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Autore: DK in a Madow    22/07/2014    2 recensioni
Non per presunzione, ma aspirava a soggetti un po’ più interessanti della mela rossa lasciata sulla cattedra vuota. Così lasciò che il suo sguardo si perdesse tra i rami degli alberi del cortile dell’Accademia, osservando la rete fitta composta dalla pioggia, come la trama di una tela ruvida e ingrigita, che invece di risaltare i colori, li fa sbiadire.
*
1917
Un'esplosione di colori provocò un'enorme rovina di anime in quell'angolo di Parigi rimasto bohémien.
Due, in particolare, s'incontrarono, toccandosi così a fondo da fondersi.
Fino alla fine.
[Amedeo Modigliani/Jeanne Hébuterne]
Genere: Drammatico, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Il Novecento
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EMOZIONE

 

Quel giorno, un tiepido e timido sole primaverile carezzava i tetti di Montparnasse con raggi simili a lunghe dita, rosse di tramonto. Di calore non ve n’era traccia, piuttosto un’umidità appiccicosa e fresca, che faceva rizzare i peli della nuca e dolere le ossa. Sotto di loro, per la strada, uomini con la bombetta perfettamente abbandonata sulla testa e barboni accantonati agli angoli delle strade, le mani mangiate dal tempo e la miseria, i denti ingialliti come le loro facce. Poi donne e scriccioli che per diventarlo avrebbero dovuto aspettare ancora qualche lustro, ma tutte abbondantemente truccate e poco vestite, tacchi vertiginosi, bocche succulente. Infine, loro. Quelli che preferiscono non parlare, ma dipingere. I più miserabili sistemati alla meno peggio su un marciapiede, sigaretta tra i denti e bottiglia ai piedi, gli altri, i maestri, riparati nel privè di qualche Cafè, a bere vino francese con a fianco le loro stupende mogli, ingioiellate di bijou e tradimenti.

Loro no. Avevano preferito ripararsi dal mondo, scappargli come se fossero stati nudi di fronte al gelo delle notti di Dicembre.

Così, mentre Achille Hébuterne contava sul suo orologio da taschino i minuti che mancavano al rientro della figlia, questa sedeva, perfettamente immobile, nell’atelier di Amedeo Modigliani. Al riparo dal mondo, nella culla dell’arte che a momenti profumava di vernice, altri puzzava di muffa. L’atelier, in realtà, era una catapecchia, una soffitta mangiata dall’umidità, ma con una favolosa balconata che si apriva nel salotto. Quello in cui si trovavano, silenziosi. Una tenda lercia pendeva pigra da un bastone di legno mangiato dalle tarme, scossa da una brezza lieve, che gentile sfiorava le guance di Jeanne, seduta come in attesa di qualcosa, paziente, senza un filo di noia, gli occhi color ambra fissi nel vuoto, segno che la sua mente stava viaggiando per chissà quali fantasie.

Amedeo la guardava, la osservava e poi sorrideva. Le sigarette passavano tra i suoi denti come se fossero state i respiri che attraversavano il suo naso, sul quale una ciocca corvina continuava a cascare, la pelle madida, non di sudore, ma di febbre e concentrazione. Grattava sulla tela come se il volto di Jeanne non lo stesse disegnando, ma accarezzando. Si fermava solo per portare la mano alla bocca, per buttare un filtro bruciato o attutire un colpo di tosse. Quella dannata bronchite lo scuoteva come se ci fosse stato qualcuno dentro di lui che lo prendeva a pugni, facendogli tremare le spalle e le mani.

Non si erano detti niente, nemmeno una parola. Lui aveva accolto Jeanne alla porta come se non avesse fatto altro che aspettarla lì dietro per una vita intera. L’aveva fatta accomodare, con un sorriso e il cenno della mano, e lei aveva obbedito, si è lasciata andare su quella sedia, in attesa di capire che intenzioni avesse il maestro. Aveva portato il cappello con sé, esattamente come le aveva chiesto e ancora lo teneva perfettamente sistemato sulla testa a mo di corona, i capelli sciolti, che cadevano sulle spalle minute.

