece preoccupare un po’, nonostante si comportasse diversamente, voleva bene a sua figlia e non voleva perderla.

-No, è normale.- tagliò corto lei.

Il silenzio sceso tra i due era carico di imbarazzo, poiché era da tanto tempo che non parlavano così a lungo lontano dalle aule scolastiche. Charlie si era meravigliata che le avesse chiesto come stava e che l’avesse esentata dal consegnare il compito: forse il padre che aveva prima era nascosto in fondo a quel cuore diventato di pietra. Neville, invece, aveva timore a ritrovarsi solo, faccia a faccia con lei, e vedere la sua sofferenza nel sentirlo freddo e distaccato lo faceva stare male, ma non riusciva a comportarsi diversamente, non riusciva a dirle parole amorevoli come un tempo, forse perché, in fondo, anche lui la riteneva la causa della morte della moglie e voleva fargliela pagare in qualche modo.

-Devo andare a correggere questi.- disse bruscamente, alzando la mano nella quale teneva i temi degli altri alunni, poiché aveva bisogno di allontanarsi da quegli occhi tristi.

-A me serve una doccia.- l’infermiera le aveva dato una camicia da notte che, però, aveva dovuto riconsegnare prima di uscire da lì, così aveva dovuto indossare di nuovo la divisa di Quidditch sudicia del giorno precedente. Si separarono senza neanche salutarsi.

 

Nei giorni seguenti fu difficile avvicinare Charlie: aveva deciso di evitare in qualsiasi modo i suoi amici, si sedeva lontano da loro durante le lezioni che avevano in comune, saltava i pasti e non si fermava neanche in Sala Comune, preferendo studiare nel dormitorio femminile, dove solo Dominique poteva avere accesso. Non voleva parlare con nessuno, era determinata a tenere tutti lontano dalla sua vita ma e la bionda, la meno insistente e invadente, sapeva quando smettere di fare domande e tenersi alla larga.

Era quasi ora di cena, quando Noah e James lasciarono la Sala Comune dei Grifondoro per andare a scontare l’ultima ora di punizione, immersi nei propri pensieri; il giovane Baston era furioso e preoccupato allo stesso tempo a causa di Charlie, non si rivolgevano la parola dalla discussione avvenuta quella notte in infermeria, non erano mai stati così distanti e la cosa gli pesava, lo faceva stare male non sentire la sua voce, il calore del suo corpo e l’odore dei suoi capelli. L’ultima volta che l’aveva sentita aprire bocca era stata alla riunione della squadra di Quidditch, quando aveva raccontato agli altri giocatori il motivo per cui, presumibilmente, si era sentita male durante la partita, si era scusata e, poi, se ne era andata, visto che, a causa della ferita alla testa, non poteva partecipare agli allenamenti che avrebbero avuto luogo subito dopo.

Anche l’altro stava pensando alla sua amica, a come le sembrasse così diversa e triste, a come non fosse da lei starsene sempre chiusa in dormitorio e, da sola. Che fine aveva fatto la ragazza sempre allegra e solare?

Voltarono l’angolo e si bloccarono, perché davanti a loro c’era Sienna Finnigan, perfetta e meravigliosa come sempre, anche con indosso la divisa scolastica.

-Ciao, Noah.- aveva una voce sensuale, e delicata.

-Ciao, Sienna.- rispose al saluto con il solito sorrise da ebete.

-Ci sono anche io, comunque.- il moro, rimasto isolato a causa della scenetta, cercò di attirare l’attenzione.

-Scusami, James, non volevo essere scortese. Mi dispiace averti ignorato, solo che avrei bisogno di parlare con Noah e non riesco mai a beccarlo da solo.- oltre che bella era anche una ragazza educata, o, almeno, sapeva quando esserlo, e come raggirare le persone e questo, per sua fortuna, la faceva amare da alunni e insegnanti.

-Non preoccuparti. Io mi avvio, ci vediamo giù in aula.- si congedò e lasciò i due soli.

-Finalmente! Non sai da quanto sto aspettando questo momento.- la ragazza gli si avvicinò con fare civettuolo.

-Quale momento?- le chiese, non sapendo bene come comportarsi.

-Stare sola con te!- gli fece l’occhiolino e lui deglutì rumorosamente.

-Visto che non ti decidi a farlo, ci penso io.- continuò lei. –Vuoi venire a Hogsmeade con me?- la domanda lo lasciò perplesso, da una parte non aveva capito di interessarle e, dall’altra, non sapeva cosa risponderle. Il pensiero di Charlie aleggiava ancora nella sua testa, ma, in quei giorni, la odiava, visti i suoi comportamenti, visto che, pur avendo diciassette anni, si comportava come una bambina di cinque, mentre Sienna, nonostante avesse la sua stessa età, si comportava come un’adulta, era seria, affidabile, tranquilla e comunicativa, non impulsiva, irascibile o lunatica come l’altra.

-Sì, voglio andare a Hogsmeade con te!- rispose, senza, forse, rifletterci a sufficienza; sapeva che avrebbe ferito Charlie, ma, in quel momento, non gli importava.

 

-Allora, cosa voleva Sienna?- chiese James, non appena l’amico mise il piede in aula.

-Mi ha chiesto di uscire sabato prossimo, a Hogsmeade.- rispose lui, come se fosse una cosa normale.

-Hai detto di no, vero?- l’incredulità del ragazzo si capiva dal tono della voce.

-In realtà ho deciso di accettare.- Noah, invece, continuava a rimanere tranquillo.

-E Charlie?- la domanda uscì spontanea.

-L’ha scelta lei questa situazione! Non può pensare di ignorarmi e far rimanere invariato quello che c’è tra di noi: deve imparare che ogni azione ha una conseguenza!- aver nominato la giovane aveva risvegliato in lui il senso di colpa, che avrebbe preferito lasciare sopito.

-Noah, è malata! È questo il momento in cui ha più bisogno di noi: non puoi abbandonarla così!- James non credeva alle sue orecchie, non gli sembrava nemmeno di star parlando con il suo amico.

-Una ragazza come Sienna Finnigan mi chiede di uscire e io dovrei rifiutare per una che non mi rivolge la parola da giorni e non fa altro che mentirmi?- l’altro, al contrario, era sempre più furioso.

-Ma che hai che non va? Charlie è nostra amica da dieci anni e tu le volti le spalle, perché una gallina qualunque si interessa a te?- forse paragonare Sienna a un animale dalla dubbia intelligenza non era stata una buona mossa, ma quando si è nel bel mezzo di una discussione si dicono cose di cui, poi, ci si pente.

-Non vuole farsi aiutare, lo capisci? Non ci vuole tra i piedi e io non voglio lei!-

James non seppe replicare, conosceva la testardaggine del suo amico e, se aveva deciso di uscire con quella ragazza, lui non sarebbe riuscito a fargli cambiare idea in alcun modo.

Tra i due calò un silenzio glaciale, che si protrasse per l’intera ora di punizione e per il resto della giornata; nessuno dei due voleva chiedere scusa all’altro, entrambi troppo orgogliosi per ammettere di aver esagerato, troppo sicuri di essere nel giusto.

   
 
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