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Autore: Helena Kanbara    16/08/2014    6 recensioni
Dal Prologo:
‘‘Ero nata e cresciuta ad Austin, ma non volevo più starci. Il Texas ormai mi andava stretto. Avevo sedici anni e tanta voglia di indipendenza. Se fossi stata fortunata, quella che stava per arrivare sarebbe stata la mia ultima estate laggiù.
Quello stesso inverno mi ero segnata volontaria per un corso di intercultura in California. Se solo qualche famiglia avesse deciso di adottarmi, sarei andata a stare lì per ben nove mesi. E mi sarei liberata almeno per un po’ di tempo della mia terra natale. Avrei frequentato il mio penultimo anno di liceo a Beacon Hills, una cittadina piccola e tranquilla.
[...]
A quel punto non potei far altro che chinarmi a raccogliere la lettera, aprendola in fretta e furia e leggendola con la curiosità che mi divorava. Fantastico. Una famiglia californiana aveva acconsentito ad ‘‘adottarmi’’ per nove mesi.
Gli Stilinski.’’
Genere: Avventura, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Sceriffo Stilinsky, Stiles Stilinski, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'People like us'
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parachute
 
 
 

 
20.  Ospite.

 
lilyhachi,
che c’è sempre stata. Non solo per
Harriet e Stiles, ma soprattutto per me.
Grazie infinite.
 

Non so dire da quanto tempo esattamente io e Stiles ci trovassimo in biblioteca quella mattina: molto probabilmente da mezz’ora, quasi sicuramente da molto meno. L’orologio da parete scandiva il tempo regolarmente grazie alla lancetta dei minuti che, avanzando sul quadrante, segnava un orario che non avevo voglia di guardare – mi limitavo a sentire il suono della lancetta rimbombarmi nelle orecchie e provavo ad indovinare che ora fosse: sollevare gli occhi da ciò che stavo leggendo sarebbe stato troppo faticoso.
Il sabato prima mi ero recata a casa di mio nonno per poter finalmente leggere i diari di Charles Shelby Carter, ma come mi succedeva molto spesso in quell’ultimo periodo, nel momento in cui li avevo stretti tra le mani e la possibilità di poterli leggere era divenuta sul serio concreta, avevo quasi avvertito un mancamento e non ce l’avevo fatta. Ero irrazionalmente spaventata da ciò che ci avrei trovato all’interno, e il risultato era stato chiedere per favore a mio nonno di poter portare via i diari con me e provare a leggerli con calma. Lui, naturalmente, aveva acconsentito.
Perciò eccomi lì in una tranquilla domenica mattina che avevo deciso di passare in biblioteca insieme a Stiles, del quale avevo bisogno – oramai non aveva più senso negarlo – sempre. Provavo a concentrarmi su ciò che leggevo, sulle testimonianze di ogni singolo sogno premonitore avuto dal mio bisnonno e poi trascritto dalla moglie, ma non ci riuscivo. Passavo interi minuti ferma allo stesso rigo, o peggio proseguivo a leggere senza davvero comprendere cosa ci fosse scritto e infine mi ritrovavo immersa in conclusioni che proprio non riuscivo a capire. Allora aggrottavo le sopracciglia, sbuffavo lievemente e cominciavo daccapo. Indovinate tutto questo per colpa di chi?
Stiles se ne stava seduto al mio fianco, col corpo addossato al tavolo in legno intorno al quale c’eravamo accomodati e la testa poggiata sulla mano sinistra. Teneva il viso voltato nella mia direzione e nonostante quanto mi sforzassi di ignorarlo, riuscivo comunque a vederlo con la coda dell’occhio e capivo benissimo cosa in realtà stesse cercando di fare. Pur non distogliendo mai lo sguardo dalle pagine ingiallite del diario di Charles, avvertivo benissimo il respiro regolare di Stiles infrangersi sul mio collo e i suoi occhi costantemente puntati sul mio viso, come se alla ricerca di chissà quale bellissimo particolare che fino a quel momento non aveva avuto occasione di notare. Dire che mi distraesse sarebbe stato un eufemismo.
«Ti stai perdendo la lettura», lo ripresi giocosamente quando mi reputai stanca di ignorarlo, sollevando dopo quelli che mi sembrarono secoli gli occhi dalla pagina consunta che stavo provando a leggere.
Sentii il collo scricchiolare appena, indolenzito, e lo massaggiai con una mano mentre lo piegavo all’indietro e mi guardavo velocemente intorno. Mia cugina Oriesta correva da un corridoio all’altro della biblioteca cercando di aiutare chissà chi, buffissima nella polo gialla che tutti i dipendenti dovevano indossare e che lei aveva candidamente confessato di odiare. Proprio non potevo biasimarla.
«Lo sai cos’ho pensato la prima volta che ti ho vista?».
Al suono di quella domanda, distolsi immediatamente lo sguardo da mia cugina e mi voltai a cercare il viso di Stiles. Lo trovai esattamente come l’avevo lasciato: poggiato al tavolo con la testa voltata nella mia direzione e gli occhi intenti ad analizzarmi attentamente. Aggrottai le sopracciglia mentre lo fissavo confusa, poi scossi la testa, finalmente consapevole del fatto che il mio richiamo non avesse avuto l’effetto che speravo. Seppur sapessi che nemmeno quella volta sarei riuscita a leggere, provai nuovamente a farlo.
«Non so, cos’hai pensato?», domandai però, troppo curiosa per ignorarlo ma troppo timida per guardarlo in viso mentre affrontavamo un argomento del genere.
«Non intendo quando ti ho vista dal vivo», spiegò, continuando imperterrito a fissarmi, nonostante il fatto che rifuggissi il suo sguardo e gioissi delle ciocche di capelli intente a coprirmi buona parte del viso. «Anche se in effetti in quel momento ho riformulato i pensieri che ho fatto la vera prima volta».
Aggrottai le sopracciglia. Stiles stava cercando di dirmi che, nel mio primo giorno a Beacon Hills, quando era venuto a prendere me e suo padre a scuola, mi avesse già vista? E quando? Ma soprattutto: cosa aveva pensato? Credetti che la curiosità mi avrebbe divorata. Ma ovviamente, decisi di non mostrare niente del genere e cercai di rimanere il meno colpita possibile, scacciando via i ricordi dei pensieri che io avevo fatto su di lui la prima volta che l’avevo visto, senza arrossire.
«Quand’è stata la prima volta che mi hai vista, allora?».
«Sai, è stato mio padre a sceglierti. Io credevo non avrebbe fatto alcuna differenza avere te in casa oppure un altro tra i ragazzi che avevamo deciso di tenere ancora in considerazione, perciò ho lasciato fare a lui. Ti ha scelta per il tuo nome: l’aveva colpito», mi raccontò, evitando la mia domanda ma mettendomi a conoscenza di fatti che mai nessuno mi aveva riferito.
Sorrisi al pensiero di Stephen, distogliendo brevemente lo sguardo dal foglio senza però posarlo su Stiles. Charles raccontava del suo primo sogno fatto grazie alla silene capensis, e blaterava di banche e leoni che sputavano fuoco ma più di quello non ero riuscita a cogliere. Ero troppo distratta.
«Ricordami di ringraziare mio padre», feci presente a Stiles, ironicamente.
La sua attenzione crebbe immediatamente.
«Ha voluto lui che ti chiamassi Harriet?».
Annuii.
