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Autore: velvetmouth    11/07/2014    2 recensioni
Primi del Novecento, Emilia Romagna. Le vicende di due giovani nati nel medesimo giorno si intrecciano inevitabilmente: Bianca Catellani, figlia di un ricco proprietario terriero e Orso Grossi, figlio di contadini che lavorano le sue terre. Vicende storiche, personali, in un affresco dell'Italia del periodo che spero di essere riuscita a trasporre fedelmente e in modo coinvolgente.
Genere: Drammatico, Generale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Il Novecento, Guerre mondiali
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La mano di lei gli sfiorò il petto, stringendo con le unghie e lasciandogli piccoli segni a mezzaluna.
Mentre dormiva aveva un'aria distesa da ragazzina, che da sveglia lasciava spazio a quella ruga di ostinata spavalderia che non l'abbandonava mai. Solo con gli occhi chiusi e la bocca semi aperta sembrava docile.
Anche dopo le gravidanze rimaneva la donna più bella che avesse mai visto. La scostò con delicatezza, tenendo la sua mano minuscola nella sua, tremendamente in contrasto: enorme, rozza, piena di calli.
Anche se Olga lavorava nei campi aveva la pelle liscia e vellutata di quando era nata e nessuno riusciva a spiegarsi il segreto, quando gli veniva chiesto lei si limitava a tirare indietro la testa e scoppiare in una di quelle sue fragorose risate a bocca spalancata.
Si alzò in piedi, tirandosi su i calzoni e allacciando le bretelle, rimase ad osservarla, seminuda, la pelle imperlata dalla calura estiva.
Si ritrovò a sorridere, poi camminò fino alla culla e si sporse per controllare che il piccino dormisse, poi con qualche altro passo raggiunse anche il minuscolo giaciglio sul quale dormivano Orso, Demetrio e Tina. Il sole stava per sorgere e, nel giro di una manciata di minuti sarebbe arrivato il fattore per aprire i cancelli e permettere loro di andare nei campi. Si passò il dorso della mano su tutta la faccia, rimanendo a occhi chiusi.
Il vibrare caldo di un corpicino contro il suo lo fece sussultare.
- Ehi, piccinin, che ci fai già in piedi?-
Orso aveva 4 anni, ma lo sguardo sveglio della madre, i capelli lisci e scuri scompigliati sulla fronte già ustionata dal sole.
Il piccolo si limitò a sbadigliare, rimanendo ancorato al petto del padre.
Nella cascina dormivano ammassate tutte le famiglie che lavoravano le terre dei Catellani e il caldo già alle prime luci del giorno era insopportabile mescolato agli odori, rumori di centinaia di persone costrette assieme.
-Vai accanto alla mamma, papà deve andare...-
Il piccolo tirò su col naso e si trascinò sulle sue gambe rinseccolite accanto alla mamma, ancora addormentata, poi salutò il padre con la manina.
Fernando agguantò la camicia sdrucita e se la abbottonò frettolosamente addosso. Uscendo nella corte trovò gli altri parenti e amici già con gli attrezzi di lavoro in mano.
- La siora non si è mica più vista da quando è successo...quello che è successo...-
Il sole stava spuntando dietro le colline, ma già la fresca brezza della notte lasciava spazio alla calura e l'afa. Fernando si stropicciò di nuovo la faccia mentre afferrava la sua zappa e la falce arrossata dalla ruggine.
- Oh Fernandin! Buongiorno-
Guardò in direzione della voce, strizzando gli occhi, poi senza risposta, arraffò una pietra e iniziò a passarla sulla superficie erosa.
- Non è stato facile nemmeno per il Catellani, questo è poco ma sicuro -
Aveva preso a limare il piatto della falce, lentamente, con un movimento quasi esasperato, a testa bassa e senza fiatare. Gli altri continuavano a parlare, in cerchio appena dentro i cancelli che di lì a qualche minuto sarebbero stati spalancati.
L'aria era pesante, si percepiva e non era certo per il caldo imminente.
- E' un peccato che l'abbia presa così, la signora dico... Ci saranno altre possibilità, è ancora giovane...-
- Son passati 4 anni, è stato un colpo troppo duro-
- Non è la prima ne' l'ultima a cui capita una cosa del genere. E' brutto ma è così...-
Ancora la pietra raschiava il ferro. Fsss Fsss Fssss. Quasi sovrastava le voci. Le cicale iniziavano il loro canto infinito.
