EMOZIONE
Quel giorno, un
tiepido e
timido sole primaverile carezzava i tetti di Montparnasse con raggi
simili a
lunghe dita, rosse di tramonto. Di calore non ve n’era
traccia, piuttosto
un’umidità appiccicosa e fresca, che faceva
rizzare i peli della nuca e dolere
le ossa. Sotto di loro, per la strada, uomini con la bombetta
perfettamente
abbandonata sulla testa e barboni accantonati agli angoli delle strade,
le mani
mangiate dal tempo e la miseria, i denti ingialliti come le loro facce.
Poi
donne e scriccioli che per diventarlo avrebbero dovuto aspettare ancora
qualche
lustro, ma tutte abbondantemente truccate e poco vestite, tacchi
vertiginosi,
bocche succulente. Infine, loro. Quelli che preferiscono non parlare,
ma
dipingere. I più miserabili
sistemati alla meno peggio su un marciapiede, sigaretta tra i denti e
bottiglia
ai piedi, gli altri, i maestri,
riparati nel privè di qualche Cafè, a bere vino
francese con a fianco le loro
stupende mogli, ingioiellate di bijou e
tradimenti.
Loro no. Avevano
preferito ripararsi dal mondo, scappargli come se fossero stati nudi di
fronte
al gelo delle notti di Dicembre.
Così, mentre Achille
Hébuterne contava sul suo orologio da taschino i minuti che
mancavano al
rientro della figlia, questa sedeva, perfettamente immobile,
nell’atelier di
Amedeo Modigliani. Al riparo dal mondo, nella culla dell’arte
che a momenti
profumava di vernice, altri puzzava di muffa. L’atelier, in
realtà, era una
catapecchia, una soffitta mangiata dall’umidità,
ma con una favolosa balconata
che si apriva nel salotto. Quello in cui si trovavano, silenziosi. Una
tenda
lercia pendeva pigra da un bastone di legno mangiato dalle tarme,
scossa da una
brezza lieve, che gentile sfiorava le guance di Jeanne, seduta come in
attesa
di qualcosa, paziente, senza un filo di noia, gli occhi color ambra
fissi nel
vuoto, segno che la sua mente stava viaggiando per chissà
quali fantasie.
Amedeo la guardava, la
osservava e poi sorrideva. Le sigarette passavano tra i suoi denti come
se
fossero state i respiri che attraversavano il suo naso, sul quale una
ciocca
corvina continuava a cascare, la pelle madida, non di sudore, ma di
febbre e
concentrazione. Grattava sulla tela come se il volto di Jeanne non lo
stesse
disegnando, ma accarezzando. Si fermava solo per portare la mano alla
bocca,
per buttare un filtro bruciato o attutire un colpo di tosse. Quella
dannata
bronchite lo scuoteva come se ci fosse stato qualcuno dentro di lui che
lo
prendeva a pugni, facendogli tremare le spalle e le mani.
Non si erano detti
niente, nemmeno una parola. Lui aveva accolto Jeanne alla porta come se
non
avesse fatto altro che aspettarla lì dietro per una vita
intera. L’aveva fatta
accomodare, con un sorriso e il cenno della mano, e lei aveva obbedito,
si è
lasciata andare su quella sedia, in attesa di capire che intenzioni
avesse il maestro. Aveva portato il
cappello con
sé, esattamente come le aveva chiesto e ancora lo teneva
perfettamente
sistemato sulla testa a mo di corona, i capelli sciolti, che cadevano
sulle
spalle minute.
