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Autore: Pretty_Liar    29/07/2014    3 recensioni
Barbara ha solo diciotto anni, ma ha deciso di sposarsi già con un giovane di Londra, l'affascinante Alan. Tutto sembra procedere a meraviglia, ma quando torna ad Holmes Chapel, per passare l'ultimo mese da ragazza libera prima del matrimonio, ogni cosa sembra precipitare. I suoi sentimenti per il futuro marito, sembrano scomparire alla vista di un vecchio nemico, Harry Styles, più grande di lei di ben sette anni. Il ragazzo ama le piante e tutto ciò che include la
natura, sospeso fra fantasia e realtà, con la spensieratezza che si addice a pochi ragazzi di venticinque anni. Barbara imparerà a conoscere il mondo in cui vive il suo nemico e capirà che infondo la loro non è solo una storia basata su un perenne scontro fra mente e cuore, logica e sentimenti, ma è semplicemente un misto di verità nascoste, un grande sentimento e tutto ciò che sta in mezzo.
~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~
«Comunque porgi gli auguri da parte mia allo sposo», continuò.
«Perché?», chiesi stupita.
«Beh, dovrà essere un santo per sopportarti... Acida come sei. Sembra che hai ogni giorno il ciclo. Sei abbastanza irritante!».
[MOMENTANEAMENTE SOSPESA]
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Tu dici di amare la pioggia, ma quando piove apri l'ombrello.
Tu dici di amare il sole, ma quando splende cerchi l'ombra.
Tu dici di amare il vento, ma quando soffia chiudi la finestra.
Per questo ho paura quando dici che mi ami.
-Bob Marley 
«Anche tu mi manchi tantissimo», dissi tristemente, continuando a vagare per la cucina, con il telefono stretto vicino l'orecchio nella mano destra ed una tazza fumante nella sinistra. 
I miei piccoli piedi nudi, producevano un rumore sordo che inondava l'intera stanza, mentre il pigiama bianco a pois rossi, consisteva in una camicia larga ed un pantalone così lungo che avevo dovuto arrotolare le estremità più di tre volte.
Lo avevo trovato in uno dei vecchi cassetti della nonna in soffitta, dato che mi ero dimenticata il mio di lino nel cassetto del comò del mio lussuoso appartamento, che condividevo con Alan.
«Certo!», esclamai quando il mio ragazzo mi chiese se fossi ancora in linea con il programma della rivista per cui scrivevo.
Parlavamo per lo più dei nostri impegni, di quanto dovevamo impegnarci al massimo e dare il meglio per il nostro lavoro, che veniva prima di tutto.
Lui aveva giusto due anni in più a me ed era un aspirante avvocato ventenne, con le carte in regola ed una famiglia ricchissima alle spalle, che gli forniva di tutto. Non l'avevo mai fatta incontrare a mia madre, per il semplice motivo che loro avrebbero parlato del vino, mentre lei si sarebbe cimentata con storie imbarazzanti della mia infanzia con Harry.
«D'accordo. Ti amo», tentennai, arrossendo leggermente, mentre mi mordicchiato l'indice della mano sinistra libera, dato che avevo poggiato sul tavolo la tazza a chiazze nere, che usavo quando avevo tre anni.
Era stato un regalo di Harry e mia madre aveva insistito affinché non la buttassi e la usassi la mattina, per iniziare bene la giornata.
Fissai il giardino fuori la finestra piccola della cucina, notando che il sole, che stava appena sorgendo, illuminava il prato curato e umido, a causa della rugiada mattutina. Piccole sfere colavano dagli alberi alti ai lati del sentiero in pietra che aveva costruito mio padre, quando io avevo otto anni, con Harry. Mi ritrovai a pensare che lui, il riccio dagli occhi verdi ed il carattere insopportabile, aveva sempre accompagnato tutti i miei giorni, da quelli perfetti a quelli tristi. Non avevo un ricordo dove non apparisse anche lui con i jeans scoloriti, strappati e le unghia piene di fango ed erba.
«Mi hai capito, Barbara?», mi chiese Alan, facendomi sgranare gli occhi, dato che mi ero persa metà della conversazione! troppo impegnata a pensare al mio acerrimo nemico.
Farfugliai qualcosa, pregando che non si fosse accorto della mia distrazione e, dopo una ventina minuti passati a parlare della nuova villa che aveva comprato la sorella a New York, attaccai, gettando il cellulare sul mobiletto del pane, pieno di fiori.
