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Autore: Aurelianus    08/07/2014    2 recensioni
E se la Germania non avesse mai perso la Seconda Guerra Mondiale, diventando la prima potenza planetaria? Cosa accadrebbe se in un lontano futuro, tutte le nazioni della Terra e le colonie fondate nello spazio dovessero far fronte comune contro una tremenda minaccia aliena? Le antiche rivalità, le vecchie contese, sarebbero accantonate? Ciò che resta dell'URSS, il potente Reich, l'Italia, l'Australia, gli USA e le altre nazioni sarebbero in grado di mettere insieme le loro forze e combattere non per un futuro migliore, ma per la possibilità di avere un qualsiasi futuro?
Storia scritta sulla base di un'idea dell'autore EFP John Spangler
Genere: Avventura, Azione, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Berlino, 16 dicembre 2458, ore 10.07 (data terrestre corrispondente al calendario militare della Wehrmacht)
Tutta la Germania si era fermata. Ogni colonia del sistema solare, ogni colonia Interna aveva inviato i propri delegati a porgere l’ultimo saluto ad Alexander Wagner, Ammiraglio della Kriegsmarine. Solamente le colonie Esterne, coloro che più delle altre gli erano debitrici, coloro che tutto dovevano a suo padre, non avevano mandato nessuno. Per quindici anni Alexander Wagner aveva lottato, difendendole strenuamente; decine di colonie non erano cadute sotto la furia Korakiana perché lui le aveva salvate. Inneggiato a nuovo eroe, si era sobbarcato la responsabilità di dover combattere da solo contro un nemico di una determinazione cieca, tecnologicamente più avanzato e sempre più numeroso ad ogni anno che passava.
Lodato, glorificato e amato perché membro dell’élite ristrettissima che aveva saputo opporsi con efficacia alla minaccia aliena, era stato ritenuto invincibile: in quindici anni, formalmente, non aveva mai perso una battaglia. Il salvatore, era stato definito, senza di lui i Korakiani sarebbero già arrivati sulla Terra, o vi sarebbero molto vicini. Questo ripetevano ostinatamente gli alti ufficiali, i funzionari e la gente comune, imbevuta più degli altri di propaganda, rivolgendosi alla bara di marmo avvolta nel grande stendardo rosso e bianco, su cui campeggiava il simbolo della loro nazione: la svastica.
Eppure le colonie Esterne, coloro che dovevano la propria sopravvivenza a suo padre, non erano venute a rendergli omaggio. Il grande Ammiraglio non aveva saputo tener fede al mito dell’invincibilità che gli era stato edificato attorno, nella sua ultima battaglia era morto. Aveva sconfitto la poderosa flotta aliena che bramante di sangue aveva attaccato Aachen; la sua immolazione, l’ultimo sacrificio della sua flotta affaticata, provata da anni di guerra aveva salvato i due pianeti abitati del sistema. Ma lui era morto. E così tutti i grandi eroi che lo avevano seguito in battaglia. Relitti, semplici ombre di quello che erano stati prima, ridotti a meri fantasmi smunti e scarni, dagli occhi spiritati,  che procedevano per inerzia combattendo giorno dopo giorno, anno dopo anno, contro un nemico troppo al di sopra delle loro possibilità;  ombre che la nera mietitrice non impensieriva più. E quando questa era alfine sopraggiunta, l’avevano accolta con gioia; avevano cessato di soffrire, loro.
Eppure le colonie Esterne avevano riposto tutte le speranze nell’Ammiraglio, ma lui, ora, era morto. Non c’era più nessuno che le avrebbe difese. Alexander Wagner aveva fallito, aveva abbandonato quegli insediamenti, lasciandoli alla mercé del terribile nemico alieno. Li aveva delusi tutti, non era stato capace di essere l’uomo invincibile che tutti avevano creduto fosse.
Il cielo, di un candore lattiginoso, lasciava intendere che presto avrebbe nevicato. L’enorme corteo era giunto ai piedi dell’Altare della Patria. In quel mastodontico edificio da più di cinquecento anni, tutti i Fürher e i grandi ufficiali elevati per meriti insigni venivano tumulati in un’ultima dimora, affinché potessero compiere il freddo sonno che li avrebbe portati al definitivo e lento sfacelo in un trionfo di essenze profumate, oro e marmo.
Nemmeno nella morte i grandi erano uguali alle miriadi di esponenti del volgo, che pure erano venuti adoranti a porgere le proprie condoglianze. Neppure nella morte i ricchi e i privilegiati imputridivano come i poveri, il Nazismo non aveva cambiato nulla. Potevano adularti da vivo perché necessitavano del tuo consenso, ma da morto non valevi più niente e avresti avuto un anonimo funerale, in un cimitero sperduto ai margini delle grandi metropoli. E forse sarebbe stato meglio così, gli sconosciuti non avrebbero dovuto sopportare tutto quel peso mentre il momento più brutto delle vita di un figlio si consumava con tutta la sua impietosa e feroce crudeltà.