Erano passate più di
quattro ore in quella stanza, ma Jeanne aveva perso la cognizione del
tempo,
troppo presa ad elaborare la sua idea di Modì,
o capire se già ne aveva una, se fosse bastata la prima
impressione, o se pur
facendosi milioni di domande, avrebbe mai conosciuto
quell’uomo. Arrivò solo a
una piccola conclusione, la più spaventosa di tutte: voleva conoscerlo. Fino in fondo, capire
che cosa si nascondesse
dietro quegli occhi neri, usarli come un buco della serratura dalla
quale
spiare la sua anima. Non le importava se ci sarebbe riuscita, avrebbe
tentato
comunque. Più volte aveva preso fiato e la sua bocca si era
socchiusa, pronta a
fare una domanda, qualsiasi, ma all’ultimo istante le
sembrava sempre troppo
banale e così prendeva a formularne un’altra, e
poi un’altra ancora, fino a
moltiplicarsi all’infinito e non sapere più quale
scegliere. Era così impegnata
a trovare l’interrogativo giusto, che non si era nemmeno
accorta dei sorrisetti
soffocati di Modì, che la guardava mangiarsi il cervello
senza saziarsi, e le
aveva fatto una tenerezza tremenda quando aveva preso a mangiarsi la
pelle
delle labbra, come se fosse stata una bambina incapace di esprimere il
desiderio giusto davanti a una torta di compleanno. Fu un sollievo
quando la
vide finalmente aspirare forte dal naso, la domanda che uscì
traballando dalle
sue labbra come un acrobata incerto.
- Perché l’hanno
esiliata, monsieur?
Quella?
Tra tutte le domande che
poteva fargli, proprio quella?
Non gli importò di
sembrarle sgarbato, così scoppiò in una risata
rauca, da fumatore incallito,
tant’è che s’interruppe più
volte per tossire, e si fermò solo quando si
sentì
diventare paonazzo per la mancanza d’ossigeno e per gli occhi
che schizzavano
fuori dalle orbite lacrimando.
- Scusatemi Jeanne! –
esclamò tentando di riprendere fiato – Ma, sapete
… - di nuovo una breve
risata, il volto di Jeanne che si stava infiammando poco a poco per via
dell’imbarazzo
– Sapete, vi osservo da ore e ho perso il conto delle volte
in cui avete aperto
bocca per dirmi qualcosa. – riuscì a dirle, mentre
la povera giovane iniziava a
valutare l’idea di fuggire via da quella stanza e andare a
nascondersi dalla
vergogna – Ma non credevo sareste mai arrivata al punto di
farmi questa
domanda. – concluse, passandosi una mano sulla bocca, per poi
poggiarla su un
fianco, prendendo a guardare Jeanne di traverso.
- Io … - prese a
balbettare lei – Tentavo solo di fare un po’ di
conversazione, monsieur!
– disse, sperando di risultare
convincente, ma Modigliani riprese a ridere, meno sguaiatamente, ma
sentì che
era ugualmente imbarazzante.
- Jeanne! – disse lui,
poggiando le braccia sulla cima della tela e poggiandoci sopra il mento
–
Piccola Jeanne, siete così giovane. Cosa v’importa
dell’esilio di un italiano
ubriacone e imbrattatele?
Alla domanda, Jeanne
sollevò fieramente la testa, come a controbattere, ma poi
abbassò lo sguardo,
accorgendosi di non avere una risposta. Una
che non la mettesse ancora più in imbarazzo, almeno.
Voleva sapere così
tante cose di quell’uomo che ormai, da ragazza sveglia e
intelligente qual’era,
non voleva nascondere a se stessa l’interesse che provava per
Modì, il fascino
che esercitava su di lei, quel lieve accelerare del cuore e quella
strana
sensazione allo stomaco, come quando si scende uno scalino a vuoto.
Lui la stava ancora
osservando, bocca e naso nascosti dietro le proprie braccia, lo sguardo
indagatore, in attesa di una risposta che non arrivò, ma che
poteva anche
immaginare. Jeanne era nel fiore dei suoi anni e, come ogni fiore, non
poteva
riparare la parte più intima di se stessa al calore di un
sole primaverile, ma
piuttosto aprirsi, mostrare la sua bellezza e fragilità,
rendere limpidi i suoi
pensieri.
- Ebreo. – sussurrò lui.
- Cosa? – chiese lei,
disorientata.