«Saperlo è una delle poche cose che mi fa sentire di avere un padre. Certe volte nemmeno mi sembra vero: come una figura mitologica. Capisci?», tentai di spiegargli, scoprendomi il viso dai capelli per poter finalmente osservare di nuovo Stiles.
Ciò che gli avevo confidato era quanto di più intimo gli avessi mai detto e per quanto fosse una cosa stupida, temevo ciò che avrebbe potuto pensare di quella cosa. Perciò fissai il suo viso alla ricerca di emozioni e quando ci vidi solo sincera comprensione, non potei far altro che sentirmi bene.
«Fin troppo», mi disse Stiles, ed io gli sorrisi prima di riportare l’attenzione all’argomento principale della nostra conversazione.
«Cos’hai pensato di me la prima volta che mi hai vista?».
«Oh, sì», osservò Stiles, quasi sorpreso da quel cambiamento improvviso d’argomento. Poi però riprese a raccontare ed io lo ascoltai attenta. «Quando papà mi ha detto di averti scelta ho pensato che avessi un nome strano – ma bello – e mi sono incuriosito così tanto che ho continuato a pensarci finché quello stesso giorno, a scuola, non ho avuto occasione di fare ricerche sul tuo conto».
Wow.
«Sapevo venissi da Austin e conoscevo il nome del tuo liceo, perciò ho cercato il sito ufficiale e guardato le tue foto sull’annuario. Ho visto come sorridevi mettendoti in posa, non del tutto a tuo agio perché stare al centro dell’attenzione non ti piace granché. Ho pensato che avessi degli occhi e dei capelli bellissimi e mi censurerò sul resto», continuò, mentre le mie labbra si schiudevano – per via della sorpresa – ogni secondo che passava un po’ di più. Come aveva fatto a capirmi così bene semplicemente guardando delle mie foto? «Credi che sia inquietante, vero?».
Scoppiai a ridere, scuotendo la testa e strizzando gli occhi. Distolsi lo sguardo da Stiles e ancora una volta lo feci viaggiare tutt’intorno a me, ricambiando il saluto di Oriesta quando la vidi sorridermi e agitare una mano nella mia direzione.
«No», rassicurai Stiles, solo quando la mia risata si estinse. «Sono felice che tu me l’abbia detto! Anche perché, ad essere sinceri, pensieri del genere li ho fatti anch’io. Mi sono piaciuti i tuoi occhi fin da subito. Sono…».
Ma non riuscii a proseguire, perché avevo commesso – proprio come molte altre volte prima d’allora – l’errore di fissare gli occhi in quelli di Stiles, dove presto o tardi avrei finito per perdermi. Boccheggiai alla ricerca di un aggettivo che potesse rendere giustizia a quelle iridi così belle, poco prima di rendermi conto del fatto che non ne esistesse alcuno. Finii perciò per chiudermi in un silenzio imbarazzante che per fortuna fu interrotto da Stiles che riprese a parlare.
«A me le tue labbra», sussurrò infatti, posando lo sguardo proprio sulle mie labbra mentre io pregavo in tutte le lingue da me conosciute di non essere arrossita sotto gli occhi che tanto amavo. «Ho pensato che mai e poi mai sarei riuscito a vederti come una sorella e niente più».
E infatti eccoci qua, avrei voluto dire, ma evitai e mi limitai a sorridere a Stiles prima di rimettere mano al diario del mio bisnonno. Il silenzio cadde ancora una volta ma fu privo d’imbarazzo e finalmente riuscii a concentrarmi sulla lettura. Ripresi ad analizzare il sogno del leone che sputava fuoco, assumendo un’espressione un po’ più confusa ogni secondo che passava. Era strano: il primo sogno di Charles Shelby non aveva predetto proprio un bel niente, eppure lui l’aveva reputato così importante – come un miracolo – da addirittura rendere il leone che sputa fuoco come il simbolo della famiglia Carter. 
«Che c’è?», mi domandò Stiles non appena si accorse del mio momentaneo sgomento.
Immediatamente gli descrissi tutta la situazione e mi parve di sentirlo subito irrigidirsi. Aggrottai ancora le sopracciglia, decidendo una volta per tutte di abbandonare la lettura. Chiusi il diario con cautela, evitando di rovinarlo più di quanto già non fosse, e poi mi voltai a guardare Stiles. Improvvisamente sembrava nervoso e lo osservai boccheggiare alla ricerca di parole senza però chiedergli spiegazioni. Sapevo me ne avrebbe date lui stesso.
«A proposito…», esordì infatti dopo qualche minuto, spingendomi ad avanzare nella sua direzione dal momento che aveva inspiegabilmente abbassato il tono di voce. «mi è venuta in mente una cosa che non ti ho detto».
«Di cosa si tratta?».
«Quando venerdì sono andato a cercare Lydia l’ho trovata con Peter». Trattenni il respiro. Avremmo parlato ancora di quella notte? Pareva proprio di sì. «Lui ha lasciato che chiamassi Jackson affinché la portasse in ospedale e mi ha imposto di seguirlo: voleva trovare Derek».
«Ebbene?», domandai, messa di fronte al suo ennesimo silenzio.
Sapevo che stesse per raccontarmi qualcosa riguardante Peter, ma allora perché prenderla così alla larga e temporeggiare? Avrei dovuto preoccuparmi?
«Ecco, ad un certo punto mi ha… proposto di mordermi».
Boom. Tra tutte le cose che avrebbe potuto dirmi, quella era l’unica a cui mai avrei pensato. Non appena Stiles finì di parlare, sentii il respiro mozzarmisi in gola un’altra volta ancora e una domanda prendere a rimbombarmi in testa nell’attesa che la ponessi: “Ti sei fatto mordere?”. Ma sapevo già che non l’avrei fatto perché temevo una qualsiasi risposta più di ogni altra cosa. Perciò mi limitai a chiudermi in un silenzio di tomba mentre fissavo Stiles con occhi sgranati, nella speranza – e allo stesso tempo nella paura – che continuasse a parlare.
«E io non ho saputo rispondergli subito», mormorò infatti dopo qualche minuto, distogliendo dopo tempo lo sguardo dal mio viso per puntarlo tutt’intorno a sé, come se si sentisse colpevole.
Continuava a non dirmi se Peter l’avesse morso o meno ed io avrei continuato a non chiedere: mi sarei limitata a far sì che Stiles si sfogasse con me nella speranza che la cosa servisse a farlo stare meglio – improvvisamente vedevo e sentivo quanto abbattuto fosse – e nella paura che da un momento all’altro potesse trasformarsi in una bestia simile a Peter. Quelle due emozioni contrastanti mi tenevano prigioniera.
«Perché?», domandai comunque, cercando di non balbettare ma di parlare cautamente e mostrando sicurezza.
Come potevo chiedergli di fidarsi di me e parlarmi se mi mostravo spaventata?
«Diceva che mi avrebbe mostrato la sua gratitudine, così. L’avevo aiutato. E invece di dirmi grazie mi ha proposto di trasformarmi».
«Questo perché è pazzo».
«Certo, ma sai qual è la cosa peggiore? Per un attimo ho desiderato dire sì». Ma?, mi domandai, sicura del fatto che ce ne sarebbe stato uno. «Ma non l’ho fatto».
Liberai un sospiro sollevato, socchiudendo gli occhi lentamente senza nemmeno rendermene conto. Stiles non era stato morso: non si sarebbe trasformato né tantomeno sarebbe morto – non avrei potuto permetterlo mai. Non sarebbe diventato come Scott e Derek o peggio come Peter e Jackson. Sarebbe stato sempre e solo Stiles. Il mio Stiles.