Adesso che lo notavo, tutta la cucina era piena zeppa di fuori, piantati in basi di ceramica dipinti con splendidi paesaggi. Sicuramente opera di mia madre, che amava lavorare la ceramica.
Un forte tonfo alle mie spalle, mi fece sobbalzare, mentre mi giravo di scatto vero il salone, che comunicava con la cucina attraverso un arco, trovando Harry che aveva appena poggiato altri vasi sul tavolo all'angolo del salone ampio e luminoso, con le tre porte finestra che davano sulla veranda del giardino.
«Da quando entri senza il consenso dei padroni di casa?», sbuffai battendo un piede a terra e raccogliendo nuovamente la tazza di cioccolata calda dal tavolo, dirigendomi lentamente verso di lui, che continuava a fissare il mio pigiama.
«Non sapevo che la moda fosse così ridicola a Londra», disse torcendo il naso in un ghigno fastidioso. «Comunque tua madre mi ha dato le chiavi questa mattina prima di scendere. Doveva andare al mercato per prendere gli ultimi nastri per i fiori e io dovevo portare i vasi dentro», scrollò le spalle, pulendosi le mani sul jeans scuro, prima di poggiarsi con il bacino al tavolo dietro di lui ed incrociare le braccia muscolose davanti il petto.
«Nastri per... Cosa, scusa?», chiesi stupita, avvicinandomi notevolmente a lui, curiosa.
Avevo detto a mamma che alla fine avrei organizzato la festa prima del matrimonio  per farle conoscere la famiglia di Alan, ma non sapevo che stesse facendo le cose in grande, come sempre.
«I fiori che vedi, li abbiamo comprati qualche settimana fa io e tua madre. Vogliamo metterli per tutta la casa per il grande evento», disse, sbuffando pesantemente sulle ultime due parole,«Fuori c'è ne sono ancora una quarantina, se non di più. Sono arrivati tutti questa mattina».
Osservai i fiori dietro le sue spalle: nontiscordardimé di un vivace colore azzurro, con il polline giallo acceso.
«I vasi li ha fatto lei e poi li abbiamo portati dal fioraio per fargli mettere i fiori dentro: nontiscordardimé, i tuoi preferiti, nanetta», mi fece l'occhiolino, mettendomi un vaso fra le mani.
L'odore di quei fiori mi invase i sensi, facendomi sentire finalmente a casa.
«Mi mancavano», sorrisi fra i petali, alzando gli occhi verso di lui, che scuoteva leggermente il capo, facendo oscillare la catenina al suo collo. 
Aveva un vago aspetto familiare, ma non riuscivo proprio a ricordare dove l'avessi vista.
«Che c'è? Ti sembro stupida come al solito?», chiesi imbronciata, mettendo le mani suo fianchi quando afferrò il vaso fra le sue grandi mani.
«No, affatto. Mi ricordi tanto la sorellastra di Cenerentola, Anastasia», rise di gusto, facendomi roteare gli occhi al cielo infastidita.
«Divertente», borbottai, pronta a salire in camera mia e non vedere più la sua faccia da stronzo, ma fui bloccata dalla sua mano che, velocemente, si chiuse intorno il mio polso, facendomi prendere la scossa.
Ritirammo insieme i nostri arti verso il petto, emanando un piccolo urlo di dolore.
«Hai messo le mani nella corrente, deficiente?», chiesi fra i denti, massaggiandomi il polso, mentre lui mi faceva la linguaccia.
«Vieni con me, avanti», disse ignorandomi, indicandomi con un cenno del capo la porta d'ingresso, che dava sulla piccola e stretta strada del paese, dove si trovava parcheggiato un enorme camion pieno di fiori.
«Che? È il tuo lavoro, non il mio», sputai acida, alzando il mento all'insù, soddisfatta, ma lui inarcò un sopracciglio, come uno che ne sapeva più del diavolo.
«Ma è il tuo matrimonio, non il mio», ribadì, facendomi rimanere senza parole.
«E va bene, hai vinto», sbottai, afferrando delle ciabatte all'ingresso, infilandomele velocemente, prima di uscire in strada ancora in pigiama, seguita da lui che giocava con la catenina al collo.
«Come sempre, piccola Barbie», rise, mentre si avvicinava ad un uomo sulla cinquantina, che ci scaricò fra le braccia altri vasi.
La prima volta che mi chiamò Barbie fu a dodici anni, quando il paese organizzò in piazza la festa di carnevale, a cui volevo partecipare da più di due anni. Mia madre aveva acconsentito solo se Harry ci fosse venuto. Avevo dovuto fargli da serva per sette mesi per farmi accompagnare, umiliandomi continuamente.
Comunque, quella sera era arrivata, ed io ero super elettrizzata all'idea di incontrare un ragazzo di scuola, Charlie, per cui avevo una cotta dalla prima media.