Il rimbombo della marcia si fermò, insieme alla sua famiglia venne condotto al palco allestito innanzi la grande e marmorea scalinata che conduceva nell’Altare.
La retorica roboante e incalzante del Fürher, Adolf Schultz, fu condotta in ogni luogo della grande piazza dalla sua potente voce baritonale, amplificata da megafoni celati in fulcri acustici ben scelti. Definì suo padre come il salvatore della razza umana, del Nazismo e il vincitore delle barbariche e inferiori orde aliene. La folla e i militari, alzarono il pugno al cielo urlando tutta la loro approvazione.
Esaltati dal discorso, iniziarono a intonare in coro “Heil Wagner! Heil Wagner!” in un circolo ritmato e infinito. Folli, accecati da una fede verso una struttura politica vuota e menzognera, la loro litania si levò potente mentre i primi, lattei fiocchi discendevano indolentemente al suolo, sporcando di bianco, con il loro candore immacolato, gli intarsi e le insegne del partito incise nelle lastre poggiate a terra, nel corridoio adibito alle parate.
Salvatore del Nazismo suo padre, che lo aveva sempre ritenuto un pomposo e privo di senso lascito di un passato scomodo, che avrebbero dovuto dimenticare e lasciarsi alle spalle.
Un vento gelido spirava e pungeva i presenti, ma inebriati dalle loro credenze dogmatiche sembravano non avvertire il freddo che si insinuava nelle ossa, spegnendo lentamente ma implacabilmente ogni calore.
Sua madre fu chiamata a pronunciare un ultimo saluto. Era splendida nel suo vestito scuro da lutto; i suoi occhi erano umidi e rossi, eppure non scendevano lacrime sul suo volto: le aveva già versate tutte.
Fedele al suo ruolo di moglie e madre Nazista, interpretò la sua parte, convinta di ogni formula cerimoniale che recitava una dopo l’altra.
Poi fu il turno di sua sorella, lei aveva dodici anni, era la maggiore. Spettava a lei parlare per tutti i figli dell’Ammiraglio.
Ma appena si posizionò di fronte al microfono, le lacrime, sino ad ora a stento trattenute, scesero copiose. Piangendo e gemendo riusciva solo a chiamare il padre, lo implorava di tornare e, persino lei, quell’ ottusa ignorante, lo malediva perché l’aveva lasciata sola, abbandonandola.
Il macigno di gelida roccia che aveva nel petto si sciolse appena, lasciando spazio ad una sensazione di insofferente fastidio verso la ragazzina.
Il Viceammiraglio Lorenzo Marconi, capo della delegazione italiana, gli pose una mano sulla spalla.
Si volse a guardarlo: lui e suo padre, contrariamente ai secolari rapporti tesi che vigevano fra il Reich e la Repubblica Italiana, avevano stretto una solida amicizia e instaurato una forte complicità. Suo padre glielo aveva rivelato. Il dolore aveva scavato il volto al geniale stratega italico, degna controparte repubblicana del grande Ammiraglio, eppure i suoi occhi erano aridi e la sua espressione impassibile.
Espressione che si incrinò in un mezzo sorriso: “Markus, vuoi parlare tu al posto di tua sorella?” gli domandò.
Assentì seccamente, senza proferire parola.
Si posizionò al microfono e parlò, leggendo il discorso che scorreva sullo schermo che aveva davanti. Era consapevole di essere sotto gli occhi di miliardi di persone, tutte le colonie avrebbero visto la registrazione del funerale entro quattro giorni, cinque al massimo. Eppure parlò chiaramente, con forza e sicurezza, senza tentennamenti. 
Guardava la bara grigio bianca, attraversata da venature più scure, e parlava. Si rendeva conto che stavano tumulando il niente, il fuoco nucleare aveva consumato il corpo di suo padre. La cerimonia era una pura formalità: non avevano più nulla da seppellire.
Nessuna delle migliaia di famiglie che avevano perso i propri padri, le proprie madri, i propri figli, fratelli e sorelle aveva ricevuto indietro qualcosa a cui rendere omaggio. Solo una stupida medaglia placcata in oro, come se quel ninnolo inutile potesse davvero ripagarli della perdita subita e colmare il vuoto che scavava nell’anima.
Si interruppe un istante, infilando la mano nella tasca della sua divisa da Gioventù Hitleriana, ed estrasse il riconoscimento che avevano ricevuto in cambio di suo padre.
Lo strinse con forza, ma non pianse. Non aveva lacrime da versare: non avrebbe macchiato la memoria del suo genitore umiliandolo in quel modo.
Alzò lo sguardo al cielo. I responsabili, li aveva tutti attorno, quei vili e vanagloriosi burocrati che lo avevano mandato a combattere in prima linea senza sufficienti rinforzi e rifornimenti, unicamente per servirsi delle sue sanguinose vittorie di Pirro come propaganda da dare in pasto al popolo. Ma c’erano anche altri che avevano avuto una parte nella sua morte: i Korakiani.