- Ebreo. – ripeté lui,
abbandonando la tela e avvicinandosi alla portafinestra aperta sul
balcone –
Coperto dai debiti, ma soprattutto ebreo. - ribadì lui, come
se fosse una cosa ovvia
- Non che mi ci abbiano cacciato a calci e se sei povero, ubriaco e
pittore
possono tollerarti. Ma se poi sei anche ebreo, beh, non avrai vita
facile.
Riprese fiato. Fare un
discorso lungo lo affaticava.
- E poi, Livorno da
gloria all’esilio … e ai morti la
celebrità.*
- Come può un uomo essere
additato per la propria fede? – disse lei, sentendo in
sé il dovere di
difenderlo. Anzi, consolarlo.
- Jeanne, come siete
ingenua. – disse lui, poggiando la schiena e un piede contro
il muro – Siamo un
popolo perseguitato dalla notte dei tempi, conoscete la Bibbia, Jeanne,
vostro
padre deve avervela inculcata da quando ha rinnegato le proprie
credenze!
- Come fate a saperlo? –
chiese lei sconvolta.
Già. Ma soprattutto, come
fare a spiegarglielo. Lui sarà stato anche ubriaco e zuppo
come una spugna quel
giorno, ma nella luce grigia e opaca di quell’istituto, gli
occhi color ambra
di Jeanne erano sembrati due raggi di sole. Per questo
l’aveva voluta, per poi
esercitare il suo solito charme che
altre volte aveva avuto effetto su donne molto meno scaltre e
intelligenti di
Jeanne. In lei, Amedeo vedeva ciò che avrebbe voluto essere.
Spensierato, in
ottima salute, ma con quell’entusiasmo e fantasia che li
accomunavano. Così,
quel giorno stesso, aveva girato tutti i bar di Montmatre e
Montparnasse fino a
trovare Foujita e chiedergli che cosa sapeva di Jeanne
Hébuterne.
È troppo per
te,
sentenziò senza tanti preamboli. Poi si offrì di
pagargli il suo vino
preferito, e così il giapponese vuotò sacco e
bottiglia.
- L’ho sentito dire da
qualche parte, non ricordo nemmeno dove. – disse, tirando
fuori dalla tasca dei
pantaloni l’ennesima sigaretta, portandola alla bocca con
fare distratto, per
non far avvertire la menzogna alla giovane Jeanne. Ormai aveva la
bellezza di
trent’anni, di certo sapeva come ingannare una donna.
Così lasciò scattare lo
zippo, soffiando una nuvola di fumo tra le parole: - Non fateci caso.
Jeanne si morse le
labbra. Nonostante tutte le sottovesti che la coprivano, al cospetto di
quell’uomo si sentiva nuda, come se chiuderle la bocca non le
bastasse per non
dire nulla. Quell’uomo leggeva il suo corpo, sentiva i suoi
pensieri. La stava
dipingendo, ecco perché. Catturando i suoi tratti,
Modì aveva iniziato anche ad
interpretarli, leggerli, capire cosa si nasconda tra le linee perfette
del
volto di Jeanne.
Si guardarono a lungo. A
vederli, sembrava che non stessero respirando, lo scandire del tempo
delineato
solo dalla sigaretta di Amedeo che continuava a bruciare, senza essere
aspirata, diventando pian piano cenere che rimaneva perfettamente in
equilibrio
sopra il filtro. Un pensiero attraversò la mente del pittore
e, se solo Jeanne
l’avesse conosciuto abbastanza per capire quegli occhi,
sarebbe scattata in
piedi come una molla, correndo fuori da quell’atelier a gambe
levate. Invece
restò immobile, ricambiandolo con uno sguardo dolce e
confuso. Innocente.
- Si è fatto tardi,
Jeanne. – disse lui all’improvviso, buttando via la
sigaretta e andando a
ricoprire la tela con un lenzuolo – Passate quando volete.
Sono qui. Tutti i giorni.
– continuò a dire frettolosamente, quasi la stesse
temendo, armeggiando con pennelli
e colori, tentando inutilmente di metterli in ordine.
Jeanne lo guardò
sbalordita, chiedendosi il motivo di quell’improvviso cambio
d’umore. Come se
non avesse già abbastanza domande ad affollarle la mente.