Avevo messo i miei vestiti migliori e mi ero persino fatta i capelli lisci.
«Avanti muoviti, Barbara, Harry ti sta aspettando», disse mia madre, chiamandomi dal piano di sotto.
Corsi verso il salotto, inciampando quasi nei miei stessi piedi, trovando un Harry in camicia e pantaloni stretti per la prima volta. Aveva diciannove anni e già tutta Holmes Chapel, almeno il mondo femminile, gli sbavava dietro. Peccato che non sapessero del suo dannato caratterraccio.
«Come sto?», chiesi girando su me stessa, davanti mio padre che batté le mani, soddisfatto.
«Sembri una Barbie», sussurrò Harry, arrossendo quando capì che avevo sentito il suo commento,
Indossavo un vestitino a fiori rossi, su uno sfondo nero, che mi arrivava fin sopra le ginocchia, scoprendo le mie gambe pallide.
Quella sera Charlie si avvicinò, mi fece la corte, ma Harry si comportò più bastardamente del solito, urtandomi a posta e facendo così rovesciare il mio bicchiere di succo di mirtilli sul vestito, facendo ridere tutti, persino Charlie, che il giorno dopo a scuola mi prese in giro fino alla noia.
«Come butta Harry?», chiese l'uomo di nome Luca, mentre il riccio contava i soldi da dargli con le lunghe dita leggermente abbronzate e dalle unghie curate.
«Butta avanti, Lu», sorrise Harry, porgendogli le banconote, poggiandosi con un gomito al furgoncino di un blu arrugginito.
Io, intanto, lo fissavo con le mani sporche ancora di terreno, cosa che odiavo altamente, ma non potevo fare la maleducata, entrandomene in casa e lasciandoli lì fuori.
«Il solito, eh ragazzo? Chi è questa bella signorina? Non pensavo avessi messo la testa a posto!», rise dando una forte pacca sulla spalla ad Harry, che sgranò gli occhi, fissandomi subito,«La fidanzatina?».
Mi irrigidii prontamente, stringendo in un pugno la camicia del pigiama, facendomi diventare le nocche bianche.
«No!», mi affrettai a precisare, rivolgendomi più a me stessa che a lui,«Io sono solo... La padrona di casa», aggiunsi imbarazzata, evitando di tendergli la mano per non sporcarmi ancora di più.
«Giusto, la ragazzina che partì per Londra?», mi chiese, continuando quando ebbe un cenno di assenso da parte mia,«Harry mi parlava spesso di te. Tutti i pomeriggi di settembre quando mi aiutava al negozio. Diceva che-».
«Bene Luca!», esclamò nervoso Harry, alzando la voce, mentre io lo fissavo con un enorme sorriso vittorioso stampato sul volto,«Ci vediamo lunedì, okay?».
Lo spinse a forza nel camioncino, impedendoci quasi di salutarci e, quando se ne fu andato, si grattò la nuca imbarazzato.
«Poi ero io quella che sentiva la tua mancanza», dissi acida, facendolo vergognare ancora di più,«Fammi il piacere Harold!».
Mi incamminai velocemente in casa, ridendo del suo essere così infantile. Ma la verità era che adoravo il fatto che avesse parlato di me per tutto l'inverno.
«Si è sbagliato. Parlavo di tua madre, non di te, io ti odio», disse con la voce che si affievolì a sempre di più.
 «Certo, come no!», ridacchia, pronta a salire e cambiarmi. Dovevo andare in città per...
«Aspetta un attimo», mi bloccai a metà scalinata, facendo dietro front e fissandolo con un enorme cipiglio sul volto. «Che voleva dire Luca con messo la testa a posto?», chiesi nervosamente, battendo un piede a terra e tamburellando le dita della mano sulla ringhiera di legno.
«Gelosa?», disse lui, avvicinandosi nuovamente a me, muovendo leggermente le braccia lungo i fianchi dalla linea a V ben visibile sotto la maglia chiara.
«Cosa?! Ma ti pare!», dissi isterica, indietreggiando e mettendo una mano fra di noi quando lo sentii troppo su di me,«Non mi interessa affatto la tua vita sessuale».
Arrossii sull'ultima parola, mentre il suo sorriso si allargava sempre più.
«Certo, come no», mi imitò, «Allora perché lo domandi?», rise, mettendo le mani sulla ringhiera dietro di me, bloccandomi fra quella e il suo corpo caldo.
«Io l'ho detto perché.... Sai che intendevo che quando... Nel momento della verità saprai che io.... Come quando», dissi velocemente, gesticolando ampiamente, mentre lui inclinava la testa di lato, avvicinandosi a me ancor di più.
