Come accadde
Io odio
scrivere.
So che
probabilmente
vi sembrerà strano, ma è così: lo odio.
Credo che
questo sentimento sia nato la prima volta in cui mi è stato
dato un tema come
compito scolastico; sapete, i primi titoli che danno sono sempre i
più atroci
e, per qualche sadico scherzo del destino, sono anche i più
comuni: “Parla di
te”, “Descrivi un tuo amico”,
“Come hai passato le vacanze?”. Non so voi, ma a
me, leggendo queste cose, mi vengono sempre i brividi sulla schiena.
Ho subito
trovato terribile essere costretti a scrivere di se stessi o di
qualsivoglia
argomento, senza magari neppure avere qualcosa da dire, o comunque non
volerlo
fare. Ma la cosa che mi irritava di più, e questo ancora al
giorno d’oggi, è la
verità che ho ben presto scoperto: non bisogna scrivere la
verità, anzi, il
contrario semmai. A nessuno interessa davvero. Ti devi limitare a
scrivere
quello che è giusto, nella norma, stando attenta ad usare
bene aggettivi ed
avverbi e facendo un adeguato sfoggio delle tue capacità
linguistiche. Tutto qua.
Poi, se hai raccontato la vita di un altro, hai parlato di un amico che
non
esiste, di una vacanza che non hai mai fatto o esposto idee che non ti
hanno
mai lontanamente sfiorato, non è importante.
In pratica,
c’insegnano subito a mentire. O meglio, a capire
ciò che ci viene chiesto e a
dire solamente quello, senza togliere o aggiungere
nient’altro. Un modo come un
altro di definire l’ipocrisia e l’opportunismo.
Poi, definitemi esagerata o
quello che vi pare, la mia idea è questa e non
cambierà di certo. Non dico di
essere sicura di aver ragione, semplicemente questa è la mia
opinione. Per questo
odio scrivere, è la ovvia conseguenza del mio totale
disprezzo per gli
ipocriti.
Al contrario,
mi piace disegnare. E sono piuttosto convinta di essere anche molto
brava. Uso sempre
carta e matita, la differenza è che in questo campo non ho
limiti. Nessuno mi
dice cosa disegnare. Lo faccio semplicemente perché mi
piace, il che mi sembra
la migliore motivazione che una persona possa avere.
Il mio
progetto,
infatti, finite le medie, era iscrivermi ad un liceo artistico; per me,
illusa
dai miei dolci sogni infantili, sarebbe stato quasi il paradiso.
Arrivò mio
padre, dall’alto della sua onniscienza, a spezzare il mio
incanto.
“L’Artistico,
Joey?”, mi disse. “Ah! Mia figlia
all’Artistico! Vorrai scherzare, spero”. Se ne
andò facendosi grosse risate. Poi, sfortunatamente,
tornò, questa volta con l’aria
seria e grave tipica del genitore esperto. Proferì che avrei
frequentato il
classico, l’unica scelta possibile per una ragazza
intelligente come me. E non
c’era da discutere.
Io, dal
mio canto, non avevo certo intenzione di discutere. È
già da molto che ho perso
la voglia anche solo di parlare col grand’uomo che
è mio padre. Una persona all’antica,
che non ha ancora metabolizzato il fatto che siamo usciti dal
‘900.
Mi ricordo
quand’ero piccola, che dal mio metro e venti lo consideravo
quasi un dio. Mi affannavo
a cercare un argomento di conversazione che lui ritenesse abbastanza
elevato
per prenderlo anche solo in considerazione. E quando parlava con me era
una
gioia, lo rammento bene: mi sentivo così importante!
Poi capii.
Capii che lui non parlava con me, parlava con la sua figlia perfetta,
quel
piccolo genio che a meno di dieci anni era in grado di andare
discorrendo di
politica, scienza ed economica. Ma non ha mai provato a chiedermi di
ciò che m’interessava,
così pure io ho smesso di farlo con lui.
Così
sono
andata al classico.
Mia madre,
probabilmente se gliene avessi parlato, avrebbe sostenuto la mia idea
iniziale,
ma sarebbe stato del tutto inutile poi: avrebbe subito ceduto
all’infinita
saggezza di mio padre, e avrebbe dato ragione a lui. Quindi non gliene
ho
neanche parlato.
Mia madre
è una cara donna e mi sta sempre a sentire; con lei non
parlo da quando avevo
tredici anni, semplicemente perché ho capito che tutto
quello che potevo
ottenere confidandomi con una donna che passa la metà del
suo tempo ad
addobbare la casa come un uovo di Pasqua, era un sorriso e una scatola
di
cioccolatini conditi con tanto amore.
Non pensate
male, i miei genitori sono tanto cari e io li amo sinceramente, ma
ritengo
inutili e privi di significato i loro grandi discorsi, così
ho preso l’abitudine,
quando passeggiamo, viaggiamo, o qualsiasi attività a lungo
termine, di
infilarmi le cuffiette del mio iPod nelle orecchie ed estraniarmi dal
mondo,
senza dir niente a nessuno. Poi pian piano l’abitudine
è diventata bisogno e
poi ossessione, tanto che ora non posso più uscire di casa
senza di lui. Questo
perché ho scoperto che la musica…la musica
è forse l’unica cosa che può essere
interamente tua. La scegli tu, e nessuno ti può dire che
quella scelta sia
giusta o sbagliata, semplicemente…è la tua, ed
esprime quello che sei tu. E la
musica ti riempie, ti segue in ogni momento e c’è
una canzone per ogni
situazione, ogni emozione, ogni gesto.
E
così,
senza accorgermene o volerlo, sono diventata la ragazza iPod.
--my space--
Ok, sarò sincera con voi: avevo scritto questo prologo un pò di getto, in una serata di malinconia, immaginando la vita di questa ragazza fuori dal comunue. Rileggendolo, l'ho trovato piuttosta carino e ho deciso di postarlo, avendo tutte le intenzioni di lasciarlo lì come ua storia incompiuta.
A quanto pare, invece, è piaciuto a qualcun'altro oltre me, così ho deciso di provare a continuare, cercando di descrivere, più che una storia, un momento di vita in cui si trova la mia protagonista. Fatemi sapere se posso cavarmela o è il caso che lasci le cose come stanno.
In ogni caso, grazie mille per le recensioni, e spero di non deludervi con questo (posso chiamarlo così?) primo capitolo.
saluti, egip