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Autore: JudeGiuli    20/08/2014    4 recensioni
KidoFudo ambientata nell'epoca del nazismo, ispirata al film/libro "Storia di una ladra di libri". Ovviamente la trama si rifarà al film prima citato solo in minima parte, come vedrete se deciderete di cliccare qua.
La storia parla di Fudou Akio che, essendo figlio di due comunisti, sarà costretto a intraprendere un viaggio con la madre per fuggire alla persecuzione dei nazisti. Quando però la madre non potrà più permettersi di supportarlo, lo darà in adozione al generale Kidou.
Così inizia la sua nuova vita; tra un padre severo, un domestico fin troppo esuberante, e un coinquilino poco portato per la conversazione che nasconde un segreto che gli costerebbe la vita.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Caleb/Akio, Jude/Yuuto
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Era una fredda giornata di dicembre del 1932, la prima volta che vidi quegli uomini varcare la soglia della nostra bottega. A quei tempi io non potevo ancora capire, ero troppo piccolo per conoscere il significato della parola terrore, ma la sensazione che mi rimase impressa nella mente fu così forte che credo non sarò mai capace di dimenticarla. Da quel momento quelle persone diventarono quasi dei clienti abituali, eppure il ricordo delle tristi cene a volte anche assenti che accompagnavano ogni loro visita mi fece capire che non si trattava di visite di favore. Così, poco per volta, la nostra vita diventò sempre più miserabile. La stabilità della nostra famiglia iniziò a sgretolarsi, sentivo sempre più spesso le liti furiose dei miei genitori, le accuse di mia madre e le urla disperate di mio padre che qualche volta era arrivato pure ad alzarle le mani.
La vera tragedia, però, avvenne quando iniziarono le persecuzioni per i comunisti, così, nel 12 Maggio 1933, i nazisti distrussero la nostra bottega e portarono via mio padre; io e mia madre stavamo ritirando il bucato quando accadde, fu così che riuscimmo a scappare conservando quelle poche cose che non erano riusciti a rompere o a rubare.
Allora partimmo per terre sempre diverse, il treno che non si fermava mai, sempre in cerca di un posto in cui fuggire. Sopravvivere divenne la priorità, i tempi in cui vivevamo erano ormai acqua passata. Ma non rimase più neanche una possibilità, fu così che mia madre, per proteggermi, mi fece adottare. Era il 23 ottobre 1933, il giorno in cui percorsi quella strada in quell'auto che sembrava racchiudere tutto il mio tormento: era nera, come il mio pensiero.
Avrei preferito mille volte la calda mano di mia madre in una gelida notte senza coperte, con l'unico riparo di una grotta tetra e angusta che avremmo avuto il coraggio di chiamare casa per soli due giorni. Ci era successo, qualche volta, forse anche più di quanto io possa ricordare. Purtroppo per me, non andò così, e mentre percorrevo quello stretto viale che mi avrebbe portato alla mia nuova vita, non facevo altro che pensare a mia madre e al fatto che probabilmente mi avesse abbandonato per scelta, perchè le ero solo di peso. In fondo, non aveva più importanza.

La macchina si fermò appena davanti all'abitazione e mi presi un'istante per osservarla nell'intero. La casa del generale Kidou era molto lussuosa, più comunemente definibile villa. Era la prima volta che ne vedevo una ed a primo impatto ne restai sorpreso. Poi giunse il disgusto e mi accorsi di non avere alcuna voglia di scendere da quell'auto. Rimasi ad aspettare finchè non venne una donna che sembrava essere una delle domestiche, la quale mi rivolse uno sguardo tutt'altro che amichevole, storcendo il naso e assottigliando gli occhi guardando i miei abiti. Io mi limitai a prendere l'unica cosa che possedevo e conservavo gelosamente, mi spostai il ciuffo da davanti gli occhi e proseguii verso l'uscio dell'abitazione senza aspettarla, ignorando le sue richieste e i suoi continui sguardi sgradevoli.