- Una tragedia altrochè, una tragedia bella e buona!-
-Ma quale tragedia, si vede che questo è il Signore che si rifà di qualche cattiveria!-
La pietra si fermò e così anche le voci. I visi cotti al sole guardarono tutti dalla stessa parte. Ferdinando sollevò la mano, fece scivolare il sasso e poi si alzò, ergendosi in tutta la sua mastodontica stazza. Gli altri ammutolirono.
Fece qualche passo, arrivò nel centro del semicerchio e rimase lì fisso, osservando negli occhi Pasqualino, il figlio di uno dei suoi cugini.
- Non ti vergogni di quello che dici?-
Quasi si potè sentir deglutire il giovane.
- Ti auguro di non provare mai un dolore simile a quello provato dai padroni. Sei solo un caprone imbecille.-
Proprio in quel momento il catenaccio fu fatto cadere e i contadini si avviarono in marcia verso i campi.

Fernando la conosceva bene la sensazione di perdere un figlio, di tenere quel corpicino minuscolo e inerte tra le braccia, ancora sanguinante.
La speranza cieca e ingenua che il petto così piccino prenda di colpo ad alzarsi ed abbassarsi, le manine ad agitarsi e stringere.
Era successo subito prima della nascita di Orso, appena un anno. Nell'aspettare Olga era raggiante di felicità, non vedeva l'ora di stringere fra le braccia il frutto del loro amore.
Fernando stava lavorando nei campi, era quasi sera e il pensiero della moglie in travaglio lo stava facendo uscire di senno. Lo vennero a chiamare mentre portava l'acqua alle stalle, aveva mollato tutto, rovesciando i secchi colmi ed era corso verso la cascina.
Le donne erano tutte nella stessa stanza, il vociare dei bambini appena fuori la porta. Olga stesa su un letto di paglia e stracci che urlava come un ossesso. Gli fu vietato di entrare finchè non si sentì un urlo disumano, disperato.
- Fate entrare il mio uomo!!!!-
Lui aveva spalancato la porta, il sudore acre ancora gli gocciolava dalla fronte, gli incollava i vestiti. Le aveva preso la testa fra le mani, baciando dolcemente le lacrime salate sulle ciglia. Poi si era voltato, smarrito, solo anche se la stanza era piena. Sua moglie, la sua bellissima e forte moglie stava per dargli il suo primo figlio. Aveva paura. Sentiva un peso sopra al cuore, un misto tra terrore e un'esplosione di felicità, il battito che sembrava volergli squarciare le vene. Anche lei era terrorizzata, gli occhi blu sgarrati e la bocca martoriata dalle strette contro i denti.
- Rimani qui con me, ti prego...-
Olga aveva sussurrato, bianca in faccia, distrutta e abbattuta.
-Andrà tutto bene, piccinin, tutto bene-
Aveva continuato a ripeterlo ad ogni spinta, ad ogni urlo soffocato contro il suo avambraccio, ogni volta che una donna correva a prendere altra acqua bollente. L'aveva ripetuto anche quando si era iniziato ad intravedersi la testolina e anche quando era completamente uscita, senza il minimo rumore, senza turbare il moto perpetuo del mondo al di fuori di quella stanza.
Il sangue era dappertutto, inzuppava le coperte, la paglia, il pavimento di assi. Anche la piccola ne era ricoperta, sembrava un involucro intoccabile, fragile, che al primo scossone avrebbe potuto distruggersi in mille pezzi.
La donna che l'aveva fatta uscire scosse la testa impercettibilmente, evitando di incontrare gli occhi di Fernando, che già gli pizzicavano di lacrime.
Olga era rimasta inerme, gli occhi chiusi, le labbra serrate, senza emettere suono. Lei lo sapeva, una madre lo sente.