Il suo odore di erba bagnata e noce moscata mi invase i sensi, facendomi rabbrividire per un secondo, mente il cuore martellava nel petto alla velocità della luce.
Avvicinò le sue labbra al mio orecchio, facendomi solletico alla guancia, di un rosso porpora, con i ricci morbidi che sembravano spirali senza fine.
«Lo hai chiesto perché sei gelosa marcia», sussurrò, facendomi scorrere più velocemente il sangue nelle vene.
Rimasi stordita per un po', pensando alle sue labbra piene che mi sfioravano la pelle dell'orecchio, o al suo fiato caldo, prima di spingerlo con tutte le mie forze, ritornando in me stessa. Odio, ecco cosa provavo per lui. Un grande, immenso e profondo odio.
«Ma cosa...? Non è affatto vero. Non sei il centro del mondo!», sbottai, picchiando l'indice sul suo petto, facendolo annuire falsamente.
«Si, si. Tutto pur di farti stare meglio», ridacchiò, scendendo le scale, afferrando le chiavi della sua macchina sul tavolo del salone.
«È la verità, Harry. Non ho niente da invidiare a quelle oche senza cervello che ti porti a letto tutte le sere. Ovviamente ne cambi una al giorno, come le mutande», sorrisi glaciale, vedendo i muscoli della sua schiena irrigidirsi.
«Tu non sai niente!», sbottò, diventando cupo in volto.
Poi, però, si rilassò velocemente, alzando solo un angolo della bocca per sorridere.
«Gelosa. Solo gelosa sei», ridisse, facendomi ribollire il sangue nelle vene.
«Smettila, idiota! Non sono gelosa!», urlai, seguendolo mentre si affrettava ad uscire di casa, balzando sulla sua macchina.
«Gelosa marcia. Gelosa, gelosa, gelosa», ripeté senza sosta, aprendo lo sportello dell'auto dal lato del guidatore, ma io lo richiusi velocemente, facendolo irrigidire per un attimo.
Adesso era lui spalle al muro, o qualunque cosa sia.
«Basta! Non sono gelosa!», ribadii ancora di più a me stessa,«Mi farei schifo sapendo di essere solo una aggiunta alla tua lista di Troie».
Vidi i suoi occhi diventare seri, mentre mi attirava a se per il polso, che fu scosso da una seconda e leggera scossa, ma lui sembrò sopportarlo.
«Allora vieni tu nel mio letto, così metterai fine alla lunga lista», sbottò innervosito, facendomi arrossire fino alla punta dei piedi. 
Non ebbi neanche il tempo di pensare a qualcosa di sensato da dire, troppo scioccata per la sua proposta. Faceva serio?
«Io...», soffiai sentendo le sue labbra così maledettamente vicine.
Fece sfiorare i nostri nasi, prima di salire bruscamente in macchina, mettendo in moto.
«Era una presa in giro, lo sai no?», disse con voce rude, facendomi scuotere subito.
Era e sarebbe rimasto sempre il solito stronzo nato per farmi soffrire. Che poi non mi aspettavo che fosse vero, eh? Certo che no! E comunque non sarei mai andata a letto con lui, neanche fra miliardi di anni, neanche se fosse stato l'ultimo uomo sulla faccia della terra, neanche...
«Non ti scoperei neanche se mi pagassero», continuò sprezzante, sfrecciando poi subito via, senza avermi neanche guardata in faccia.
E io sapevo, nonostante continuassi a negarlo, che qualcosa si stava rompendo dentro di me.
*Inizio Flashback*
«Non sei affatto carino, sai?», dissi acida, sistemando il lungo vestito rosa da principessa sui miei fianchi grassocci.
Lui rise, affondando la testa nel mio cuscino. Odiavo passare i pomeriggi del sabato con lui, ma la mia mamma e la sua erano amiche, così lo facevo per Anne che era una persona dolcissima a differenza del figlio, che era un diavolo, il cattivo della favola.
«Ho deciso», dissi altezzosa, con la mia vocina chiara, facendogli alzare lo sguardo verso di me, che avevo afferrato una coroncina di plastica, che misi sui capelli ondulati e gonfi come sempre,«Giochiamo alla principessa e lo zombie cattivo, che sarai tu».
Lui si alzò, innervosito da quella mia affermazione, mettendosi di fronte a me in tutta la sua altezza. Avevo solo quattro anni ed ero bassissima in confronto a lui, che ne aveva compiuti da poco undici.
«Io non gioco più a queste stronzate. E poi, casomai, giochiamo al principe e la balena», sorrise glaciale, facendomi cadere delle lacrime lungo le guance.
Lo sorpassai in fretta e, dopo essermi strappata il vestitino da dosso, corsi in giardino, rannicchiandomi su me stessa, sull'amaca fra i due alberi alti.
Lo odiavo così tanto.
*Fine Flashback*