Feci per sorridergli, mostrandogli così tutta la soddisfazione che mi aveva procurato quella sua scelta, questo poco prima di inquadrare la sua espressione afflitta – un po’ di più ogni secondo che passava. Allora capii.
«Ne sei pentito?», chiesi, stringendogli un braccio in modo rassicurante mentre cercavo di far sì che mi guardasse negli occhi.
Inutilmente.
«Non lo so…».
A quel punto mi mossi, cambiando posizione sulla sedia solo per essere vicina a Stiles quanto bastava ad afferrargli il viso e far sì che smettesse di rifuggire il mio sguardo.
«Ehi. Ascoltami, d’accordo?», lo richiamai, premendogli le mani sulle guance nella speranza che decidesse di fare come gli dicevo. «Se dovessi trasformarti anche tu, io darei di matto. Riesci ad immaginarlo? Tra te e Scott… e Jackson! Non è così bello come sembra, Stiles, tu lo sai. Quindi perché dovresti dubitare della scelta che hai preso?».
Lo vidi semplicemente scrollare le spalle, senza svincolarsi dalla mia presa ma distogliendo comunque gli occhi dal mio viso prima di rispondermi. Non andava bene.
Vagamente sconfitta, mi ritirai.
«Peter ha detto che quella notte nel bosco, quando ha trasformato Scott, avrebbe anche potuto scegliere me. Che è stato tutto frutto del caso. Che se mi avesse trasformato, avrei potuto essere un licantropo anche migliore di Scott. Diventare più forte e più veloce», sentii che mi spiegava Stiles, mentre io tornavo a sedermi composta e ad ascoltare la sua voce farsi sempre più lieve e piena di dispiacere. «Ma gli ho detto che non volevo... Non voglio diventare come Peter».
Annuii. Lo capivo benissimo. Arrivati a quel punto, c’era solo una domanda che potessi porgli.
«Eri sincero?».
Cercai gli occhi di Stiles. Solo allora lui ricambiò il mio sguardo. Poi rispose.
«Peter ha detto di no».  
 
The hard part isn’t
choosing, it’s living
with the choice
you make
 
Dopo la rivelazione di Stiles, un silenzio teso ed imbarazzato era sceso ad avvolgerci entrambi. Avrei voluto continuare a parlargli, avrei voluto che Stiles continuasse a confidarsi con me e che non mal interpretasse la mia reazione. Non ce l’avevo con lui per ciò che aveva pensato di fare: al contrario potevo comprendere che fosse combattuto e desiderasse tornare indietro, cosa che comunque aveva ancora tempo di fare: Derek l’avrebbe trasformato senza indugi, ma egoisticamente preferivo non farglielo notare.
Come al solito non dissi nulla e preferii far cadere la questione: era molto più facile così. D’altronde, se avessi parlato cos’avrei risolto? Stiles non avrebbe cambiato idea e avrebbe continuato a pensare alla scelta che aveva fatto per ancora un po’ di tempo, almeno finché non avrebbe compreso di aver fatto la cosa giusta. L’unica cosa che davvero potessi fare in quel momento per rendermi utile era stargli accanto ed aiutarlo a convivere con ciò che aveva scelto, chissà perché, di fare. Non trasformarsi.
Proprio per questo motivo quando alle dodici in punto di quella domenica mattina il turno di lavoro di Oriesta finì e proprio lei ci richiamò per andare a casa tutti insieme decisi di far finta di nulla, nella speranza che Stiles mi assecondasse e che potessimo goderci il pranzo in famiglia al quale io ero stata invitata, volendo a tutti i costi che Stiles fosse con me. Quando Oriesta tempo addietro mi aveva infatti detto: «Ti inviterò anche da me, Harry» non mentiva affatto.
Per fortuna le mie preghiere furono accolte e il viaggio in auto verso casa Osbourne fu piacevole e rilassato. Oriesta guidava e nonostante il fatto che mi avesse offerto di sedermi accanto a lei, alla fine avevo ripiegato per prendere il posto del passeggero nei sedili posteriori, giusto per poter stare ancora vicina a Stiles – cosa che mi aveva fatto guadagnare un’occhiatina furba da parte di mia cugina che, ne ero sicura, aveva già capito tutto. Durante il tragitto verso casa Osbourne tutti e tre chiacchierammo in modo tranquillo e rilassato, ascoltando buona musica: Oriesta aveva gusti molto simili ai miei e passarci del tempo insieme era sempre piacevole.
Arrivati a destinazione trovammo zia Erin – sorella di mio padre e gemella di Maila – ad accoglierci. Ci salutò tutti calorosamente, stringendo me e Stiles in un abbraccio – proprio come se ci conoscesse da una vita – al quale noi rispondemmo salutandola intimiditi. Capii però che quei comportamenti così espansivi fossero una prerogativa della famiglia solo nel momento in cui Niall spuntò dal salotto, accogliendomi con un: «Hola, cugina!» che riuscì a strapparmi un sorriso divertito poco prima che monopolizzasse Stiles. 
«Tu devi essere Stiles!», esclamò infatti nel momento in cui lo rivide, probabilmente ricordando della volta in cui eravamo stati tutti insieme a casa di Thomas. «Io sono Niall, piacere di conoscerti».
E così dicendo ci raggiunse, porgendo una mano a Stiles che ricambiò il saluto, stringendogliela senza esitazioni. Io e zia Erin ci limitammo a fissare la scena mentre Oriesta si dileguava, annunciando di aver bisogno di una doccia dopo due faticosissime ore di lavoro in biblioteca. Fu in quel momento, mentre osservavo vagamente distratta Stiles e mio cugino fare amicizia, accanto a mia zia, che sentii sul serio – per la prima volta in sedici anni – di avere una famiglia che non fosse composta semplicemente da mia madre e Cassandra. E mi sentii davvero bene.
«Vuoi giocare a LoL?», sentii che Niall proponeva a Stiles, proprio come se – anche lui – lo conoscesse da una vita e fossero già diventati grandi amici nel giro di due minuti.
Solo allora mi risvegliai dalla mia trance fitta di pensieri e dovetti trattenere una risata a metà tra il divertito e l’intenerito quando Stiles, subito dopo aver annuito nella direzione di Niall, si voltò a fissarmi con occhi brillanti e un sorriso soddisfatto in volto. La proposta di mio cugino doveva averlo reso davvero felicissimo e poco prima che si decidesse a seguirlo verso il pc da gaming nelle vicinanze della cucina, gli sorrisi e sillabai: «Divertiti». Io, a quel punto, raggiunsi ancora una volta mia zia.
«Tu e Stiles siete molto legati».
Lei mi accolse in cucina con quella frase e per un attimo m’immobilizzai, gelata dalla veridicità delle sue parole. Come aveva fatto a capirmi così bene? Era tanto evidente ciò che provavamo l’uno per l’altra? Nel dubbio mi limitai ad annuire nella sua direzione, fingendo tranquillità.
«Ti ringrazio per averlo invitato qui. Quando ho lui accanto per me è tutto più facile», le dissi, osservandola mentre si dedicava alla preparazione di tramezzini vari dall’aspetto gustoso. «È il centro di tutte le mie sicurezze. Come un paracadute quando sei nel pieno della caduta libera. Dovresti essere terrorizzata ma non ci riesci perché sai che c’è».