Tentò di fermarle
risistemando il cappello sulla testa e alzandosi in piedi, raccogliendo
la
borsa lasciata a terra.
- Verrò domani. –
tentò
di dire, ma Modì aveva già voltato le spalle
– Arrivederci. – balbettò, ma fu
del tutto inutile. Non le restò che abbandonare la stanza,
sospirando pesantemente,
tormentandosi le mani, tanta era la voglia di capire. Così
si chiuse la porta
alle spalle, presa dai suoi pensieri e avviandosi verso casa.
Non si accorse nemmeno
che, scattata la serratura, i rumori nella stanza di Modì
erano finiti.
*
La fantasia la portò
lontano. Seduta su quella sedia, fissata nella sua perfetta
immobilità, la sua
mente aveva come la sicurezza della terra ferma dopo un lungo volo.
Così i suoi
pensieri spiegarono le ali, tornando al giorno in cui un uomo zuppo di
pioggia
fino al midollo, era entrato nella sua aula. Nella sua vita. Erano
già passati
tre giorni dall’inizio della posa per il ritratto, ma Jeanne
continuava a
richiamare alla mente quel momento, il primo, perché
l’unico in cui aveva avuto
Modì vicino, senza una tela a dividerli. Prendeva quel primo
incontro e lo
prolungava all’infinito, lo rallentava, fino a notare ogni
singolo particolare
del volto dell’italiano, o forse solo a immaginarlo.
- Jeanne.
Sobbalzò, sorpresa che
questa volta fosse stato Modì a parlare.
- Sì? – balbettò
sognante.
- A cosa pensate? –
chiese, con naturalezza, l’accenno di un sorriso sul volto,
la mano che
lavorava frenetica sulla tela.
Jeanne non rispose. Non
voleva essere bugiarda con quell’uomo e dire che stava
pensando a qualsiasi cosa
al mondo che non fosse lui. Così si limitò a
sorridergli, con una complicità
della quale non si credeva capace e un moto di felicità le
riempì il cuore
quando Amedeo la ricambiò con lo stesso sguardo.
- Parlatemi di voi,
Jeanne!
- E cosa volete sapere? –
chiese lei, abbassando lievemente la fronte, gli occhi che sbucavano da
sotto
il cappello con fare felino.
Che diamine le prendeva?
- Oh, non lo so. – disse
lui, serrando per un attimo il pennello tra i denti e analizzando il
quadro di
fronte a sé – Qualsiasi cosa. – aggiunse
a denti stretti per poi riprendere a
dipingere.
Jeanne sorrise tra sé e
sé. Si guardò intorno, pensando a cosa
raccontargli.
- Avete mai avuto
l’impressione … - iniziò a dire -
… come se il posto a cui appartenete sia
quello in cui soffocate e di sentirvi, invece, libero in quello che in
teoria
dovrebbe essere il posto sbagliato?
Modì annuì sotto i
capelli umidi incollati alla fronte: - E chi meglio di me? –
chiese sarcastico.
- Io, Modì. –
sussurrò
lei – Vorrei viaggiare, vedere il mondo, lontano da Parigi.
– disse, guardando
dei punti nel vuoto con occhi sognanti – Lontana da casa, se
così si può
chiamare. Piuttosto sembra una prigione.
Modì sospirò,
abbandonando mano e pennello lungo il fianco. La guardò con
tenerezza, forse un
briciolo di compassione. Per quanto la bellezza di Jeanne risultasse ai
suoi
occhi disarmante e gigantesca, nel parlare, nei suoi pensieri e nei
desideri
manifestava i suoi diciannove anni. Aveva avvertito nella sua voce il
forte
desiderio di fuggire via, ma la paura di farlo si era fatta sentire
come un
urlo in una notte silenziosa.
- Vorrei viaggiare,
vedere il mondo che mi circonda. – continuò con
occhi sognanti, le mani che le
si erano chiuse a pugno – Anche se in fin dei conti mi
basterebbe assaggiare la
libertà di un giorno passato in campagna, a qualche miglio
da qui. O al mare. –
aggiunse, illuminandosi – Non l’ho mai visto.