 

 

 

«Anche tu mi manchi tantissimo», dissi tristemente, continuando a vagare per la cucina, con il telefono stretto vicino l'orecchio nella mano destra ed una tazza fumante nella sinistra. 

I miei piccoli piedi nudi, producevano un rumore sordo che inondava l'intera stanza, mentre il pigiama bianco a pois rossi, consisteva in una camicia larga ed un pantalone così lungo che avevo dovuto arrotolare le estremità più di tre volte. Lo avevo trovato in uno dei vecchi cassetti della nonna in soffitta, dato che mi ero dimenticata il mio di lino nel cassetto del comò del mio lussuoso appartamento, che condividevo con Alan.

«Certo!», esclamai quando il mio ragazzo mi chiese se fossi ancora in linea con il programma della rivista per cui scrivevo.

Parlavamo per lo più dei nostri impegni, di quanto dovevamo impegnarci al massimo e dare il meglio per il nostro lavoro, che veniva prima di tutto. Lui aveva giusto due anni in più a me ed era un aspirante avvocato ventenne, con le carte in regola ed una famiglia ricchissima alle spalle, che gli forniva di tutto. Non l'avevo mai fatta incontrare a mia madre, per il semplice motivo che loro avrebbero parlato del vino, mentre lei si sarebbe cimentata con storie imbarazzanti della mia infanzia con Harry.

«D'accordo. Ti amo», tentennai, arrossendo leggermente, mentre mi mordicchiato l'indice della mano sinistra libera, dato che avevo poggiato sul tavolo la tazza a chiazze nere, che usavo quando avevo tre anni.

Era stato un regalo di Harry e mia madre aveva insistito affinché non la buttassi e la usassi la mattina, per iniziare bene la giornata.

Fissai il giardino fuori la finestra piccola della cucina, notando che il sole, che stava appena sorgendo, illuminava il prato curato e umido, a causa della rugiada mattutina. Piccole sfere colavano dagli alberi alti ai lati del sentiero in pietra che aveva costruito mio padre, quando io avevo otto anni, con Harry. Mi ritrovai a pensare che lui, il riccio dagli occhi verdi ed il carattere insopportabile, aveva sempre accompagnato tutti i miei giorni, da quelli perfetti a quelli tristi. Non avevo un ricordo dove non apparisse anche lui con i jeans scoloriti, strappati e le unghia piene di fango ed erba.

«Mi hai capito, Barbara?», mi chiese Alan, facendomi sgranare gli occhi, dato che mi ero persa metà della conversazione, troppo impegnata a pensare al mio acerrimo nemico.

Farfugliai qualcosa, pregando che non si fosse accorto della mia distrazione e, dopo una ventina minuti passati a parlare della nuova villa che aveva comprato la sorella a New York, attaccai, gettando il cellulare sul mobiletto del pane, pieno di fiori.

Adesso che lo notavo, tutta la cucina era piena zeppa di fiori, piantati in vasi di ceramica dipinti con splendidi paesaggi. Sicuramente opera di mia madre, che amava lavorare la ceramica.

Un forte tonfo alle mie spalle, mi fece sobbalzare, mentre mi giravo di scatto vero il salone, che comunicava con la cucina attraverso un arco, trovando Harry che aveva appena poggiato altri vasi sul tavolo all'angolo del salone ampio e luminoso, con le tre porte finestra che davano sulla veranda del giardino.

«Da quando entri senza il consenso dei padroni di casa?», sbuffai battendo un piede a terra e raccogliendo nuovamente la tazza di cioccolata calda dal tavolo, dirigendomi lentamente verso di lui, che continuava a fissare il mio pigiama.