Erano passate più di quattro ore in quella stanza, ma Jeanne aveva perso la cognizione del tempo, troppo presa ad elaborare la sua idea di Modì, o capire se già ne aveva una, se fosse bastata la prima impressione, o se pur facendosi milioni di domande, avrebbe mai conosciuto quell’uomo. Arrivò solo a una piccola conclusione, la più spaventosa di tutte: voleva conoscerlo. Fino in fondo, capire che cosa si nascondesse dietro quegli occhi neri, usarli come un buco della serratura dalla quale spiare la sua anima. Non le importava se ci sarebbe riuscita, avrebbe tentato comunque. Più volte aveva preso fiato e la sua bocca si era socchiusa, pronta a fare una domanda, qualsiasi, ma all’ultimo istante le sembrava sempre troppo banale e così prendeva a formularne un’altra, e poi un’altra ancora, fino a moltiplicarsi all’infinito e non sapere più quale scegliere. Era così impegnata a trovare l’interrogativo giusto, che non si era nemmeno accorta dei sorrisetti soffocati di Modì, che la guardava mangiarsi il cervello senza saziarsi, e le aveva fatto una tenerezza tremenda quando aveva preso a mangiarsi la pelle delle labbra, come se fosse stata una bambina incapace di esprimere il desiderio giusto davanti a una torta di compleanno. Fu un sollievo quando la vide finalmente aspirare forte dal naso, la domanda che uscì traballando dalle sue labbra come un acrobata incerto.

- Perché l’hanno esiliata, monsieur?

Quella?

Tra tutte le domande che poteva fargli, proprio quella?

Non gli importò di sembrarle sgarbato, così scoppiò in una risata rauca, da fumatore incallito, tant’è che s’interruppe più volte per tossire, e si fermò solo quando si sentì diventare paonazzo per la mancanza d’ossigeno e per gli occhi che schizzavano fuori dalle orbite lacrimando.

- Scusatemi Jeanne! – esclamò tentando di riprendere fiato – Ma, sapete … - di nuovo una breve risata, il volto di Jeanne che si stava infiammando poco a poco per via dell’imbarazzo – Sapete, vi osservo da ore e ho perso il conto delle volte in cui avete aperto bocca per dirmi qualcosa. – riuscì a dirle, mentre la povera giovane iniziava a valutare l’idea di fuggire via da quella stanza e andare a nascondersi dalla vergogna – Ma non credevo sareste mai arrivata al punto di farmi questa domanda. – concluse, passandosi una mano sulla bocca, per poi poggiarla su un fianco, prendendo a guardare Jeanne di traverso.

- Io … - prese a balbettare lei – Tentavo solo di fare un po’ di conversazione, monsieur! – disse, sperando di risultare convincente, ma Modigliani riprese a ridere, meno sguaiatamente, ma sentì che era ugualmente imbarazzante.

- Jeanne! – disse lui, poggiando le braccia sulla cima della tela e poggiandoci sopra il mento – Piccola Jeanne, siete così giovane. Cosa v’importa dell’esilio di un italiano ubriacone e imbrattatele?

Alla domanda, Jeanne sollevò fieramente la testa, come a controbattere, ma poi abbassò lo sguardo, accorgendosi di non avere una risposta. Una che non la mettesse ancora più in imbarazzo, almeno. Voleva sapere così tante cose di quell’uomo che ormai, da ragazza sveglia e intelligente qual’era, non voleva nascondere a se stessa l’interesse che provava per Modì, il fascino che esercitava su di lei, quel lieve accelerare del cuore e quella strana sensazione allo stomaco, come quando si scende uno scalino a vuoto.