Fernando l'aveva presa delicatamente tra le sue immense braccia, tenendola come si tiene una reliquia santa, tenne la testolina nel palmo della mano, la piccola schiena contro il braccio. Pianse in silenzio mentre lavava via gli ultimi lembi di legame materno, la asciugò con cura con un pannetto pulito e poi tornò a stringerla come se fosse viva. Era minuscolo quel corpicino appena nato e mai vissuto, che non aveva conosciuto le gioie e le disgrazie della vita, che mai avrebbe compreso la differenza tra giusto e sbagliato, tra ricco e povero, morte e vita. O forse sì, nella sua seppur breve esistenza ovattata la piccola aveva capito molto più di tutti loro cosa significasse morire e cosa invece vivere e lo aveva insegnato proprio quel giorno.
La morte li aveva guardati in faccia uno ad uno e aveva strappato nel modo più terribile una creatura alla madre, una futura donna, futura madre.
Il padrone si presentò di persona appena seppe della notizia e dette loro le sue personali condoglianze, anche a nome della moglie. Sembrava addolorato quanto loro. Non era raro che i bambini morissero, specie durante il parto, ma nella fattoria quel giorno aleggiava lo stesso una malinconia generale, come se la perdita fosse stata di tutti e non solo di quei due giovani genitori.
Ma la vita continuava, lo dicevano tutti, lo avevano detto anche alla Olga, ancora a letto, qualche giorno dopo. Lei era rimasta in silenzio per settimane e Fernando era stato ad un passo dalla follia.
La colpa non era di nessuno, dicevano. Le cose dovevano andare così... Il Signore vi ha tolto questa creatura perchè possiate averne molte più in futuro. Parole comunque troppo vuote per colmare una disgrazia così profonda.
Ma anche quella sconfitta, come tante altre, col tempo sarebbe stata superata.
L'avevano chiamata Maria, come la defunta madre di Olga ed entrambi si erano separati dal suo corpicino promettendosi l'un l'altro che mai l'avrebbero dimenticata, anche se aveva appena appena fatto in tempo a far parte delle loro vite.

La signora Catellani era diventata un fantasma, un'essenza, una presenza, o meglio un'assenza, con la quale spaventare i bambini e riempire le gelide serate invernali. Da quattro anni a questa parte era diventata l'argomento principale di discussioni e speculazioni del circondario. Era sempre bella come una volta? Tutti avevano più o meno fantasticato su quel corpo perfetto, da attrice del cinema, la pelle diafana e i capelli setosi.
Appena sposata, quando era venuta ad abitare nel casale le donne avevano malignato, schioccando le lingue come fruste: una donna del genere non avrebbe resistito a lungo in un posto come quello, così altolocata, delicata e schifosamente ricca di famiglia. No, doveva esserci qualcosa sotto. E il bell'aspetto di Enrico Catellani era soltanto un surplus.
Alcuni dicevano che era diventata una strega, invecchiata e incattivita dal dolore.
Sembra un angelo, dicevano altri, la sofferenza non ha fatto altro che preservare quel suo candido splendore.
Ma nessuno l'aveva più vista da quando era successo il fatto.
Quella mattina di luglio la signorina Bianca non era stata la sola ad uscire dal ventre della madre.
La signora aveva dato alla luce due gemellini, quello nato morto, un maschio. A niente erano valsi gli urli strepitanti della piccola, i vagiti, i primi passi, qualcosa nel cuore della donna si era rotto per sempre.
Per Enrico Catellani forse era stato anche peggio; oltre che un figlio quel giorno aveva perso anche una moglie, una compagna per la vita.
La signora si aggirava leggiadra e totalmente distante, come uno spirito, per le stanze della villa, senza mai parlare con anima viva, un vuoto profondo negli occhi, pozzi scuri su quella pelle di luna.
Il signor Catellani aveva interpellato i migliori medici del Paese e eminenti luminari stranieri, ma a nulla erano servite le cure, le visite, le sedute; la signora continuava a respirare, il suo diaframma si alzava ed abbassava, il sangue le scorreva nelle vene sì, ma... Era come se fosse già morta.
Fu durante un pomeriggio d'autunno di quello stesso anno,il 1904, che Fernando Grossi la vide.
La villa pareva deserta, lui era entrato per consegnare alcune casse da sistemare nello scantinato. Nessuno gli rispose, vagò per qualche tempo alla ricerca di una cameriera.