«Non sapevo che la moda fosse così ridicola a Londra», disse torcendo il naso in un ghigno fastidioso. «Comunque tua madre mi ha dato le chiavi questa mattina prima di scendere. Doveva andare al mercato per prendere gli ultimi nastri per i fiori e io dovevo portare i vasi dentro», scrollò le spalle, pulendosi le mani sul jeans scuro, prima di poggiarsi con il bacino al tavolo dietro di lui ed incrociare le braccia muscolose davanti il petto.

«Nastri per... Cosa, scusa?», chiesi stupita, avvicinandomi notevolmente a lui, curiosa.

Avevo detto a mamma che alla fine avrei organizzato la festa prima del matrimonio, per farle conoscere la famiglia di Alan, ma non sapevo che stesse facendo le cose in grande, come sempre.

«I fiori che vedi, li abbiamo comprati qualche settimana fa io e tua madre. Vogliamo metterli per tutta la casa per il grande evento», disse, sbuffando pesantemente sulle ultime due parole,«Fuori ce ne sono ancora una quarantina, se non di più. Sono arrivati tutti questa mattina».

Osservai i fiori dietro le sue spalle: nontiscordardimé di un vivace colore azzurro, con il polline giallo acceso.

«I vasi li ha fatti lei e poi li abbiamo portati dal fioraio per fargli mettere i fiori dentro: nontiscordardimé, i tuoi preferiti, nanetta», mi fece l'occhiolino, mettendomi un vaso fra le mani.

L'odore di quei fiori mi invase i sensi, facendomi sentire finalmente a casa.

«Mi mancavano», sorrisi fra i petali, alzando gli occhi verso di lui, che scuoteva leggermente il capo, facendo oscillare la catenina al suo collo.

 Aveva un vago aspetto familiare, ma non riuscivo proprio a ricordare dove l'avessi vista.

«Che c'è? Ti sembro stupida come al solito?», chiesi imbronciata, mettendo le mani suo fianchi quando afferrò il vaso fra le sue grandi mani.

«No, affatto. Mi ricordi tanto la sorellastra di Cenerentola, Anastasia», rise di gusto, facendomi roteare gli occhi al cielo infastidita.

«Divertente», borbottai, pronta a salire in camera mia e non vedere più la sua faccia da stronzo, ma fui bloccata dalla sua mano che, velocemente, si chiuse intorno il mio polso, facendomi prendere la scossa.

Ritirammo insieme i nostri arti verso il petto, emanando un piccolo urlo di dolore.

«Hai messo le mani nella corrente, deficiente?», chiesi fra i denti, massaggiandomi il polso, mentre lui mi faceva la linguaccia.

«Vieni con me, avanti», disse ignorandomi, indicandomi con un cenno del capo la porta d'ingresso, che dava sulla piccola e stretta strada del paese, dove si trovava parcheggiato un enorme camion pieno di fiori.

«Che? È il tuo lavoro, non il mio», sputai acida, alzando il mento all'insù, soddisfatta, ma lui inarcò un sopracciglio, come uno che ne sapeva più del diavolo.

«Ma è il tuo matrimonio, non il mio», ribadì, facendomi rimanere senza parole.

«E va bene, hai vinto», sbottai, afferrando delle ciabatte all'ingresso, infilandomele velocemente, prima di uscire in strada ancora in pigiama, seguita da lui che giocava con la catenina al collo.

«Come sempre, piccola Barbie», rise, mentre si avvicinava ad un uomo sulla cinquantina, che ci scaricò fra le braccia altri vasi.

 

La prima volta che mi chiamò Barbie fu a dodici anni, quando il paese organizzò in piazza la festa di carnevale, a cui volevo partecipare da più di due anni. Mia madre aveva acconsentito solo se Harry ci fosse venuto. Avevo dovuto fargli da serva per sette mesi per farmi accompagnare, umiliandomi continuamente.

Comunque, quella sera era arrivata, ed io ero super elettrizzata all'idea di incontrare un ragazzo di scuola, Charlie, per cui avevo una cotta dalla prima media. Avevo messo i miei vestiti migliori e mi ero persino fatta i capelli lisci.

«Avanti muoviti, Barbara, Harry ti sta aspettando», disse mia madre, chiamandomi dal piano di sotto.

Corsi verso il salotto, inciampando quasi nei miei stessi piedi, trovando un Harry in camicia e pantaloni stretti per la prima volta. Aveva diciannove anni e già tutta Holmes Chapel, almeno il mondo femminile, gli sbavava dietro. Peccato che non sapessero del suo dannato caratteraccio.