Non sapevo da dove avessi tirato fuori quelle parole ma ero sicura del fatto che mai avrei potuto descrivere cosa fosse Stiles per me meglio di così. Lo sapevo io proprio come lo sapeva zia Erin, che si limitò a sorridermi semplicemente poco prima di lasciare da parte i tramezzini e prendere a sciacquare le mani nel lavabo metallizzato.
«Posso farti una domanda?», le chiesi allora, decisa ad approfittare del momento di piacevole silenzio che mi si era presentato davanti per riempirlo con delle ottime quanto utili informazioni.
Zia Erin si limitò a mormorare un: «Certo» gentile, e allora le posi la domanda che mi vorticava in testa già da un po’.
«Ti senti mai come se Maila fosse stata più fortunata di te? Sai, senza poteri… La sua vita è più semplice, vero?».
Non appena il silenzio calò nuovamente nella stanza, mi sentii immensamente stupida. La mia domanda parve perdere improvvisamente senso e mi limitai a fingere una tranquillità che non possedevo più sotto gli occhi azzurri di mia zia. Chissà perché, sapevo già che non avrebbe risposto.
«Ti senti così, Harriet?», domandò infatti, rigirandomi la domanda forse perché convinta che gliel’avessi posta perché personale.
Ma si sbagliava.
Mi morsi un labbro, indecisa. Non volevo sapere se fosse invidiosa della sua gemella e della vita senz’altro più semplice che le era stata donata perché anch’io mi sentivo così nei confronti di Cassandra: nemmeno ci avevo mai pensato! Certo, fino a quel momento…
«N-No», balbettai allora, nella speranza di distogliere dalla mia mente certi pensieri. «Credo di non averci mai pensato prima d’ora».
«Be’, nemmeno io», mi sorrise Erin, e allora – sconfitta – non potei far altro che ricambiarla e deglutire, delusa.
Avevo fallito ma non glielo feci capire, limitandomi a sorriderle debolmente mentre le chiedevo se avesse bisogno d’aiuto lì in cucina.
Ma: «Certo che no, sei un’ospite», mormorò, poco prima di asciugare con un panno alcuni dei piatti ancora impilati sullo scolatoio. «Va’ da Oriesta e fatti prestare un costume: la piscina aspetta solo te!».
Piscina? No, grazie. Mi strinsi le braccia al petto, scuotendo la testa mentre rifiutavo gentilmente la sua offerta e poi ritornavo all’attacco.
«Per favore, c’è qualcosa che posso fare per darti una mano? Posso apparecchiare, per esempio!», proposi, ansiosa che decidesse di assecondarmi e mi desse un motivo per non starmene a girarmi i pollici finché il pranzo non sarebbe stato pronto.
Quando la sentii sospirare, un sorriso vittorioso si fece strada sul mio viso e realizzai che – almeno per quella volta – avevo vinto io.
«Tua madre deve proprio amarti. Sei una ragazza d’oro». Il mio sorriso si allargò ancor di più. Poi zia Erin cominciò ad indicarmi i posti dove avrei trovato le varie cose utili ed io la ascoltai in silenzio. «Le tovagliette sono nel secondo cassetto a destra e le posate subito sopra. Se non trovi qualcosa, chiedi».
Soddisfatta del compito che mi era stato assegnato mi misi subito all’opera, grata affinché non dovessi per forza portare avanti una conversazione – ormai divenuta imbarazzante – con mia zia, né provare ancora a farle domande alle quali non si sarebbe minimamente degnata di rispondere. Al contrario mi limitai ad apparecchiare la tavola, disponendo tre tovagliette per lato mentre mia zia continuava a trafficare in cucina.
Quando ci feci ritorno per procurarmi le posate, la vidi abbandonare la stanza e tornare poi con una sedia che pose a capotavola proprio nel momento in cui finivo di distribuire le posate per tutti. Confusa, mi limitai a fissare la scena. A pranzo saremmo stati in sei e c’erano già tutte le sedie che servivano, dunque perché Erin ne aveva aggiunta una?
«Avremo un ospite?», domandai, ancora con la sopracciglia aggrottate.
Lei si limitò ad annuire mentre mi riservava l’ennesimo sorriso, poi si scompigliò i capelli biondi e fece ritorno in cucina, seguita da me che ero intenzionata ad apparecchiare anche per il settimo misterioso ospite. Ma proprio quando fui ad un passo dal prendere un’altra tovaglietta e le posate utili, suonarono al campanello.
«Harry, penso io ad apparecchiare», sentii che mi diceva mia zia, bloccando il mio braccio prima che aprissi il cassetto contenente le tovagliette. «Tu puoi andare per favore ad aprire?».
Non potei far altro che annuire, dirigendomi fuori dalla cucina a passo spedito. Individuai Niall e Stiles col viso incollato allo schermo del pc: erano così presi dal gioco che nemmeno sembravano aver notato il suono del campanello, perciò evitai anche di salutarli con un cenno e semplicemente mi diressi verso la porta, aprendola con la curiosità di conoscere l’ospite appena arrivato che mi divorava.
Scoprii però con immenso rammarico che chi mi ritrovai davanti era l’ultima persona che avrei voluto vedere. Occhiali da sole impigliati tra i capelli biondicci, abbigliamento casual, niente lasciava presagire quanti anni avesse sul serio – ne dimostrava molti di meno – e occhi azzurrissimi, com’era tipico dei Carter. La gran parte di loro li aveva così e fu proprio quel dettaglio a dare la risposta al: Chi diavolo sei tu? che mi ronzava in testa già da un po’.
Philip Carter era lì di fronte a me.
 
All’inizio c’erano stati semplici sguardi silenziosi, all’apparenza inespressivi ma contenenti tutta la curiosità che provavamo l’uno nei confronti dell’altra. Quella era la prima volta in assoluto che vedevo mio padre dal vivo: fino a quel momento avevo osservato foto e ascoltato racconti, niente di più. Proprio come se sul serio colui che aveva contribuito alla mia nascita fosse nient’altro che una creatura mitologica impossibile da incontrare.
Poi era arrivata la consapevolezza e il pesante silenzio nel quale c’eravamo immersi era stato interrotto dalla voce squillante di mia zia, accorsa per salutare calorosamente il fratello maggiore. Mi limitai a sentire i suoi passi sempre più vicini a noi, senza però allontanarmi dalla porta che avrei voluto disperatamente chiudermi alle spalle mentre vedevo con la coda dell’occhio Stiles staccarsi dal gioco e mettersi in piedi senza però raggiungermi. Non sapeva come agire, proprio come me.
Ma alla fine qualcosa si mosse e trovai chissà dove la forza di scappare. Improvvisi conati di vomito mi si agitarono all’interno e, anche se tutto intorno a me aveva preso improvvisamente a girare vorticosamente, cercai di restare il più lucida possibile mentre lasciavo che zia Erin abbracciasse il fratello, facendomi lontana dalla porta d’ingresso e correndo a perdifiato verso il bagno.
Oriesta, appena uscita dopo la sua “doccia rigenerante” – come l’aveva definita lei tempo prima – mi osservò con occhi spaventati mentre la sorpassavo con uno spintone nient’affatto programmato e mi chiudevo la porta alle spalle con un tonfo, finendo poi a rovesciare anche l’anima nella tazza del WC giusto in tempo. Ero tutta un tremito ma me ne accorsi sul serio solo nel momento in cui le mie mani furono ancorate, dopo diversi sforzi, al lavandino in marmo di fronte allo specchio. Tutto girava, mi sentivo soffocare e la nausea non accennava ad andar via: evitavo come la peste di osservare il mio riflesso perché sapevo che ci avrei trovato niente di piacevole.