– disse, rabbuiandosi
all’improvviso.
Non seppe perché, ma
abbandonò tavolozza e pennello. Percorse i pochi passi che
lo dividevano dalla
giovane e la raggiunse, fermandosi a un soffio da lei. Lentamente
s’inginocchiò
di fronte a Jeanne, guardandola negli occhi, spalancati di sorpresa.
Era così
vicino che poté avvertire l’essenza floreale che
aveva addosso, quella che
indossava anche il primo giorno in cui la vide. Con quel profumo
l’avrebbe
riconosciuta anche in mezzo a un immenso campo di fiori. Mentre la
contemplava
come un fedele di fronte alla sua Madonna, non si accorse che aveva
avvicinato
il viso, reclinato la testa, respirato il respiro che lei aveva
abbandonato.
Trattenne a stento la voglia di sfiorarle il viso e poi, con calma,
disse solo:
- Lo vedrete, non avete motivo di rattristarvi.
Quelle parole non
attraversarono nemmeno l’orecchio di Jeanne, troppo impegnata
a perdersi negli
occhi di Modigliani; averli così vicini era come avvicinare
il ferro alla
calamita e staccarsene fu quasi violento quando lui si alzò
di scatto,
andandosi a rifugiare dietro la tela.
- Anche per oggi abbiamo
finito, Jeanne. – disse, dandole le spalle e pulendosi le
mani su un canovaccio
sporco – La prossima seduta sarà
l’ultima, il quadro è quasi pronto. Tornate
domani, puntuale alle cinque.
A quel punto si sentì
sbattuta in strada. Anche senza aver mosso un dito.
*
Era delusa. Forse arrabbiata.
Più tentava di capirlo e
più si allontanava dalla soluzione. Chi diavolo credeva di
essere
quell’imbrattatele sudaticcio e malato? Renoir? Monet? O
forse il grande
Picasso che, a quell’ora, era di certo disteso tra le braccia
di Olga, a
immaginarla sulla tela, in tutte le angolazioni e luci. Lo guardava
accigliata,
ma nemmeno se ne accorse. Mentre continuava a farsi mille domande,
sperava di
potersi alzare al più presto, far finta di ringraziarlo e
andare via.
- Jeanne?
Si accorse che lo stava guardando
e distese il volto, sorpresa.
- Il ritrattista, lo
vedete? – disse, indicandosi – Sono io! Sono io che
devo guardarvi. – sussurrò,
reclinando la testa da un lato come ogni volta che voleva gustarsi
quelle
guance da bambina colorarsi.
Jeanne non rispose, ma
socchiuse lievemente la bocca.
Quell’uomo stava
iniziando a diventare insopportabilmente acuto, fino a riuscire a
leggerle i
pensieri. Non lo sopportava. Poi, senza dire altro, lo vide afferrare
la tela
e, piano, la voltò, facendola girare tra i raggi di luce
rossastri che
entravano dalla finestra, mostrando controluce la polvere che si
sollevava
creando vortici.
- Finito. – dichiarò,
ficcandosi una sigaretta tra i denti.
Jeanne si sentì … vuota.
Sentì come se l’anima le
fosse stata tirata via dal petto, attirata da quegli occhi che la
fissavano
dalla tela. Ambra pura. Catturati come se glieli avesse strappati dalle
orbite.
Poi, il suo collo. Infinitamente lungo e sottile sotto il mento
lievemente
appuntito. Era lei, così come probabilmente credeva di
essere.
- Vi piace? – chiese lui
con naturalezza.
Jeanne non rispose,
continuò ad osservarsi, a perdersi sulle proprie guance
lievemente rosee sulla
tela.
- Ti ho chiesto se ti
piace. ** – ripeté lui, quasi spazientito,
appoggiando a terra il quadro e mettendosi
le mani sui fianchi.