“Lo giuro, padre,” sussurrò, lasciando perdere il discorso ampolloso e costruito, di cui non credeva nemmeno ad una parola “ti vendicherò. Pagheranno per averti strappato da me” dichiarò, vincolandosi. “Così come tu hai sempre battuto ogni loro flotta, così come tu hai sempre distrutto ogni loro nave, anche nell’ultima battaglia, io farò: non sarò pago sino a quando non ne avrò uccisi almeno tanti quanti ne hai uccisi tu. E sarà in tuo nome che lo farò, padre.”
Il Viceammiraglio parve udire il suo voto, intervenne: “Markus, non dire così. Lui non vorrebbe questo, non era la guerra che sognava per te…”
Il grande idiota, Schultz, si interpose fra loro prendendolo per le spalle.
Gli occhi azzurri gli brillavano di una maniacale luce di esaltazione, d’intensità rara e pericolosa.
I capelli biondicci, sin troppo lunghi, gli ricaddero sulla fronte.
“Cadetto Wagner: i miei complimenti, sei un degno figlio del Reich. So che l’Ammiraglio sarebbe orgoglioso di te, tutta la Germania lo è! Tu sei il futuro del Reich, rappresenti i giovani soldati che presto imbracceranno le armi contro il nemico e difenderanno la nostra grande Patria!” urlò affinché i microfoni intercettassero le sue assurdità propagandistiche e le trasmettessero in tutta la piazza, in tutto il mondo, in tutti i domini degli uomini.
Osservò l’omuncolo: un idiota di prima categoria. Aveva strutturato il suo aspetto in funzione del Padre Fondatore, aveva persino fatto crescere dei ridicoli baffetti sopra il labbro superiore che si era fatti tingere di nero, ad imitazione della prima, grande, guida.
L’unico aspetto degno di menzione in lui era la sua capacità di infiammare gli animi delle masse, e proprio per quello ricopriva la carica di Fürher. Si credeva il padrone della razza umana, ma la dura verità era che quel titolo aveva perso ogni valore e potere effettivo da secoli. Il Consiglio militare della Wehrmacht governava davvero, e mandava Schultz innanzi al popolo e le altre nazioni, a prendersi i meriti… ma anche le colpe, tutte le colpe.
Nauseato lasciò perdere e tornò da sua madre, che con suo sommo disgusto ascoltava adorante l’uomo mentre iniziava un nuovo proselito.
Si mise accanto alla delegazione repubblicana, situata non lontano da quella americana.
Da lì si poteva scorgere meglio il feretro. E a quello rivolse la propria attenzione, attendendo che arrivasse il momento di dire definitivamente addio a qualcosa che nemmeno c’era più, qualcosa a cui avrebbe voluto poter parlare ancora una volta. Ma suo padre era stata assassinato, doveva farsene una ragione.
Le grandi astronavi e i caccia rombarono nel cielo: dalle loro formazioni perfette un unico, piccolo e insignificante, velivolo si staccò in un antico e simbolico gesto volto a onorare il defunto; le truppe presenti scaricarono le loro munizioni a salve verso il cielo. Fucili, mitragliatrici, cannoni: il boato fu infernale.
La marcia riprese, finalmente. Entrarono nell’austero edificio, sotto i volti severi e immutabili dei grandi del passato, congelati in busti posti accanto ai loro sepolcri.
E infine arrivarono nello spazio che era stato riservato all’Ammiraglio.
La pesante bara fu introdotta a mano, da un nutrito gruppo di soldati, come voleva la tradizione.
Avvicinandosi prima che fosse completamente all’interno, la sfiorò ricercando quel calore che gli abbracci col padre gli avevano sempre provocato. Ma c’era solo il freddo ad attenderlo: si ritrasse, quasi inorridito.
La lastra fu posta a sigillo della tomba. Solo una piccola targhetta dorata venne sistemata a raccontare chi era stato l’uomo che lì riposava, un busto che riproduceva le fattezze di Alexander Wagner venne collocato accanto. Tutte le vittorie, tutti i sacrifici, le perdite e le fatiche sovraumane, riassunte in poche, insufficienti, righe.
Un riconoscimento che non bastava, lui non era un Fürher non meritava che una piccola menzione.
E allora si rammentò le parole che suo padre una volta aveva pronunciato:
“Non importa se saremo ricordati o no per quello che facciamo, importa solo che lo facciamo e basta. Salvare l’umanità è un fardello che è pesato sulla nostra epoca, non sul futuro. Di quel tempo lontano non ci deve interessare: noi lottiamo per vincere, perché i nostri figli e i nostri nipoti abbiamo la possibilità di vivere, non per guadagnarci una nota piè di pagina in un file storico. E se poi questa arriva, tanto meglio.” 
  
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