Quando Stiles mi raggiunse me ne resi conto subito. Sentii che si chiudeva velocemente la porta alle spalle, ignorando le domande preoccupate di Oriesta e fregandosene di agire con cautela ma dirigendosi al contrario verso di me affinché mi voltassi a fronteggiarlo. Nel farlo sentii la testa girarmi e avvertii a malapena la sua voce richiamarmi.
«Ehi», lo sentii però sussurrare, mentre una sua mano correva a scansare via una ciocca di capelli dal mio viso sudato. Lo vedevo a malapena ma già il sapere che fosse lì aiutò a farmi stare meglio. «Mi dici che succede? Hai rovesciato?».
Anche se la mia retina mi offriva immagini al rallentatore tipiche della sensazione di sbandamento che mi teneva prigioniera da ormai qualche minuto, riuscii comunque a vedere Stiles che si chinava verso il WC per capire se avessi rimesso o meno. Poi tornò a fronteggiarmi e solo allora capii che dovevo perlomeno provare a dargli una risposta, combattendo contro il respiro che sembrava mancarmi sempre più.
«Credo…», esordii, ritenendo obbligatoria una pausa per prendere fiato. «credo di star avendo un attacco di panico».
Le mani mi tremavano ancora troppo ma comunque le mossi sulle braccia di Stiles, insicura ma vogliosa allo stesso tempo di sentirlo vicino a me e rendermi conto che fosse sul serio lì – che non stessi in realtà impazzendo. I sintomi del mio malore erano tutti abbastanza evidenti e per un attimo mi chiesi come avesse fatto Stiles a non capire ma in realtà lui aveva compreso tutto: semplicemente voleva che gli parlassi e glielo dicessi. Quando mi afferrò il viso con entrambe le mani trovai anche il coraggio di continuare.
«Voglio andar-mene», pronunciai, a fatica ma facendo comunque in modo di farmi comprendere.
Ma Stiles si limitò a scuotere piano la testa ed io compresi subito che non mi avrebbe mai permesso una cosa del genere.
«Questa è la tua occasione, Harry», spiegò, tentando inutilmente di far valere le sue ragioni. «Tuo padre è qui. È qui per te».
Al suono di quelle parole una nuova ondata di nausea – più forte delle precedenti – mi assalì, e dovetti impegnarmi a fondo per non rovesciare ancora. Alla fine risolsi chiudendo gli occhi, inspirando ed espirando finché non mi sentii più tranquilla. Stiles non fece altro che restarmi accanto in silenzio, accarezzandomi i capelli affinché potessi rilassarmi almeno un po’.
«Non ce la faccio», stabilii alla fine, ritornando a guardarlo.
Lui semplicemente mi sorrise.
«Sì che ce la fai. Devi solo calmarti e prendere un paio di respiri profondi. Quando ti senti pronta me lo dici e usciamo. Insieme, come sempre. Ti starò accanto».
Quanto potevano essere importanti, per me, semplici parole come quelle? Moltissimo. Tanto che improvvisamente mi sentii più tranquilla e socchiusi nuovamente gli occhi, respirando profondamente proprio come da suggerimento.
«Non mi lasci?», chiesi dopo un po’, sempre tenendo gli occhi chiusi perché timorosa di una risposta negativa, anche se sapevo che mai Stiles avrebbe potuto darmene una.
«E perché dovrei?», lo sentii infatti che mi diceva, riuscendo chissà come a strapparmi un sorriso.
Allora riaprii gli occhi: sembrava strano ma mi sentivo già meglio. Mossi lentamente le braccia, facendo intendere a Stiles che aspettavo solo un suo abbraccio e lui subito capì perché mi attirò ancor più vicina al suo corpo. Gli passai le braccia attorno al petto mentre lui le posava sulle mie spalle, infilandomi una mano tra i capelli lunghi. Sospirai sollevata e solo allora mi resi conto di come il mio attacco di panico fosse scomparso.
 
«Hai detto di volermi parlare ma dalla tua bocca non viene fuori nulla».
A malapena percepii la mia voce, resa ancor meno alta dall’infuriare del vento nel giardino in ombra di casa Osbourne. Quella domenica era cominciata bene e stava andando sempre peggio: pareva che pure il tempo volesse farmelo capire e stesse preparando perciò un temporale in piena regola. Nonostante tutto, però, continuavo a starmene seduta in giardino – né troppo lontana né troppo vicina a mio padre, nell’attesa che parlasse proprio come aveva detto di voler fare – cercando di non morire assiderata prima di aver visto e sentito che intenzioni avesse. Nell’attesa, mi strinsi maggiormente nella mia giacca pesante.
«Ti chiedo scusa», pronunciò, e mi resi conto di come quella fosse una delle prime volte che sentivo la sua voce. Aveva un timbro particolare: non era né troppo roca né troppo squillante, piuttosto simile alla mia, cosa che mi fece rabbrividire – non di certo per il freddo. «È difficile trovare qualcosa di adatto per iniziare».
Mugugnai, annuendo impercettibilmente. Forse non avrei dovuto ma riuscivo a capirlo. Quella situazione per me non era facile ma scommettevo che per lui, nonostante tutto, la cosa non fosse da meno. Poi poco importava che se la fosse cercata da solo.
Però scrollai le spalle con noncuranza, perfettamente decisa a non mostrare nessun tipo di comprensione – l’avrei tenuta solo per me.
«Che ne dici di esordire con: “Sono stato chissà dove in questi sedici anni senza preoccuparmi di te perché anche dopo quasi mezzo secolo di vita sono comunque uno stronzo incapace di prendersi le sue responsabilità”? Ti piace?», proposi, aprendomi – sul finale – in un sorrisino storto che speravo mi avrebbe fatto guadagnare una reazione da parte di Philip.
Ne volevo una disperatamente. Volevo che mi parlasse sul serio, non che fingesse, volevo che urlasse se lo riteneva opportuno e mi facesse sentire le sue ragioni. Perché io, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a capire nemmeno la metà dei suoi comportamenti. Ma al contrario Phil se ne rimase seduto al mio fianco con la solita espressione indecifrabile che da quando era entrato in quella casa non gli avevo mai visto abbandonare.
«Non sai perché me ne sono andato», mormorò inespressivo, come se stesse leggendo la lista della spesa e non dicendo qualcosa di davvero importante a sua figlia.
«Perché non me lo spieghi, allora?».
Dire che il pranzo fosse stato imbarazzante sarebbe un eufemismo. Un silenzio teso aveva fatto della tavola il suo habitat naturale, intervallato solo dalle domande fuori luogo/spezza tensione di mia zia Erin, domande alle quali mio padre aveva dato sempre mezze risposte di poco conto. In tutto quell’ambaradan, come se non bastasse, non avevo avuto occasione di conoscere mio zio Simon, padre di Niall e Oriesta e marito di Erin. Peccato.
