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Autore: nelnerodellanotte    09/08/2014    0 recensioni
Maggie la vita la vedeva come un continuo temporale, e lei era una che i temporali li amava da impazzire.
Diceva che sono solitudini da amare.
“E le persone? Anche le persone sono temporali?”
“Siamo tutti piccoli temporali. Siamo pieni di venti, dentro, venti che portano la nave in salvo e venti che a volte portano fuori rotta. Attraversiamo tempeste, a volte vittoriosi e a volte sconfitti, e siamo tutti quel lampo che nel momento più buio illuminerà tutto di una luce così forte che sembreremo fenice che risorge dalle ceneri.
Siamo tutti temporali: siamo tutti solitudini da amare”
Maggie aveva questa visione della vita, come se si trattasse di una tempesta da vivere e noi fossimo il lampo pronto ad accenderla.
Ed era strano, ma a me questa vita temporale cominciava a piacere, perché sapeva di vita da vivere, di sfide da accettare e di nave da far salpare, con me capitano e il cielo mio amico.
Chissà, forse Maggie sarebbe diventata il mio temporale, un giorno.
Per il momento era solo il lampo che mi accingevo a seguire nella tempesta.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il periodo natalizio finì troppo presto, come al solito, e nell'arco di qualche settimana mi ritrovai per l'ennesima volta a seguire le lezioni in università e a imprecare contro me stesso per la mia modalità di studio, ovvero “faccio il ribelle che fa quello che vuole” fino a due giorni prima dell'esame.

Dopodiché le notti per me diventavano solo tempo extra per studiare.

Violet al contrario era un genio, riusciva sempre a prepararsi volta per volta e agli esami arrivava sempre preparata.

Insomma, faceva tutto quello che io in due anni di università non avevo mai avuto il coraggio di fare.

Dal pomeriggio del 29 dicembre ci eravamo visti sempre più spesso, l'amicizia tra noi andava solificandosi mano a mano e forse grazie a lei stavo diventando una persona migliore.

Una sera mi decisi a presentarla ai miei compagni di sventure universitarie e in poco tempo entrò a far parte del gruppo, come se fosse sempre stata una di noi.

Avvertii John il secchione di starle alla larga, non avrei ammesso nessun tentativo di approccio alla John Don Giovanni di Oxford con lei: era la creatura più bella e fragile che avessi mai conosciuto, e mi sentivo in dovere di proteggerla, come se fosse stata mia sorella.

L'unico che forse poteva essere degno di lei era Fred, Fred Thompson.

Vedendolo interessato lo avvisai subito di non fare scherzi, gli dissi che se l'avesse fatta soffrire avrei anche potuto spaccargli le ossa nel vero senso della parola.

Mi rispose che avrebbe preferito pugnalarsi piuttosto che farla soffrire: la trovai una risposta soddisfacente.

 

Il 22 gennaio era un giorno come un altro al Christ Church college, fuori si gelava e le lezioni erano sembrate interminabili.

Faceva un freddo becco e per di più pioveva.

Ed io odiavo la pioggia.

Mi avviai bofonchiando alla fermata dell'autobus trascinando i piedi, furioso per il mal tempo e poco predisposto a sopportare il freddo britannico.

Continuavo a pensare di essere stato vittima di uno scambio in ospedale: forse non ero inglese, forse ero nato in uno di quei posti caldi, come l'Africa o la California... ma era alquanto improbabile che fosse avvenuto uno scambio di bambini tra gli ospedali di Oxford e quelli americani.

Stavo continuando con i miei deliri mentali quando davanti a me si fermò il mio autobus; mi si affiancò una ragazza che sembrava sparire sotto il suo k-way nero: intravidi il suo profilo, dei capelli lunghi neri e ondulati ad accarezzarle il volto.

Per un attimo mi mancò il respiro.

“Mi scusi ferma a Oxford street per caso?” le sentii chiedere.

“Si signorina, prego”

La guardai ringraziare e andare a sedersi in fondo all'autobus, i capelli neri a incorniciarle il viso.

Gli occhi erano di un color nocciola chiaro, un colore così particolare che sicuramente alla luce del sole avrebbe preso la tonalità dell'ambra; portava un paio di stivali da cavallerizza, dei pantaloni scuri e un maglione bianco a illuminarla, coperto in parte da un trench corto nero.

Le labbra a cuore spiccavano sotto il tocco di un lucidalabbra rosso, delicato nell'insieme.

Era la cosa più bella che avessi mai visto.

Salii sull'autobus, andai a sedermi poco più indietro rispetto a lei e rimasi a guardarla per un po', chiedendomi come avrei mai potuto avvicinarmi a lei, chiederle il nome, scoprire qualcosa in più sul suo conto.

Si avvicinò Oxford Street, lei prenotò la fermata e andò verso l'uscita.

Si voltò per caso a guardare verso la mia direzione, incrociò per qualche minuto il mio sguardo: inizialmente sorpresa, sorrise, le sue labbra a cuore si curvarono all'insù.

Il mezzo si fermò: ringraziò e scese.

Quando l'autobus continuò la sua corsa la osservai fino a quando non sparì dalla mia vista.

In quel momento ne fui certo: un giorno, anche a costo d'inseguire il pullman sotto il diluvio universale, l'avrei ritrovata.

E diavolo, l'avrei inseguita anche senza ombrello.

  
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