Premessa:
A
volte ho bisogno di scrivere una scena solo perché me
la sono immaginata, di solito non sono i miei scritti migliori,
perché devo
tradurre in parole qualcosa che ho immaginato come in un film e io
quando penso
a qualcosa che devo scrivere di solito penso in termini di parole.
Sempre di
solito condivido poco queste piccole scene, ma ultimamente ho bisogno
di
comunità, di indulgere un po’, per cui ho deciso
di pubblicare. Al contrario di
tutte le mie storie, che cercano (non è detto che ci
riescano) di parlare di
qualcosa, questa non lo fa. Per cui prendetela un po’ come
viene, ecco, e, se
mi dovete giudicare come autrice, fatelo con qualcos’altro.
^^
Alla
fine era stato il modo in
cui la poveretta aveva urlato il nome di Lucius a trascinare Valeria
giù per
scale; fino ad allora era riuscita a ignorare singhiozzi e lamenti,
grida
strazianti e ogni genere di suono sgradevole che proveniva notte e
giorno dai
sotterranei della grande villa vittoriana, lasciando che Messalla
chiamasse
“cantine” le proprie segrete e che i numerosi piani
che la separavano dalle
torture perpetuate in quelle celle intorpidissero la sua
sensibilità come
ottundevano i rumori che ancora riuscivano a raggiungerla.
Non
sapeva che donna Messalla
avesse incatenato nelle profondità della loro dimora, lui
non l’aveva detto e
lei non l’aveva chiesto, poiché non le importavano
né il suo nome né le colpe per
cui meritava quelle sevizie. Solo quando l’aveva sentita
chiamare Lucius con un
alto grido che aveva in sé l’angoscia
dell’invocazione e il furore dell’anatema,
per la prima volta si era domandata chi fosse, da dove venisse, cosa
significasse per Lucius, cosa Messalla volesse da lei; interrogativi
dapprima
vaghi che si erano fatti sempre più insistenti e difficili
da scacciare.
Sentiva
quei dubbi accompagnarla,
curva dopo curva di quelle ripide scale scavate nella pietra,
sospingendola
avanti, scalino dopo scalino, in quell’ambiente freddo e
minaccioso,
costringendola ad avanzare nonostante le tenebre si facessero
più fitte e
l’odore di putrefazione più difficile da ignorare.
Le
grida erano cessate da qualche
ora e tutto nel silenzio umido di quelle scale a chiocciola che
discendeva di
nascosto le pareva parlare di morte e di tristezza. Quando raggiunse
l’ultimo
gradino rimase immobile per un istante: in bilico fra mettere piede nel
corridoio e tornare sui propri passi, fra il disubbidire a un ordine
mai
pronunciato ad alta voce e l’assecondare inquietudini che non
avrebbe mai
ammesso.
Un
improvviso battito d’ali, il
gracchiare inaspettato di un corvo, la fecero sobbalzare; attese ancora
un
momento, preda della propria incertezza, prima di avanzare cautamente,
come se
la lentezza con cui passava dinnanzi alle dieci celle spalancate e
vuote
potesse in qualche modo scusarla dall’approssimarsi
all’undicesima porta, la
gelida chiave stretta convulsamente in un pugno altrettanto freddo.
Non
c’erano spioncini nell’enorme
massa d’acciaio nero che sigillava la cella e Valeria se ne
domandò il motivo
aprendo i sette lucchetti che assicuravano la pesante spranga di ferro.
Dischiuse
il portone leggermente,
rabbrividendo al cigolare lamentoso dei cardini e quasi arretrando per
il lezzo
di morte e marciume che strisciò fuori da quel sottile
spiraglio nelle tenebre.
I corvi gracchiarono di nuovo, forse disturbati dalla luce delle torce
alla
base delle scale, forse dal movimento secco con cui Valeria
spalancò la porta e
fece un passo nella stanza.