«Sono scappato in Texas perché volevo disperatamente una vita normale, che non avesse niente a che fare col soprannaturale di cui è piena Beacon Hills. Credo che almeno da questo punto di vista potrai capirmi». , pensai immediatamente, distolta dai miei pensieri divaganti. Sì, ti capisco. Continua, ti prego. «Ero un secondogenito costretto ad ereditare poteri che non volevo e a vivere una vita che era stata già programmata per me e non avrei mai – mai – sopportato di vederti fare la stessa fine. Quando sei nata, io… ho avuto paura. Tanta paura. E lo so – lo so – che ho sbagliato, e mi dispiace, sul serio: te lo giuro. Ma non sarei stato in grado di fare nient’altro».
Capii di come mio padre stesse facendo il mio stesso gioco nel momento in cui lo vidi scrutarmi attentamente, alla ricerca di una mia reazione. Voleva anche lui che reagissi e mostrassi qualcosa – qualsiasi cosa – ma non gli avrei dato soddisfazione, proprio come aveva fatto lui con me. E quando vidi una scintilla di delusione farsi largo sul suo volto, capii di aver vinto. Aveva mostrato un’emozione.
«Molto commovente», dichiarai però, evitando di distrarmi. «Ma ho una sorpresa per te: non solo i secondogeniti possono ereditare poteri di chiaroveggenza. Avrebbe potuto averne anche Cassandra. Ma tu no, hai lasciato la tua famiglia senza informarti sulla cosa e hai lasciato noi compiendo lo stesso sbaglio un’altra volta ancora. Ci hai abbandonate per nulla, ne sei consapevole? E non provare a dirmi che non lo sapevi perché Erin è tua sorella, non è una secondogenita e ha poteri – proprio come ne hanno i suoi figli e quelli di Maila. Non potevi non saperlo».
Non appena ebbi finito di parlare distolsi lo sguardo dal suo viso – mi stupivo di come riuscissi a sostenere il suo sguardo senza problemi, sicuramente merito del mio spropositato orgoglio – e lo puntai tutt’intorno a me, individuando subito Stiles intento a muoversi nervosamente da una parte all’altra del salotto di casa Osbourne. Potevo vederlo attraverso le ampie vetrate e non mi serviva nient’altro per capire quanto fosse in ansia – per me.
Sperai immediatamente che potesse voltarsi e vedermi e quando il mio desiderio fu esaudito, gli regalai l’ombra di un sorriso e un’occhiata che – speravo – gli avrebbe fatto capire che stessi bene, nonostante tutto. Quando vidi Stiles ricambiarmi capii che avesse recepito il messaggio e mi sentii immediatamente sollevata.
«Non lo sapevo. L’ho scoperto dopo».
«L’hai scoperto dopo», ripetei stupidamente, trattenendo a malapena una risatina fintamente divertita. «Certo… E dopo averlo scoperto non ti è mai venuta voglia di tornare dalla “secondogenita maledetta”? Quella che ti ha spaventato così tanto da abbandonare una casa e una famiglia, e che aveva disperatamente bisogno di te nonostante tutto? Quella che aveva bisogno di sapere che non eri un personaggio immaginario o qualcuno che poteva guardare solo in foto quando ne sentiva davvero troppo la mancanza? No, eh?».
Solo allora mi immobilizzai, assumendo anche un’espressione sconvolta senza che me ne potessi rendere conto sul serio. Oh, mio Dio. Cos’avevo fatto? Quanto mi ero lasciata andare? Dov’era finita la mia corazza di orgoglio, pronta a difendermi da qualsiasi emozione pronta a distruggermi? Provai, proprio come poche ore prima, il forte impulso di piangere. Ma ancora una volta riuscii a combatterlo – inutilmente, tra l’altro, perché a Philip bastò guardarmi attentamente per comprendere ogni cosa.
«Quando l’ho scoperto era già troppo tardi. E mi dispiace, ripeto», sillabò, quella volta a voce più bassa.
Mi sembrava che si impegnasse a mostrare qualcosa ma senza riuscirci. Non importava cosa mi dicesse, continuavo a vederlo come una maschera neutra e le sue parole – per quanto belle fossero – non mi trasmettevano niente. Ecco qual era la cosa peggiore. Ma non era l’unica.
«Sai qual è la cosa peggiore?», chiesi infatti. «Non è mai troppo tardi».
Non per te, pensai, ma non gliel’avrei mai detto. Mi limitai a scostare rumorosamente la sedia sulla quale ero stata seduta fino a quel momento per poi mettermi in piedi, lentamente. Non l’avrei mai ammesso ma, stupidamente, speravo che mi fermasse. E quando lo fece, capii che avesse deciso di mostrarmi qualcos’altro. Non voleva lasciarmi andare. 
«Harriet?», lo sentii infatti che mi richiamava, sobbalzando, improvvisamente agitato dai miei movimenti. «Non andare via. Parliamo ancora un po’. Ti prego».
Quelle ultime due parole quasi mi fecero vacillare, tant’è che afferrai il tavolo in marmo per reggermi, sperando che mio padre non avesse notato quell’ennesimo momento di grande insicurezza. Mi sarebbe piaciuto restare lì con lui, nonostante tutto, ma arrivati a quel punto cos’altro avremmo potuto fare?
«Non ho niente da dirti», sussurrai semplicemente, lasciando andare il tavolo e la sedia, facendo un passo indietro per allontanarmi gradualmente da quella situazione. «Voglio solo che tu risponda ad una domanda. Mamma quanto sa di tutta questa storia?».
Vidi mio padre aggrottare le sopracciglia dorate e strizzare gli occhi azzurri, così diversi dai miei.
«Nulla», mi rispose poi, sempre mostrando la sua improvvisa confusione. «Sono scappato ad Austin proprio per allontanarmi dal soprannaturale. Insomma, amo tua madre ma non l’avrei mai condannata al fardello di sapere cosa e chi sono in realtà. Come ho fatto con te…».
Ennesimo momento d’insicurezza, ancora che rischiavo di avere uno scompenso. Cos’era, all’improvviso Philip sapeva quali parole usare per colpirmi nel profondo o la sua era semplicemente una tattica perché non andassi via? Per quanto ci provassi, non riuscivo a fidarmi.
«Okay. Grazie per avermi risposto», dissi dunque, cercando di dissimulare e di scacciare via dalla mente le parole “amo tua madre”.
Perché? Perché usare il presente? Mentre facevo per ritornare – finalmente – da Stiles, avvertii gli occhi inumidirsi e la gola stretta in una morsa soffocante. Oh, no. Non avrei pianto proprio alla fine. Non dopo aver affrontato tutto quello. Ecco perché deglutii rumorosamente e strinsi i denti, sotto la figura di mio padre che solo allora decideva di alzarsi, con movimenti impacciati e indecisi. Voleva salutarmi? Me lo chiesi a lungo mentre mi dirigevo verso la porta a vetri conducente al salotto, promettendo a me stessa che non gliel’avrei permesso. Non sarei riuscita a sopportarlo.
Ma: «Harriet? Aspetta», sentii che mi richiamava, e la mia mano s’immobilizzò sulla maniglia, congelata. Pur non volendo, fui costretta a cercare nuovamente il suo sguardo chiaro. «Come stanno? Tua madre e Cassandra, intendo».
Ennesimo colpo basso. Ma non gli avrei dato la soddisfazione di vedermi scombussolata ancora una volta. Perciò risolsi scrollando le spalle e ostentando nonchalance.
«Bene. Siamo sopravvissute anche senza te», risposi, mordendomi un labbro e sapendo di dire la pura e semplice verità. «Mamma è felice: ha un uomo che la ama e due figlie che farebbero di tutto per lei. Così Cassandra, che ha deciso di sposarsi l’anno prossimo».