«Come sto?», chiesi girando su me stessa, davanti mio padre che batté le mani, soddisfatto.

«Sembri una Barbie», sussurrò Harry, arrossendo quando capì che avevo sentito il suo commento.

Indossavo un vestitino a fiori rossi, su uno sfondo nero, che mi arrivava fin sopra le ginocchia, scoprendo le mie gambe pallide.

Quella sera Charlie si avvicinò, mi fece la corte, ma Harry si comportò più bastardamente del solito, urtandomi a posta e facendo così rovesciare il mio bicchiere di succo di mirtilli sul vestito, facendo ridere tutti, persino Charlie, che il giorno dopo a scuola mi prese in giro fino alla noia.

 


«Come butta Harry?», chiese l'uomo di nome Luca, mentre il riccio contava i soldi da dargli con le lunghe dita leggermente abbronzate e dalle unghie curate.

«Butta avanti, Lu», sorrise Harry, porgendogli le banconote, poggiandosi con un gomito al furgoncino di un blu arrugginito.

Io, intanto, lo fissavo con le mani sporche ancora di terreno, cosa che odiavo altamente, ma non potevo fare la maleducata, entrandomene in casa e lasciandoli lì fuori.

«Il solito, eh ragazzo? Chi è questa bella signorina? Non pensavo avessi messo la testa a posto!», rise dando una forte pacca sulla spalla ad Harry, che sgranò gli occhi, fissandomi subito,«La fidanzatina?».

Mi irrigidii prontamente, stringendo in un pugno la camicia del pigiama, facendomi diventare le nocche bianche.

«No!», mi affrettai a precisare, rivolgendomi più a me stessa che a lui,«Io sono solo... La padrona di casa», aggiunsi imbarazzata, evitando di tendergli la mano per non sporcarmi ancora di più.

«Giusto, la ragazzina che partì per Londra?», mi chiese, continuando quando ebbe un cenno di assenso da parte mia,«Harry mi parlava spesso di te. Tutti i pomeriggi di settembre quando mi aiutava al negozio. Diceva che-».

«Bene Luca!», esclamò nervoso Harry, alzando la voce, mentre io lo fissavo con un enorme sorriso vittorioso stampato sul volto,«Ci vediamo lunedì, okay?».

Lo spinse a forza nel camioncino, impedendoci quasi di salutarci e, quando se ne fu andato, si grattò la nuca imbarazzato.

«Poi ero io quella che sentiva la tua mancanza», dissi acida, facendolo vergognare ancora di più,«Fammi il piacere Harold!».

Mi incamminai velocemente in casa, ridendo del suo essere così infantile. Ma la verità era che adoravo il fatto che avesse parlato di me per tutto l'inverno.

«Si è sbagliato. Parlavo di tua madre, non di te, io ti odio», disse con la voce che si affievolì a sempre di più. 

«Certo, come no!», ridacchia, pronta a salire e cambiarmi. Dovevo andare in città per...

«Aspetta un attimo», mi bloccai a metà scalinata, facendo dietro front e fissandolo con un enorme cipiglio sul volto. «Che voleva dire Luca con messo la testa a posto?», chiesi nervosamente, battendo un piede a terra e tamburellando le dita della mano sulla ringhiera di legno.

«Gelosa?», disse lui, avvicinandosi nuovamente a me, muovendo leggermente le braccia lungo i fianchi dalla linea a V ben visibile sotto la maglia chiara.

«Cosa?! Ma ti pare!», dissi isterica, indietreggiando e mettendo una mano fra di noi quando lo sentii troppo su di me,«Non mi interessa affatto la tua vita sessuale».

Arrossii sull'ultima parola, mentre il suo sorriso si allargava sempre più. «Certo, come no», mi imitò, «Allora perché lo domandi?», rise, mettendo le mani sulla ringhiera dietro di me, bloccandomi fra quella e il suo corpo caldo.

«Io l'ho detto perché.... Sai che intendevo che quando... Nel momento della verità saprai che io.... Come quando», dissi velocemente, gesticolando ampiamente, mentre lui inclinava la testa di lato, avvicinandosi a me ancor di più.

Il suo odore di erba bagnata e noce moscata mi invase i sensi, facendomi rabbrividire per un secondo, mente il cuore martellava nel petto alla velocità della luce. Avvicinò le sue labbra al mio orecchio, facendomi solletico alla guancia, di un rosso porpora, con i ricci morbidi che sembravano spirali senza fine.