Un
ansito di spaesato orrore
echeggiò nella camera e solo dopo qualche istante Valeria si
rese conto che era
suo: sconfiggendo a fatica la densa penombra della stanza, la luce
fioca del
corridoio scolpiva nella tenebra un corpo martoriato, divelto,
inchiodato con
paletti di frassino a una croce pendente dal soffitto, incatenato con i
sui
stessi intestini agli anelli di ferro sul pavimento, circondato da
cadaveri
putrefatti di bambini. Tre corvi banchettavano del sangue e della carni
molli
degli organi di quella donna, impedendo il richiudersi delle ferite che
pure il
suo sangue mistico cercava di curare. Contemplò per un
istante quell’immobile
sagoma spaventosa, finché non la vide sollevare il capo
guardandola di rimando attraverso
grandi orbite vuote.
Gridò.
Una
mano sicura si posò
delicatamente sulla sua vita e un corpo solido si strinse al suo,
abbracciandola sotto lenzuola di seta.
«È
solo un incubo, torna a
dormire.»
La
voce di Lucius era una carezza
calda, un sussurro di velluto e se Valeria non avesse passato duemila
anni a
fuggire dalle sue insidie se ne sarebbe lasciata avvolgere e cullare,
si voltò,
invece, fronteggiando il suo volto avvenente e assonnato.
«Hai
avuto molte donne in questi duemila
anni?»
La
smorfia costipata che distorse
i suoi lineamenti scultorei l’avrebbe fatta ridere se solo
non avesse avuto
ancora impressa nella mente l’immagine di una giovane
crocifissa e dilaniata.
«Potremmo
rimandare questa
conversazione a un momento in cui sarò abbastanza sveglio da
rispondere senza
provocare danni irreparabili?»
«Così
tante?»
Il
suo volto era tanto vicino da
permetterle di contare le ciglia scure che incorniciavano i suoi grandi
occhi
neri e, osservando la luce ferina che brillava al fondo di quello
sguardo
intenso e appassionato, non si domandò più il
numero delle sue conquiste, ma
quello delle sue vittime; non quante avesse sedotto con dolci parole,
ma quale
avesse abbandonato esangui dopo essersene nutrito.
«E
ce ne sono state con la pelle
scura?»
«Devo
chiamare un Leporello
perché canti l’intera aria del mio
Catalogo?»
Non
disse nulla, attendendo la
sua risposta con la calma cupa che quell’incubo da lungo
tempo dimenticato
aveva evocato in lei.
«Abbastanza:
etiopi dalle gambe
slanciate, schiave alessandrine e splendide odalische turche, tuttavia
i loro
volti sono sbiaditi nella mia memoria e i loro nomi smarriti del tutto.
Non c’è
mai stata che una donna per me.»
L’accarezzò
nel dirlo e c’era una
tale possessiva fermezza nel suo tocco e nella sua voce che Valeria
tremò,
sentendo risvegliarsi il desiderio smarrito di scappare lontano, di non
ammettere a se stessa di amare l’uomo sregolato, crudele e
folle che aveva
ucciso una dopo l’altra tutte le persone cui lei avesse avuto
la temerarietà di
concedere un posto nel proprio cuore. Scacciò quel
turbamento nascondendosi
dietro un’altra inquietudine, evocando la disperazione piena
di rancore con cui
quella sconosciuta seviziata aveva chiamato Lucius come se lui
l’avesse
tradita, come se lui le dovesse qualcosa, come se ci fosse stata, a un
certo
punto del tempo e dello spazio, un’altra donna per lui.
«Nessuna
a cui tu abbia concesso
il dono di sangue?»
«Solo
tu.»
Non
era mai stato un dono per
lei, quanto un’imposizione, un gesto egoista con cui Lucius
l’aveva strappata a
tutte le cose che non avrebbe mai lasciato volontariamente.
«Nessuna
che lo possedesse già?»
Lucius
sollevò il capo dal
cuscino, poggiandosi sul gomito in una posa plastica degna di un
dipinto
neoclassico.
«Cosa
stai cercando di chiedere
esattamente?»
Non
ne era sicura: non c’era mai
stata una domanda precisa, solo un nebuloso affanno, così si
limitò a dire
quello che sapeva per certo, sperando di ottenere da Lucius la risposta
tranquillizzante
che fino a quel momento le era stata negata.
«C’era
una donna nei sotterranei
di Messalla. L’ha torturata per anni ma lei non ha mai detto
altro che il tuo
nome.»