Lui la stava ancora osservando, bocca e naso nascosti dietro le proprie braccia, lo sguardo indagatore, in attesa di una risposta che non arrivò, ma che poteva anche immaginare. Jeanne era nel fiore dei suoi anni e, come ogni fiore, non poteva riparare la parte più intima di se stessa al calore di un sole primaverile, ma piuttosto aprirsi, mostrare la sua bellezza e fragilità, rendere limpidi i suoi pensieri.

- Ebreo. – sussurrò lui.

- Cosa? – chiese lei, disorientata.

- Ebreo. – ripeté lui, abbandonando la tela e avvicinandosi alla portafinestra aperta sul balcone – Coperto dai debiti, ma soprattutto ebreo. - ribadì lui, come se fosse una cosa ovvia - Non che mi ci abbiano cacciato a calci e se sei povero, ubriaco e pittore possono tollerarti. Ma se poi sei anche ebreo, beh, non avrai vita facile.

Riprese fiato. Fare un discorso lungo lo affaticava.

- E poi, Livorno da gloria all’esilio … e ai morti la celebrità.*

- Come può un uomo essere additato per la propria fede? – disse lei, sentendo in sé il dovere di difenderlo. Anzi, consolarlo.

- Jeanne, come siete ingenua. – disse lui, poggiando la schiena e un piede contro il muro – Siamo un popolo perseguitato dalla notte dei tempi, conoscete la Bibbia, Jeanne, vostro padre deve avervela inculcata da quando ha rinnegato le proprie credenze!

- Come fate a saperlo? – chiese lei sconvolta.

Già. Ma soprattutto, come fare a spiegarglielo. Lui sarà stato anche ubriaco e zuppo come una spugna quel giorno, ma nella luce grigia e opaca di quell’istituto, gli occhi color ambra di Jeanne erano sembrati due raggi di sole. Per questo l’aveva voluta, per poi esercitare il suo solito charme che altre volte aveva avuto effetto su donne molto meno scaltre e intelligenti di Jeanne. In lei, Amedeo vedeva ciò che avrebbe voluto essere. Spensierato, in ottima salute, ma con quell’entusiasmo e fantasia che li accomunavano. Così, quel giorno stesso, aveva girato tutti i bar di Montmatre e Montparnasse fino a trovare Foujita e chiedergli che cosa sapeva di Jeanne Hébuterne.

È troppo per te, sentenziò senza tanti preamboli. Poi si offrì di pagargli il suo vino preferito, e così il giapponese vuotò sacco e bottiglia.

- L’ho sentito dire da qualche parte, non ricordo nemmeno dove. – disse, tirando fuori dalla tasca dei pantaloni l’ennesima sigaretta, portandola alla bocca con fare distratto, per non far avvertire la menzogna alla giovane Jeanne. Ormai aveva la bellezza di trent’anni, di certo sapeva come ingannare una donna. Così lasciò scattare lo zippo, soffiando una nuvola di fumo tra le parole: - Non fateci caso.

Jeanne si morse le labbra. Nonostante tutte le sottovesti che la coprivano, al cospetto di quell’uomo si sentiva nuda, come se chiuderle la bocca non le bastasse per non dire nulla. Quell’uomo leggeva il suo corpo, sentiva i suoi pensieri. La stava dipingendo, ecco perché. Catturando i suoi tratti, Modì aveva iniziato anche ad interpretarli, leggerli, capire cosa si nasconda tra le linee perfette del volto di Jeanne.

Si guardarono a lungo. A vederli, sembrava che non stessero respirando, lo scandire del tempo delineato solo dalla sigaretta di Amedeo che continuava a bruciare, senza essere aspirata, diventando pian piano cenere che rimaneva perfettamente in equilibrio sopra il filtro. Un pensiero attraversò la mente del pittore e, se solo Jeanne l’avesse conosciuto abbastanza per capire quegli occhi, sarebbe scattata in piedi come una molla, correndo fuori da quell’atelier a gambe levate. Invece restò immobile, ricambiandolo con uno sguardo dolce e confuso. Innocente.