A quella rivelazione, Phil reagì sgranando gli occhi e boccheggiando per un attimo. Doveva essere strano, per lui, tornare e trovare una me sedicenne, mamma fidanzata e Cassandra pronta a sposarsi. Soprattutto per Cass, dal momento che aveva vissuto i suoi primi undici anni e avevano senz’altro un legame più forte.
«Oh…», fu tutto ciò che riuscì a dire, distogliendo lo sguardo dal mio viso e infossando le mani nelle tasche dei pantaloni scuri.
Allora capii che fosse il momento di andar via. Non prima però di avergli dato un ultimo consiglio, che in fondo speravo avrebbe messo in atto.
«Magari potresti chiamarle», suggerii, pentendomene l’attimo dopo. Ma nonostante tutto continuai, stringendo convulsamente la mano sulla maniglia. «Voglio dire, sei venuto fin qui dopo avermi ignorato per sedici anni. Puoi farcela a fare una telefonata».
A quel punto decisi di rientrare – scappare – e mossi la maniglia fino ad aprire la porta-finestra. Ero già per metà nel salotto quando l’ennesima frase di mio padre mi gelò sul posto.
«Somigli davvero tantissimo a loro».
Inspirai profondamente, cercando di racimolare una calma che ormai non mi apparteneva più. Lo sapevo di assomigliare a mia madre e Cassandra, ma sentirmelo dire da lui faceva – senza motivo – tutt’altro effetto. Voltai il capo di tre quarti, donandogli l’ultimo sguardo di quella giornata. Poi parlai.
«E non ho nulla di te…».
 
È insolito che io scriva a quest’ora – a dire il vero, è insolito che io scriva e basta – non so nemmeno perché stia facendo una cosa del genere, so solo di averne bisogno. Devo... sfogarmi. Sfogarmi? È la parola giusta? Non lo so. Non so un sacco di cose, di certo ne so ancora meno da quando sono arrivata qui a Beacon Hills esattamente due mesi e due giorni fa.
Certe volte penso che dovrei pentirmi del mio trasferimento. In questo esatto momento, con me che me ne sto rintanata sotto il piumone, con la felpa che Jamie mi ha portato il Natale scorso da Brooklyn, i capelli scompigliati e un accenno di febbre, il pentimento è l’unica cosa alla quale riesco a pensare.
Dire che oggi sia stata una giornata stancante non rende il concetto nemmeno lontanamente. Certo, qualcuno potrà pensare: “Da quando sei qui, quale giorno non lo è stato?” il che in effetti è anche un po’ vero, ma riflettendoci bene... no. No, oggi ho proprio passato il segno.
Come da previsione, fuori s’è scatenato un temporale senza eguali – cosa che, a ben pensarci, non aiuta per nulla il mio animo fortemente meteoropatico. Peccato. La pioggia scende senza fermarsi e sbatte sui vetri, rendendomi triste e pensierosa e infreddolita, anche se questo credo sia merito della febbre che mi sono beccata – come se già non avessi altre cose di cui preoccuparmi, tipo quel magnifico uomo che è mio padre, ritornato alla riscossa dopo sedici anni di sesso, droga e rock ‘n’ roll. Be’... rock ‘n’ roll di sicuro.
Mi rendo conto di star esagerando. Il punto è che mi sento tramortita. Non so cosa dovrei pensare, fare, dire. Ho cominciato dicendo che dovrei pentirmi di essere giunta qui a Beacon Hills e, be’, ecco: dovrei. Il punto è che non ci riesco. Certo, se riuscissi a pentirmene, maledire questa città e tornarmene a casa giuro che l’avrei già fatto – perlomeno starei preparando le valigie, questo è poco ma sicuro. Ma non funziona così: a quanto pare sono, ahimè, molto più complicata.
La verità è che qui c’è troppo. Troppe cose, troppe... persone, perché io possa avere il coraggio di mollare tutto e continuare a vivere come se nulla fosse stato. Qui c’è Stephen, che è quanto di più simile ad un padre io abbia mai avuto in sedici anni di vita. C’è Stiles che, che lo dico a fare?, ormai è troppo importante per me perché possa trovare anche solo una parola che renda giustizia a ciò che sento per lui. Ci sono Scott, Allison, Lydia, Jackson e... sì, dai, c’è anche Derek. E c’è una casa. C’è una famiglia della quale nemmeno conoscevo l’esistenza. E, last but not least, c’è mio padre.
Ora, okay, intendiamoci. Non mi aspetto che rimanga qui per sempre, al contrario sono certa che sparirà nel momento in cui inizierò a fidarmi – semmai succederà una cosa simile – giusto per farmi soffrire un altro po’, proprio come se questi sedici anni non fossero già abbastanza ma bisognasse a tutti i costi aggiungere il carico da novanta e spuntare da chissà dove con quegli odiosissimi occhioni azzurri, gli occhiali da sole calcati in testa e la giacca di pelle nera. Apparire quando, a sedici anni, credo di essere pronta a passare tutta la mia vita con la mancanza costante di una figura paterna e ripetermi sempre: “Finora ce l’ho fatta benissimo senza e continuerò così” è diventato quasi piacevole. Ma no, mio padre deve tornare e distruggere tutte le mie convinzioni.
Sapete qual è la cosa peggiore? Una parte di me è disposta a permetterglielo. Non lo dirò mai ad alta voce – forse è questo il motivo per cui sto scrivendo – ma in fondo spero che mi dia una ragione, una, mezza, affinché io possa ricredermi sul suo conto e sul mio. Capire che no, da sola non ce la faccio ma va bene così, perché in fondo ho solo sedici anni ed è giusto che voglia un padre accanto a me: al mondo non c’è persona che non senta ciò che provo io. Voglio potermene convincere, voglio che mio padre mi convinca di questa cosa. Ma allo stesso tempo c’è una parte di me che sa nulla di tutto questo accadrà e se la prende con la metà speranzosa, schernendola e urlandole contro.
Non sono qui a Beacon Hills da tanto, eppure – in questo esatto momento – mi rendo conto con dispiacere di come Austin sia diventata per me quasi un ricordo. Un bellissimo, meraviglioso, ricordo. Ma nient’altro che questo. E, badate, non è nemmeno un ricordo al quale posso appigliarmi nei momenti bui. Al contrario è qualcosa che, quando ci penso, non fa altro che buttarmi giù ancor di più perché mi dà la certezza vera e inconfutabile che non riavrò mai più ciò che ero un tempo – nemmeno quando ci ritornerò. La vita che conducevo, i rapporti che intrattenevo. La spensieratezza che ogni sedicenne dovrebbe avere e che io, neo-chiaroveggente prossima al comando della famiglia Carter, vedo invece scivolarmi tra le dita come finissima e inafferrabile sabbia.
Credo che a questo punto nessuno potrà contraddirmi se mi lamento un po’ di tutte queste cose e decido che dovrei pentirmene ma che non ce la faccio e evito di arrabbiarmi anche se mi piacerebbe un sacco poterlo fare. Una cosa comunque posso dirla con certezza, ed è che sono grata, sul serio. Ringrazio il fatto che qui a Beacon Hills riesco a sentirmi a casa così tanto da non avvertire quasi più la mancanza del Texas. Sono grata a mia madre, a Cass, alla professoressa Morrell e in generale alla Beacon Hills High School per avermi dato l’opportunità di vivere in un altro paese e dico grazie – non a voce ma giuro che rimedierò – ai miei due uomini preferiti per avermi ospitato nella loro meravigliosa casa e avermi fatto sentire come se appartenessi a questo posto e alle persone che vi ho trovato da più o meno sempre. Non tutti hanno opportunità come questa e forse è proprio per ciò che non riesco a pentirmi sul serio di aver cambiato Stato né ad arrabbiarmi per tutto ciò che di brutto mi è capitato. Perché mi sento fortunata e, indovinate un po’?, lo sono sul serio.