Non seppe nemmeno lui perchè aveva iniziato a salire le scale, gradino dopo gradino si era sentito sempre più in colpa, come se stesse deflorando un paradiso vergine, il cui accesso era vietato a tutti. Lei era lì in cima alle scale, eterea, quasi irreale, leggiadra in un vestito svolazzante candido. Fernando era rimasto con la bocca spalancata e, lesto come una lepre aveva fatto per andarsene se non che quella lo aveva chiamato.
Lei, che non parlava se non a monosillabi, i cui occhi spenti sembravano vedere tutto e nulla, senza coglierne il significato.
Fernando si arrestò a metà scala, dove era già arrivato nella sua fuga. La signora ripetè il suo nome, dolcemente.
Ricordò i primi tempi, quando i signori erano appena sposati e lei era tanto gentile e affabile con tutti, quel sorriso aperto sempre sul viso. Era diversa, lo era sempre stata. Non c'era superiorità nei suoi modi, ne' spocchiosità, anzi...
- Signora...-
- Fernando tu, mi trovi brutta?-
I suoi occhi verdi lo avevano ancorato e lui non potè fare altro che boccheggiare come un pesce appena pescato, la mano che stringeva il corrimano così tanto da imbiancargli le nocche. Lei iniziò a scendere, aveva i piedi nudi e sembrava quasi non toccare terra. Fernando si sentiva impotente, stranito. Non voleva trovarsi lì, gli sembrò sbagliato e ingiusto che lei si comportasse a quel modo, anche se dopotutto non stava per niente bene. Non doveva stare lì con la padrona nella condizione in cui essa si trovava, senza nessuno intorno. Qualcuno poteva vedere e interpretare male.
- Perchè mi fate questa domanda, signora?-
Abbassò lo sguardo, indietreggiando di qualche scalino, mentre lei avanzava sempre di più, gli occhi illuminati da uno strano bagliore. Sembrava sotto un incantesimo che la rendeva insensibile a tutto, estranea ma al contempo incredibilmente audace. Una mano affusolata e bianchissima risalì dal basso ventre, con una lentezza disarmante. Fernando si morse la lingua, gli occhi che quasi uscivano dalle orbite. Le dita fecero scivolare un bottone dentro l'asola, uno dopo l'altro, lasciando scoperto la pelle liscia del petto.
- Signora, dovrei tornare a lavorare... Vi prego-
Lei finse di non udirlo o forse non lo sentì veramente, era come se fosse in trance, completamente assuefatta. Scostò la veste, mostrando i seni piccoli e turgidi, immacolati come il resto del suo incarnato, l'ombelico faceva capolino dall'ultimo bottone aperto.
- Sono brutta?-
Fernando scosse la testa meccanicamente, non riuscendo ad alzare lo sguardo per incontrare quello di lei, sempre più vicina. Li separava ormai meno di qualche spanna.
- Mio marito non mi vuole più...-
Cantilenò lei, con voce mesta e infantile. Il vestito le scivolò dalle spalle, finendole tra i piedi.
- Devo essere tremendamente brutta se mio marito non mi vuole più toccare... Ma sono brutta, Fernando, guardami, lo sono?-
Gli occhi si posarono inevitabilmente su quel corpo pallido, dal chiarore lunare, le forme leggere dei fianchi, le gambe affusolate e lisce. Un tremore viscerale si prese possesso dell'uomo che sentiva dentro, ma ad avere la meglio fu il contadino.
La cinse con le sue braccia possenti, quasi poteva farle due giri attorno al corpo da quanto era esile, con una mano arraffò il vestito e lo calò sulle sue spalle.
- Prenderete freddo così, dovete andarvi a riposare...-
La signora annuì, assente, mentre gli si aggrappava al collo, la testa appoggiata contro il petto. La sollevò senza alcuna difficoltà arrivando fino in cima alla rampa.
Stette attento quando la poggiò a terra. Sembrava una bambola di cartapesta che da un momento all'altro sarebbe potuta volare via, rimanere accartocciata e stropicciata da qualcosa di più grande di lei. Gli fece pena, una tenerezza incredibile stretta miseramenta in quel vestito troppo leggero, la pelle d'oca che gli percorreva tutto il corpo, gli occhi enormi come smeraldi spauriti. Poi iniziò a piangere, lacrime dense, spesse, corpose. Il viso le rimase impassibile, ma fradicio di tristezza.