- Si è fatto tardi, Jeanne. – disse lui all’improvviso, buttando via la sigaretta e andando a ricoprire la tela con un lenzuolo – Passate quando volete. Sono qui. Tutti i giorni. – continuò a dire frettolosamente, quasi la stesse temendo, armeggiando con pennelli e colori, tentando inutilmente di metterli in ordine.

Jeanne lo guardò sbalordita, chiedendosi il motivo di quell’improvviso cambio d’umore. Come se non avesse già abbastanza domande ad affollarle la mente. Tentò di fermarle risistemando il cappello sulla testa e alzandosi in piedi, raccogliendo la borsa lasciata a terra.

- Verrò domani. – tentò di dire, ma Modì aveva già voltato le spalle – Arrivederci. – balbettò, ma fu del tutto inutile. Non le restò che abbandonare la stanza, sospirando pesantemente, tormentandosi le mani, tanta era la voglia di capire. Così si chiuse la porta alle spalle, presa dai suoi pensieri e avviandosi verso casa.

Non si accorse nemmeno che, scattata la serratura, i rumori nella stanza di Modì erano finiti.

 

 

*

 

 

La fantasia la portò lontano. Seduta su quella sedia, fissata nella sua perfetta immobilità, la sua mente aveva come la sicurezza della terra ferma dopo un lungo volo. Così i suoi pensieri spiegarono le ali, tornando al giorno in cui un uomo zuppo di pioggia fino al midollo, era entrato nella sua aula. Nella sua vita. Erano già passati tre giorni dall’inizio della posa per il ritratto, ma Jeanne continuava a richiamare alla mente quel momento, il primo, perché l’unico in cui aveva avuto Modì vicino, senza una tela a dividerli. Prendeva quel primo incontro e lo prolungava all’infinito, lo rallentava, fino a notare ogni singolo particolare del volto dell’italiano, o forse solo a immaginarlo.

- Jeanne.

Sobbalzò, sorpresa che questa volta fosse stato Modì a parlare.

- Sì? – balbettò sognante.

- A cosa pensate? – chiese, con naturalezza, l’accenno di un sorriso sul volto, la mano che lavorava frenetica sulla tela.

Jeanne non rispose. Non voleva essere bugiarda con quell’uomo e dire che stava pensando a qualsiasi cosa al mondo che non fosse lui. Così si limitò a sorridergli, con una complicità della quale non si credeva capace e un moto di felicità le riempì il cuore quando Amedeo la ricambiò con lo stesso sguardo.

- Parlatemi di voi, Jeanne!

- E cosa volete sapere? – chiese lei, abbassando lievemente la fronte, gli occhi che sbucavano da sotto il cappello con fare felino.

Che diamine le prendeva?

- Oh, non lo so. – disse lui, serrando per un attimo il pennello tra i denti e analizzando il quadro di fronte a sé – Qualsiasi cosa. – aggiunse a denti stretti per poi riprendere a dipingere.

Jeanne sorrise tra sé e sé. Si guardò intorno, pensando a cosa raccontargli.

- Avete mai avuto l’impressione … - iniziò a dire - … come se il posto a cui appartenete sia quello in cui soffocate e di sentirvi, invece, libero in quello che in teoria dovrebbe essere il posto sbagliato?

Modì annuì sotto i capelli umidi incollati alla fronte: - E chi meglio di me? – chiese sarcastico.

- Io, Modì. – sussurrò lei – Vorrei viaggiare, vedere il mondo, lontano da Parigi. – disse, guardando dei punti nel vuoto con occhi sognanti – Lontana da casa, se così si può chiamare. Piuttosto sembra una prigione.

Modì sospirò, abbandonando mano e pennello lungo il fianco. La guardò con tenerezza, forse un briciolo di compassione. Per quanto la bellezza di Jeanne risultasse ai suoi occhi disarmante e gigantesca, nel parlare, nei suoi pensieri e nei desideri manifestava i suoi diciannove anni. Aveva avvertito nella sua voce il forte desiderio di fuggire via, ma la paura di farlo si era fatta sentire come un urlo in una notte silenziosa.