Lo
stupore infranse le linee del
volto di Lucius, lasciandosi alle spalle
un’incredulità talmente confusa da far
sospettare a Valeria che davvero non sapesse di cosa lei stesse
parlando.
«E
chi era?»
«Speravo
che me lo dicessi tu.»
La
fessura fra le imposte della
finestra lasciava passare un sospiro di luce sufficiente ad evocare fra
le
tenebre della stanza la sagoma indistinta dei loro vestiti appesi
all’attaccapanni:
due figure lugubri e tristi, eternamente immobili seppure sempre sul
punto di
abbracciarsi.
«Non
hai pensato di chiederlo a
lei?»
Si
levò a sedere e la mano di
Lucius le scivolò lungo il fianco più delicata e
morbida dei grandi palmi
callosi di Hildebrand e delle dita d’acciaio di Messalla.
«L’ho
fatto, in realtà.»
La
prima volta non aveva ricevuto
risposta se non un sorriso stanco e gentile, materno al punto da
sembrare surreale;
la seconda la donna aveva emesso un gemito soffocato, simile a un
sospiro; la
terza le si era rivolta con voce roca e rotta, una benevola ironia a
far
tremare le sue parole di rimprovero: “Avete davvero una voce
di pesca, ma temo
non servirà. Se voleva farmi parlare mandandomi una bella
donna, Messalla non
avrebbe dovuto bruciarmi gli occhi”.
Un
corvo aveva scelto quel momento per affondare il becco più
in profondità nel
suo fegato e la donna aveva spalancato la bocca in un grido muto,
mettendo in
mostra gengive vuote e sformate; anche solo il ricordo di quella bocca
violentata, abitata da due canini solitari e scheggiati
provocò a Valeria un
conato di vomito.
«È
stato così terribile?»
Probabilmente
non lo sarebbe
stato per Lucius, che aveva affrontato ogni orrore della sua
lunghissima vita
con un sorriso seducente e una scrollata di spalle aggraziata, ma
Valeria, che
pure era stata capace di ordinare terribili atrocità nei
confronti di coloro
che l’avevano offesa, non era mai stata brava a guardare in
faccia la
sofferenza degli sconosciuti.
«La
cosa peggiore è che era così
gentile.»
Percepì
un tremito nella mano di
Lucius, una tensione appena accennata eppure impossibile da ignorare e,
guardandolo in volto, scorse un pensiero angosciato sul fondo dei suoi
occhi,
simile a un sospetto al quale non avesse coraggio di dare un nome.
«”
Gentile” hai detto?»
Forse
gentile non era la parola
adatta, ma Valeria non avrebbe saputo spiegare altrimenti
l’attitudine
indulgente con cui la prigioniera le si era rivolta, sebbene la
credesse venuta
su ordine del proprio torturatore per estorcere con dolci moine quello
che non
le avevano strappato con le tenaglie.
Il
sorriso bonario con cui le aveva chiesto di avvicinarsi sarebbe quasi
riuscito
a metterla a suo agio se non avesse aperto tagli sanguinanti sulle sue
labbra tumefatte.
«Gentile.
Quando sono inciampata
su uno dei cadaveri sul pavimento, mi ha chiesto se stessi
bene.»
La
sua voce aveva avuto la stessa
avvolgente premura della schiava che l’aveva cresciuta, ma
Valeria cercò di non
pensarci; Lucius aveva squartato Meda la notte in cui le aveva fatto il
Dono di
Sangue e fare il suo nome non avrebbe fatto altro che rinnovare quel
dolore.
«Che
cadaveri?»
Valeria
non trovò la forza di
rispondere: ogni bambino morto che avesse mai incontrato nella storia
le
ricordava la sua, il piccolo cadavere sanguinolento che aveva stretto
fra le
braccia piangendo la notte della morte di Cesare, e quelle creature
esangui e
marcescenti che giacevano abbandonate in mucchi disordinati attorno
alla croce
sospesa sarebbero stati una ferita aperta nel cuore di qualsiasi madre.
Osservando
nel ricordo il volto
contratto dal terrore di un ragazzino di dieci anni, Valeria
percepì Lucius
levarsi a sedere, il suo corpo farsi ancora più vicino e la
sua mente scivolare
delicatamente nella sua, scrutando attraverso i suoi occhi il marchio
di un
morso sdentato sul collo del cadavere. Udirono insieme la voce spezzata
con cui
la donna rispose per la prima volta ad una domanda che Valeria non
aveva
neppure posto ad alta voce.