Fernando non sapeva cosa fare, avrebbe voluto stringerla a se', scuoterla, ripetere che non vi era niente per cui stare a quel modo, che lei era la padrona.... Che cosa avrebbe voluto più dalla vita? Che il marito l'amava, sebbene non fosse proprio uno stinco di santo, che la piccola Bianca aveva bisogno di una madre e che sì, era tremendamente bella, splendida, algida e sensuale. Ma non lo fece. Non lo fece perchè ricordava il suo posto, quale erano i loro rispettivi ruoli, cosa avrebbe rischiato a toccarla di nuovo, a trovarsi in quel posto ancora a lungo.
Ma fu lei ad avvicinarsi, piano, quasi temesse di infrangere un momento prezioso. Rimase sospesa, quasi sollevata da terra, per una manciata di secondi che parvero infiniti.
Si accostò a lui, si poggiò al suo petto. I seni appena coperti dalla veste che gli sfioravano la pelle. Lui chiuse gli occhi, dolorosamente cosciente. Lei invece li aprì, dischiuse la bocca e gli donò un bacio umido, sincero, salato di lacrime. Fernando non oppose resistenza, ma frenò le mani che già la stringevano forte alla vita.
Poi d'improvviso si separò da lui con uno scatto, arrivando al muro, appiattendosi contro. Lo guardò come se lo vedesse per la prima volta, la fronte corrucciata, disorientata.
- Vattene!-
Urlò rabbiosa, con la voce gutturale, quasi un abbaio.
- Ho detto vattene!!!! Esci fuori! Vattene!!! VATTENE!!!!-
Fernando si precipitò giù per le scale, seguito dalle urla convulse della signora. Uscì dalla villa come un forsennato, sparendo poi tra i campi. Solo quando fu abbastanza lontano, quasi arrivato alla cascina decise di riprendere fiato, accasciandosi a terra.
- Ehi Fernandin, cos'hai visto un fantasma, ne'?-

Fu quella l'ultima volta che qualcuno vide la signora. Attorno alla sua figura negli anni a venire si erano addensati misteri sempre più fitti, storie rocambolesche e incredibili che la vedevano protagonista di una fuga con un gruppo di acrobati del circo di Vienna, oppure come fredda assassina, che vagava per la pianura uccidendo capi di bestiame, bevendone il sangue. Fernando comunque non raccontò a nessuno di quell'incontro e presto si convinse che si fosse trattato solamente di un sogno, di una strana fantasia provocata dal caldo.

Faceva caldo nella cascina, un caldo tremendo. L'aria si era fatta densa di odori del pasto, le donne mescolavano la polenta in un grosso pentolone ammaccato mentre i bambini giocavano a rincorrersi sotto le arcate, i piedi scalzi e graffiati dagli sterpi.
Gli uomini avevano già preso posto lungo le tavolate di legno, i cappelli calati sugli occhi, il fumo dei sigari ad offuscare l'aria.
- Non siete certo voialtri che siete andati al comisio della Lega. Voialtri pensate solo a tirar avanti come muli.... Volete questo, volete? Che ci trattino come bestie da soma ancora a lungo?-
Vittorio Grossi, detto Labriola, come il capo della corrente rivoluzionaria del partito socialista, si alzò in piedi indicando uno ad uno i parenti, a suo dire troppo moderati e passivi.
In tutta risposta il cugino Ettore gli sputò sul muso, lasciando che il suo fervore politico si estinguesse in una risata generale.
- Sempre a discorrer di politica tu... Cosa ne vuoi sapere? A me non sembra che ce la stiam passando troppo male. Ci son stati momenti peggiori... -
Labriola sbuffò col naso, un mezzo sorriso strafottente sulla faccia sporca di terra.
- Siete solo delle bestie.... Delle bestie assuefatte dalle false promesse del padrone. Non vi rendete conto che ci sfrutta come fossimo animali? I buoi giù nella stalla hanno più diritti di noi! In quelle zucche vuote non avete nemmeno un grammo di cervello per capirlo? La rovina di questo Paese siete voi e la gente come voialtri! Turati! E' lui la rovina! Con la sua apertura liberale! ALLA ROVINA! ANDREMO ALLA ROVINA!-
Sputò a terra tre volte e poi uscì come una furia, lasciando che gli altri lo guardassero come si guarda un pazzo.