- Vorrei viaggiare, vedere il mondo che mi circonda. – continuò con occhi sognanti, le mani che le si erano chiuse a pugno – Anche se in fin dei conti mi basterebbe assaggiare la libertà di un giorno passato in campagna, a qualche miglio da qui. O al mare. – aggiunse, illuminandosi – Non l’ho mai visto. – disse, rabbuiandosi all’improvviso.

Non seppe perché, ma abbandonò tavolozza e pennello. Percorse i pochi passi che lo dividevano dalla giovane e la raggiunse, fermandosi a un soffio da lei. Lentamente s’inginocchiò di fronte a Jeanne, guardandola negli occhi, spalancati di sorpresa. Era così vicino che poté avvertire l’essenza floreale che aveva addosso, quella che indossava anche il primo giorno in cui la vide. Con quel profumo l’avrebbe riconosciuta anche in mezzo a un immenso campo di fiori. Mentre la contemplava come un fedele di fronte alla sua Madonna, non si accorse che aveva avvicinato il viso, reclinato la testa, respirato il respiro che lei aveva abbandonato. Trattenne a stento la voglia di sfiorarle il viso e poi, con calma, disse solo: - Lo vedrete, non avete motivo di rattristarvi.

Quelle parole non attraversarono nemmeno l’orecchio di Jeanne, troppo impegnata a perdersi negli occhi di Modigliani; averli così vicini era come avvicinare il ferro alla calamita e staccarsene fu quasi violento quando lui si alzò di scatto, andandosi a rifugiare dietro la tela.

- Anche per oggi abbiamo finito, Jeanne. – disse, dandole le spalle e pulendosi le mani su un canovaccio sporco – La prossima seduta sarà l’ultima, il quadro è quasi pronto. Tornate domani, puntuale alle cinque.

A quel punto si sentì sbattuta in strada. Anche senza aver mosso un dito.

 

 

*

 

 

Era delusa. Forse arrabbiata.

Più tentava di capirlo e più si allontanava dalla soluzione. Chi diavolo credeva di essere quell’imbrattatele sudaticcio e malato? Renoir? Monet? O forse il grande Picasso che, a quell’ora, era di certo disteso tra le braccia di Olga, a immaginarla sulla tela, in tutte le angolazioni e luci. Lo guardava accigliata, ma nemmeno se ne accorse. Mentre continuava a farsi mille domande, sperava di potersi alzare al più presto, far finta di ringraziarlo e andare via.

- Jeanne?

Si accorse che lo stava guardando e distese il volto, sorpresa.

- Il ritrattista, lo vedete? – disse, indicandosi – Sono io! Sono io che devo guardarvi. – sussurrò, reclinando la testa da un lato come ogni volta che voleva gustarsi quelle guance da bambina colorarsi.

Jeanne non rispose, ma socchiuse lievemente la bocca.

Quell’uomo stava iniziando a diventare insopportabilmente acuto, fino a riuscire a leggerle i pensieri. Non lo sopportava. Poi, senza dire altro, lo vide afferrare la tela e, piano, la voltò, facendola girare tra i raggi di luce rossastri che entravano dalla finestra, mostrando controluce la polvere che si sollevava creando vortici.

- Finito. – dichiarò, ficcandosi una sigaretta tra i denti.

Jeanne si sentì … vuota.

Sentì come se l’anima le fosse stata tirata via dal petto, attirata da quegli occhi che la fissavano dalla tela. Ambra pura. Catturati come se glieli avesse strappati dalle orbite. Poi, il suo collo. Infinitamente lungo e sottile sotto il mento lievemente appuntito. Era lei, così come probabilmente credeva di essere.

- Vi piace? – chiese lui con naturalezza.

Jeanne non rispose, continuò ad osservarsi, a perdersi sulle proprie guance lievemente rosee sulla tela.

- Ti ho chiesto se ti piace. ** – ripeté lui, quasi spazientito, appoggiando a terra il quadro e mettendosi le mani sui fianchi.