“È
la stata la cosa peggiore che
mi abbia fatto. Amavo gli allievi della mia scuola coranica: desideravo
proteggerli dalla guerra, ma non ho potuto proteggerli neppure dalla
mia sete.
Saranno vendicati. In šāʾ Allāh.”
Lucius
sussultò dentro di lei, Ahmad, lo
sentì pensare, il nome carico
di un sentimento tiepido, avvolgente come una coperta di piume o la
voce di sua
madre, un affetto misto a fiducia, rispetto e senso di colpa. La
memoria di
Lucius evocò il volto sorridente di un uomo allegro
nell’esatto momento in cui,
nel proprio ricordo, Valeria alzò gli occhi verso il viso
deformato della donna
e il suo sorriso mutilato e indecifrabile. La mente di Lucius
lasciò la sua con
un silenzioso grido d’orrore.
«L’hai
riconosciuta?»
Aveva
gli occhi chiusi e quando
li riaprì per risponderle Valeria contemplò per
un attimo la totale, smarrita
umanità della sua espressione, domandosi quando fosse stata
l’ultima volta in
cui a Lucius era importato abbastanza di qualcuno da preoccuparsi in
quel modo
delle sue sorti.
«Non
era una donna, era il mio
migliore amico.»
«Era
una donna: nemmeno il più
forte dono delle forme avrebbe potuto cambiare aspetto in quelle
condizioni.»
Lucius
sospirò e guardò lontano
nella penombra che avvolgeva i mobili mediocri di quel rifugio
momentaneo,
senza che l’estrema fragilità della sua
espressione svelasse alcunché circa i
suoi pensieri.
«Ahmad
ha infranto la prima
legge.»
Valeria
sobbalzò; aveva
conosciuto un solo vampiro che avesse bevuto il sangue degli stregoni:
un uomo
disperato e folle, imprigionato per sempre nel corpo del ragazzino che
aveva
ucciso, detentore di un potere enorme di cui era schiavo. Messalla
diceva che
poter dare ordini agli spiriti rendesse le persone pazze e lei stessa
ricordava
con spavento come l’insana disperazione di Raus generasse
colonne di fuoco e i
suoi lamenti portassero la tempesta.
«E
gli spiriti obbediscono ai
suoi comandi?»
«Non
saprei, non l’ho mai visto
comandare nulla in vita mia. È più il tipo che
chiede cortesemente.»
Il
sorriso mesto con cui le
rispose non gli apparteneva e il gesto svogliatamente deciso con cui
scostò le
lenzuola alzandosi le parve carico di una lunga storia di cui lei non
faceva
parte e si trovò a sorridere, guardando sua flessuosa
schiena bianca
allontanarsi verso l’appendiabiti.
«Dove
vai?»
«A
tirarlo fuori di lì.»
Lo
disse con tanta sicurezza,
mettendosi la camicia con un movimento fluido, da sembrale il
protagonista di
un film d’azione, il che le provocò un brivido
freddo: perché Messalla non era
un cattivo da fumetto, perché lei non era una bond-girl
qualsiasi e,
soprattutto, perché non c’era più nulla
di eroico che lui potesse fare.
«Lucius…»
Si
voltò verso di lei con il
ghigno arrogante che lo contraddistingueva e Valeria si
trovò ancora una volta
in bilico fra due i sentimenti opposti con cui aveva danzato negli
ultimi
duemila anni, desiderando allo stesso tempo abbracciarlo per prepararlo
a
quello che stava per dire, e ridere, godendo del piacere rancoroso di
vedergli
provare quel dolore che tante volte le aveva inflitto.
«…è
morto.»
Le
labbra sottili di Lucius si
piegarono in una smorfia sofferta e Valeria si domandò cosa
dicesse di lei il
fatto di non aver mai trovato quell’uomo incredibilmente
attraente tanto bello
quanto in quel momento, mentre cercava inutilmente di non spezzarsi.
Non voletemene male, sto anche cercando di lavorare su qualcosa di
più consistente, ma sono un po' giù di tono
ultimamente.