Fernando non capiva niente di politica, ma una cosa la sapeva... Sentiva che stavan per accadere grossi cambiamenti, si avvertivano fermenti sotterranei, sconvolgimenti latenti.
La gente iniziava sempre più ad interessarsi di cose politiche, di affari che esulavano dal piccolo mondo fatto di fatiche nel quale sembravano tirare avanti giorno dopo giorno. Il Partito Socialista, la Lega dei Lavoratori, le sommosse popolari contro i padroni, i primi scioperi. Qualcosa stava mutando davvero.
- Quel toso lì è passo, come fa a dir che il padrone ci sfrutta se ha appena comprato uno di quegli arnesi che trebbia in automatico? Basta una bestia che traina e riesce a far il lavoro di 5 uomini in meno di metà del tempo. Si fatica meno e io sto apposto così-
Un grugnito di approvazione serpeggiò tra le tavole. Ma molti altri non si trovavano d'accordo.
- A me pare solo un arnese diabolico. Fra un po' non ci sarà nemmen più lavoro da fare... Sarà pieno di quegli affari e di noi? Di noi chi avrà più bisogno?-
- Ci saran sempre dei poveracci di cui aver bisogno e sta pur certo che saremo sempre noialtri...-
I discorsi si interruppero all'arrivo dei piatti di polenta fumante e per un po' si rimase in silenzio, le mosche che serpeggiavano indisturbate sulla tavola.
Fu proprio in quei giorni che il Paese fu attraversato da un'ondata rivoluzionaria di sommossa.

Nelle giornate tra il 15 e il 20 settembre 1904 infatti, fu proclamato dalla Camera del Lavoro di Milano il primo sciopero generale della storia d'Italia, promosso proprio dai sindacalisti rivoluzionari di Arturo Labriola, scaturito dal clima di terribile tensione sfociata a seguito delle mattanze avvenute in Sicilia e Sardegna dagli scontri con le forze dell'ordine.
Le giornate di sciopero furono una vera follia, un pericolo crescente e concreto per la borghesia, che richiese o meglio quasi supplicò Giolitti di intervenire in maniera armata. Ma il capo del governo lasciò che l'ondata di proteste e sommosse si sedasse da sola, evitando altri spargimenti di sangue che avrebbero senza dubbio alimentato il malcontento, invece di stroncarlo una volta per tutte.
La mossa di Giolitti fu quella di sciogliere la Camera ed indurre nuove elezioni i cui risultati sancirono l'evidente sconfitta dei socialisti, i cui seggi in Parlamento diminuirono notevolmente, facendo emergere tra l'altro la vittoria schiacciante del riformista Turati.
Ciò che risultò chiaro a seguito del sommovimento proletario fu la fine del sodalizio fra socialismo e giolittismo, ques'ultimo inevitabilmente avvicinatosi alle masse cattoliche conservatrici.
Il primo sciopero d'Italia fu comunque il primo passo verso una nuova impronta, fino ad allora mai sperimentata nel Bel Paese: la lotta sociale come violenza necessaria, contrapposta al dogmatismo utopistico di Marx.
La tesi che il sindacato, non il partito, dovesse essere la massima organizzazione di lotta della classe operaia e che lo sciopero generale dovesse diventare un' arma insurrezionale per rovesciare il regime borghese stava progressivamente affermandosi tra gruppi di operai e di intellettuali che capivano l'insufficienza del riformismo.
Molti si avvicinarono al pensiero socialista, la promessa di un mondo in cui l'uguaglianza tra pari sembrava possibile alimentava le speranze di chiunque si trovasse in una condizione difficile e ciò non fu diverso nemmeno nella cascina dei Catellani. L'interesse politico, l'inasprimento nei confronti dei cosidetti ''padroni'' andò a rafforzarsi nei mesi di quell'anno pregno di stravolgimenti.
Da parte sua Enrico Catellani non si preoccupava ancora di quel grosso problema, finchè i suoi lavoratori erano chini sulle sue terre, niente poteva sfuggire dal suo controllo. O almeno questo era quello di cui sembrava profondamente convinto.

  
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