- Non lo so. – sussurrò
lei, mentre lui si avvicinava in maniera impercettibile – Non
ho parole. –
riuscì a dire, mentre Modì andava a posizionarsi
dietro di lei, le mani
poggiate sullo schienale della sedia, il naso a un passo dai suoi
capelli, già
pieno del loro profumo. Lo inspirò ad occhi chiusi, senza
avvicinarsi,
resistendo alla voglia, stringendo il legno consumato sotto le sue
dita,
fermandosi con la punta del naso a un respiro dal suo cappello.
Jeanne trattenne il
respiro, spalancò gli occhi. Sentiva il fiato di
Modì pesarle sul collo,
nonostante a proteggerlo ci fosse la sua fidata coltre di capelli. Da
sempre ci
si era nascosta, come se nessuno potesse passare attraverso quella
foresta
castana andandole a legger i pensieri. Modigliani, invece, era andato
oltre;
senza nemmeno intrecciarci un dito, aveva affondato nei suoi pensieri
con l’impetuosità
di un temporale. Quello che aspettava da tempo, quello che adesso
sentiva
scrosciare nel suo stomaco come una benedizione.
- Modì, io …
Non concluse, glielo
impedì.
Con un gesto fluido, le
tolse il cappello dalla testa, facendolo roteare nell’aria
prima che arrivasse
a terra. Poi, fece scivolare lentamente una mano sul suo collo,
sfiorandolo
come se fosse il gambo di un’orchidea, piegandolo lievemente
all’indietro,
facendo scivolare quella distesa di capelli lungo lo schienale. La
osservò, da
vicino le sembrò più donna, proprio come
l’aveva disegnata. Fissandola negli
occhi trovò un fuoco che cancellò la prima
immagine che ne aveva acquisito; in
quel giorno piovoso, gli erano sembrati innocenti, persi, cristallini.
Ora,
invece, lo guardavano supplichevoli, di una preghiera che lei non
avrebbe mai
avuto il coraggio di pronunciare ad alta voce.
- Jeanne … Jeanne … -
sussurrò, risalendo con la mano fino alla guancia, il capo
che ormai gli
sfiorava il ventre, il collo diventato corallo nella luce rossastra del
tramonto – Cosa siete Jeanne?
La vide deglutire,
vedendo la pelle che ricopriva la gola sollevarsi come
un’onda.
- Se non lo sapete voi. –
disse lei, chiudendo per un secondo gli occhi – Non lo
saprò nemmeno io.
Riaprì le palpebre, le
ciglia brillarono incastrando qualche raggio di sole.
Scoprì che si era chinato
in avanti e che ormai i capelli che gli coprivano la fronte, ora
sfioravano il
collo di Jeanne con le punte. Strinse i denti, poi si
rilassò. Si lasciò
andare, in avanti e in basso, fino a trovarle le labbra con le proprie,
con una
dolcezza che gli ricordò la prima impronta lasciata sulla
tela. Sapeva di
leggerezza, di libertà, ma Jeanne aveva un sapore in
più, che superava anche l’ispirazione.
Non riuscì a coglierlo, quel breve contatto non bastava,
così premette con più
decisione le labbra contro le sue, schiudendole. Mescolò i
loro sapori e seppe
da subito che se fossero stati colori avrebbero composto un rosso
fuoco,
acceso, caldo come i tetti di Livorno ad agosto.
Jeanne, il colore
perfetto.
Lui, la mano che lo
avrebbe modellato per farne arte.
Musa e poeta non erano mai stati così vicini e, quando ciò accadde, fermarono il tempo in un appartamento lercio nel cuore di Parigi.
*verso tratto dalla bellissima Modì di Vinicio Capossela.
** sì, parole copiate pari pari da Ultimo Tango A Parigi, chiedo umilmente perdono.
Note dell'autrice:
Eccomi! ^^
Non che ci fosse la fila ad aspettarmi, ma qualche anima buona sono sicura che c'è.
Il capitolo è stato un parto e non mi convince ancora fino in fondo, ma non ho saputo fare di meglio.
A presto (spero),
Franny