«Lo hai chiesto perché sei gelosa marcia», sussurrò, facendomi scorrere più velocemente il sangue nelle vene.

Rimasi stordita per un po', pensando alle sue labbra piene che mi sfioravano la pelle dell'orecchio, o al suo fiato caldo, prima di spingerlo con tutte le mie forze, ritornando in me stessa.

Odio, ecco cosa provavo per lui. Un grande, immenso e profondo odio.

«Ma cosa...? Non è affatto vero. Non sei il centro del mondo!», sbottai, picchiando l'indice sul suo petto, facendolo annuire falsamente.

«Si, si. Tutto pur di farti stare meglio», ridacchiò, scendendo le scale, afferrando le chiavi della sua macchina sul tavolo del salone.

«È la verità, Harry. Non ho niente da invidiare a quelle oche senza cervello che ti porti a letto tutte le sere. Ovviamente ne cambi una al giorno, come le mutande», sorrisi glaciale, vedendo i muscoli della sua schiena irrigidirsi.

«Tu non sai niente!», sbottò, diventando cupo in volto.

Poi, però, si rilassò velocemente, alzando solo un angolo della bocca per sorridere. «Gelosa. Solo gelosa sei», ridisse, facendomi ribollire il sangue nelle vene.

«Smettila, idiota! Non sono gelosa!», urlai, seguendolo mentre si affrettava ad uscire di casa, balzando sulla sua macchina.

«Gelosa marcia. Gelosa, gelosa, gelosa», ripeté senza sosta, aprendo lo sportello dell'auto dal lato del guidatore, ma io lo richiusi velocemente, facendolo irrigidire per un attimo. Adesso era lui spalle al muro, o qualunque cosa sia.

«Basta! Non sono gelosa!», ribadii ancora di più a me stessa,«Mi farei schifo sapendo di essere solo una aggiunta alla tua lista di Troie».

Vidi i suoi occhi diventare seri, mentre mi attirava a se per il polso, che fu scosso da una seconda e leggera scossa, ma lui sembrò sopportarlo.

«Allora vieni tu nel mio letto, così metterai fine alla lunga lista», sbottò innervosito, facendomi arrossire fino alla punta dei piedi. 

Non ebbi neanche il tempo di pensare a qualcosa di sensato da dire, troppo scioccata per la sua proposta. Faceva serio?

«Io...», soffiai sentendo le sue labbra così maledettamente vicine.

Fece sfiorare i nostri nasi, prima di salire bruscamente in macchina, mettendo in moto.

«Era una presa in giro, lo sai no?», disse con voce rude, facendomi scuotere subito.Era e sarebbe rimasto sempre il solito stronzo nato per farmi soffrire.

Che poi non mi aspettavo che fosse vero, eh? Certo che no! E comunque non sarei mai andata a letto con lui, neanche fra miliardi di anni, neanche se fosse stato l'ultimo uomo sulla faccia della terra, neanche...

«Non ti scoperei neanche se mi pagassero», continuò sprezzante, sfrecciando poi subito via, senza avermi neanche guardata in faccia.

E io sapevo, nonostante continuassi a negarlo, che qualcosa si stava rompendo dentro di me.


*Inizio Flashback*

«Non sei affatto carino, sai?», dissi acida, sistemando il lungo vestito rosa da principessa sui miei fianchi grassocci.

Lui rise, affondando la testa nel mio cuscino. Odiavo passare i pomeriggi del sabato con lui, ma la mia mamma e la sua erano amiche, così lo facevo per Anne che era una persona dolcissima a differenza del figlio, che era un diavolo, il cattivo della favola.

«Ho deciso», dissi altezzosa, con la mia vocina chiara, facendogli alzare lo sguardo verso di me, che avevo afferrato una coroncina di plastica, che misi sui capelli ondulati e gonfi come sempre,«Giochiamo alla principessa e lo zombie cattivo, che sarai tu».

Lui si alzò, innervosito da quella mia affermazione, mettendosi di fronte a me in tutta la sua altezza. Avevo solo quattro anni ed ero bassissima in confronto a lui, che ne aveva compiuti da poco undici.

«Io non gioco più a queste stronzate. E poi, casomai, giochiamo al principe e la balena», sorrise glaciale, facendomi cadere delle lacrime lungo le guance.

Lo sorpassai in fretta e, dopo essermi strappata il vestitino da dosso, corsi in giardino, rannicchiandomi su me stessa, sull'amaca fra i due alberi alti.

Lo odiavo così tanto.

*Fine Flashback*

 

 

  
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