- Non lo so. – sussurrò lei, mentre lui si avvicinava in maniera impercettibile – Non ho parole. – riuscì a dire, mentre Modì andava a posizionarsi dietro di lei, le mani poggiate sullo schienale della sedia, il naso a un passo dai suoi capelli, già pieno del loro profumo. Lo inspirò ad occhi chiusi, senza avvicinarsi, resistendo alla voglia, stringendo il legno consumato sotto le sue dita, fermandosi con la punta del naso a un respiro dal suo cappello.

Jeanne trattenne il respiro, spalancò gli occhi. Sentiva il fiato di Modì pesarle sul collo, nonostante a proteggerlo ci fosse la sua fidata coltre di capelli. Da sempre ci si era nascosta, come se nessuno potesse passare attraverso quella foresta castana andandole a legger i pensieri. Modigliani, invece, era andato oltre; senza nemmeno intrecciarci un dito, aveva affondato nei suoi pensieri con l’impetuosità di un temporale. Quello che aspettava da tempo, quello che adesso sentiva scrosciare nel suo stomaco come una benedizione.

- Modì, io …

Non concluse, glielo impedì.

Con un gesto fluido, le tolse il cappello dalla testa, facendolo roteare nell’aria prima che arrivasse a terra. Poi, fece scivolare lentamente una mano sul suo collo, sfiorandolo come se fosse il gambo di un’orchidea, piegandolo lievemente all’indietro, facendo scivolare quella distesa di capelli lungo lo schienale. La osservò, da vicino le sembrò più donna, proprio come l’aveva disegnata. Fissandola negli occhi trovò un fuoco che cancellò la prima immagine che ne aveva acquisito; in quel giorno piovoso, gli erano sembrati innocenti, persi, cristallini. Ora, invece, lo guardavano supplichevoli, di una preghiera che lei non avrebbe mai avuto il coraggio di pronunciare ad alta voce.

- Jeanne … Jeanne … - sussurrò, risalendo con la mano fino alla guancia, il capo che ormai gli sfiorava il ventre, il collo diventato corallo nella luce rossastra del tramonto – Cosa siete Jeanne?

La vide deglutire, vedendo la pelle che ricopriva la gola sollevarsi come un’onda.

- Se non lo sapete voi. – disse lei, chiudendo per un secondo gli occhi – Non lo saprò nemmeno io.

Riaprì le palpebre, le ciglia brillarono incastrando qualche raggio di sole.

Scoprì che si era chinato in avanti e che ormai i capelli che gli coprivano la fronte, ora sfioravano il collo di Jeanne con le punte. Strinse i denti, poi si rilassò. Si lasciò andare, in avanti e in basso, fino a trovarle le labbra con le proprie, con una dolcezza che gli ricordò la prima impronta lasciata sulla tela. Sapeva di leggerezza, di libertà, ma Jeanne aveva un sapore in più, che superava anche l’ispirazione. Non riuscì a coglierlo, quel breve contatto non bastava, così premette con più decisione le labbra contro le sue, schiudendole. Mescolò i loro sapori e seppe da subito che se fossero stati colori avrebbero composto un rosso fuoco, acceso, caldo come i tetti di Livorno ad agosto.

Jeanne, il colore perfetto.

Lui, la mano che lo avrebbe modellato per farne arte.

Musa e poeta non erano mai stati così vicini e, quando ciò accadde, fermarono il tempo in un appartamento lercio nel cuore di Parigi.














*verso tratto dalla bellissima Modì di Vinicio Capossela.
** sì, parole copiate pari pari da Ultimo Tango A Parigi, chiedo umilmente perdono.

Note dell'autrice:
Eccomi! ^^
Non che ci fosse la fila ad aspettarmi, ma qualche anima buona sono sicura che c'è.
Il capitolo è stato un parto e non mi convince ancora fino in fondo, ma non ho saputo fare di meglio.
A presto (spero),
Franny

   
 
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