Da quando sono qui ho fatto cose che non dimenticherò mai. Sto costruendo la mia vita e non sono sola
Improvvisamente, arrestai il ritmo di scrittura e m’immobilizzai. Stiles era apparso proprio pochi secondi prima che, tanto per cambiare, scrivessi di lui. Che fosse un segno del destino? Ancora non so darmi una risposta, fatto sta che gli dedicai un sorriso stanco mentre chiudevo penna e agenda, posandole sul comodino di fianco al letto. Stiles non se lo fece ripetere due volte: semplicemente gli feci segno di raggiungermi a letto e lui ubbidì – come se ormai fosse una cosa scontata e abitudinale. Io di tutta risposta mi limitai a fargli spazio, nell’attesa silenziosa che si sdraiasse. Non appena lo fece mi misi giù anch’io, con la testa sul suo petto e un braccio attorno alla vita di Stiles. Potrei giurare di averlo sentirlo sorpreso, all’inizio, ma qualsiasi tentennamento svanì quando anche lui ricambiò la mia stretta e mi lasciò un bacio tra i capelli.
«Come stai?», domandò poi dopo qualche tempo, forse percependo il mio vago malumore.
Inizialmente mi limitai a stringermi contro il suo petto, inspirando l’odore che la sua t-shirt grigia emanava. Era l’odore di Stiles ed era casa.
«Stordita», mormorai infine, socchiudendo gli occhi stanchi. «E sono sicura di avere un po’ di febbre».
Be’, in realtà ne ero più che sicura. Quel pomeriggio, durante la chiacchierata con mio padre, avevo preso non poco freddo e già prima di lasciare casa Osbourne avevo cominciato a sentirmi tramortita. Avevo brividi di freddo ma mi sentivo accaldata, proprio com’era tipico della febbre. Stiles, comunque, si limitò ad aprirsi in una serie di: «Oh» che non compresi finché non continuò a parlare.
«Dovrei alzarmi, non è vero? Comportarmi da bravo padrone di casa e portarti il termometro».
Allora risi.
«Ma?», chiesi, nell’attesa che continuasse, già con una risata divertita che spingeva alla base della gola.
Sapevo avrebbe detto qualcosa di ridicolo, come al solito.
«Ma non mi va! Sto così bene…», esclamò infatti, con una voce stridula da bimbo lamentoso. «Cioè, oh Dio. Direi che questo letto è stretto anche per una persona sola e in effetti sto un po’ scomodo, ma».
Lo interruppi subito, mi venne spontaneo.
«La prossima volta dormiamo nel tuo che è più grande».
Solo dopo mi resi conto di ciò che avevo detto. Ancora una volta Stiles prese a boccheggiare e ripetere: «Ah» mentre io pensavo solo oh, merda.
«Cioè…», provai a correggermi, ma cosa avrei potuto dire?
Ero troppo imbarazzata: così tanto che il cervello aveva deciso di non aiutarmi nemmeno un po’. Stiles lo capì subito.
«Harry», mi richiamò, con un tono di voce serio che raramente gli avevo sentito utilizzare. «non andare in paranoia, okay? Mi sposterei già da adesso ma sono troppo stanco e scazzato. Quindi stanotte qui, la prossima da me».
Improvvisamente m’illuminai, proprio come se nulla fosse successo. Un sorriso si aprì magicamente sulle mie labbra, per poi diventare più grande quando – con qualche difficoltà, lo ammetto – mi alzai quel tanto che bastava ad inquadrare il viso di Stiles.
«Dormi qui stanotte?», gli domandai, ricevendo in risposta un cenno d’assenso.
«Mi sembra il minimo, mademoiselle. Tengo compagnia ad una povera donzella ammalata».
Scoppiai a ridere.
«Ma che gentiluomo», dissi. Poi: «Il tuo francese è migliorato» aggiunsi a bassa voce.
Continuai a fissare Stiles in viso, sistemandomi per stare un po’ più comoda mentre gli passavo una mano tra i capelli e ridacchiavo per il solletico che puntualmente riuscivano a procurarmi.
«Continua a non piacermi, però», mormorò Stiles scrollando le spalle. «Tra l’altro se hai la febbre domani salti scuola e mi abbandoni nelle grinfie della Morrell!».
Alzai gli occhi al cielo. Quando ci si metteva, era proprio melodrammatico. Feci per dirglielo, ma poi un altro pensiero mi passò per la testa e non potei fare a meno di ridere poco prima di esprimerlo a voce.
«Puoi saltare scuola anche tu», spiegai infatti, beccandomi un’occhiata stranita da Stiles, che però non chiese nulla e si limitò ad attendere chiarimenti. «Posso infettarti».
E allora ricevetti in risposta nient’altro che un meraviglioso sorriso complice che ricambiai senza farmelo ripetere due volte, mentre mi tuffavo nuovamente sulle labbra di Stiles. Un paio di giorni a casa erano tutto ciò di cui avessi bisogno.
Oltre a Stiles, ovviamente.
 

 
The end
 









Non sono brava coi ringraziamenti, anzi no: faccio direttamente schifo e credo avrete avuto modo di notarlo nello scorso capitolo. Ma ad ogni modo cercherò di impegnarmi perché dopo aver sopportato me e questa storiella senza pretese per la bellezza di un anno e dieci giorni, vi meritate questo e altro.
Innanzitutto voglio ringraziare
lilyhachi, a cui è dedicato questo epilogo che, lo ammetto, lascia un po’ a desiderare. Voglio ringraziarla perché è un tesoro bellissimo e mi è sempre rimasta accanto, dall’inizio fino alla fine, anche al di fuori di parachute. È proprio per questo che le devo tutto.
Poi voglio ringraziare
Muchlove9, che è una vera e propria meraviglia e con le sue recensioni ad alto tasso di sclero mi ha puntualmente fatto spuntare sorrisoni. AHAHAHA, la ringrazio anche perché come fangirla lei nessuno – a parte me, il che mi fa sentire sempre molto ma molto compresa.
E ringrazio anche tutte le altre: chi è stato sempre presente e chi no, perché indifferentemente da questo avete tutte saputo farmi felice e ogni vostra singola parola mi ha aiutata ad andare avanti nello scrivere questa storia che se non fosse stato per quella mezza scena scritta per gioco e pubblicata qui per lo stesso motivo, probabilmente non avrei mai scritto. Quindi grazie, grazie, grazie, grazie!
Siamo arrivati alla fine di questa prima parte del viaggio e l’unica cosa che posso augurarmi è di ritrovarvi ancora tutte qui per leggere delle prossime avventure di Harriet e Stiles, questo quando mi deciderò a pubblicare il sequel. So di certo che non arriverà presto ma il resto è ancora tutto da decidere, quindi se ci tenete a restare in contatto con me (cosa che mi farebbe molto ma molto piacere) potete scrivermi, su efp o fb che sia fa poca differenza. Alla prossima,
hell 
   
 
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