Se possibile, l'interno della casa era ancora più maestosa di quando fosse l'esterno: sembrava una reggia. Venni scortato fino alla mia camera ed ero sicuro che non sarei mai riuscito a ritrovare la porta di casa. Non fraintendiamoci, non sembrava affatto uno di quei castelli bianchi con la principessa sulla torre, era più simile a quello dell'innominato dei "Promessi Sposi", con l'unica differenza di un giardino colorato da migliaia di specie vegetali, e l'inquietante silenzio che albergava tra le mura della villa. La mia stanza era divisa in due vani: il primo era completo di divano e libreria, il secondo era la camera da letto. La cosa che mi lasciò perplesso fu la presenza di due letti separati.
"Me ne basta uno, di letto" dissi con sorriso sprezzante.
"Non deve dormire mica in entrambi, condividerà la stanza con il signorino Kidou"
Andò via e giurai d'averle sentito sussurrare un "comunisti" tra i denti, con voce sprezzante e carica d'odio. Non ci feci caso più di tanto e mi buttai sul mio comodo letto sospirando. Indugiai su quello accanto al mio: non sembrava ci vivesse anima viva, era tutto troppo ordinato per ospitare un altro essere vivente.
Il mio nuovo "padre" - se così si poteva definire - non si era nemmeno degnato di venire a salutarmi.
Mi stiracchiai, ma non ebbi neanche il tempo di finire, che - non so come - mi ritrovai affiancato da un ragazzino che mi fissava, che spinsi via spaventato.
"Si può sapere che diamine ti prende?" gli urlai contro. Com'era possibile che un ragazzo fosse così...inquietante?
Lui non rispose, si limitò a rialzarsi ed a pulirsi i pantaloni rimettendoli in perfetto ordine.
Lo squadrai da capo a piedi: sicuramente non era una persona qualunque, si capiva dalla fattura degl'abiti; non sembrava un tipo particolarmente atletico e la sua pelle pallida non gli conferiva certo un'aria imponente. Era simile a una bambola di porcellana mal riuscita, soprattutto a causa degli strani accessori che portava e dei suoi capelli rasta.
Più lo guardavo, più mi faceva impressione. "Sei il figlio del generale Kikkocoso?"
Non ricevetti alcuna risposta dal mio interlocutore, che si limitò a sedersi sul letto di fronte a me continuando a fissarmi. O almeno, credevo guardasse me, ma non ne ero certo visto che indossava degli strani occhialini. Sicuramente quei cosi, sommati allo strano mantello bordò che portava, lo facevano assomigliare in tutto e per tutto ad un cretino. Tutto questo senza considerare il fatto che non parlasse.
"Ehilà? C'è nessuno?" Feci io, sventolandogli una mano davanti alla faccia con stizza.
Me la spostò con delicatezza e me la ripose sul letto accanto al mio busto, poi ritornò seduto. Era così composamente dritto che sembrava avesse assunto una posa innaturale.
Sbuffai. Tra tutti i fratelli mi doveva essere capitato proprio lo squilibrato?
Mi sdraiai sul letto deciso ad ignorarlo finchè non se ne fosse andato: non pensavo sarebbe stato difficile, era fin troppo silenzioso.
Non pensavo.
Iniziai a sentire il suo sguardo su di me, e non era affatto piacevole.
"Si può sapere cosa vuoi?" dissi io infastidito, girandomi verso di lui. Non guardava me, bensì il mio prezioso ricordo di famiglia. Il mio libro.
Lo strinsi a me con fare protettivo e lo guardai in cagnesco, sotterrandomi sotto le coperte, sperando che se ne andasse presto.
 
Passarono diversi minuti - o ore, non saprei - in quel religioso silenzio, finchè non venne l'ennesimo domestico odioso. Levai lo sguardo da sotto le coperte all'udire di quei passi sconosciuti: doveva essere nuovo, questo, considerando il suo scalpitare allegro. Quando lo vidi rimasi scioccato. Avrà avuto più o meno la mia età, al massimo qualche anno in più, uno o due all'incirca.
"Salve signorino Kidou!" Ammiccò lui, fermandosi sul posto come un soldato e sfoggiando un ampio sorriso a trentadue denti.
Il ragazzo interpellato gli sorrise di rimando. Aveva un sorriso più semplice e triste, sembrava quasi tirato con forza in quel viso statico e perlaceo.
Due caratteri totalmente diversi.
"Oh, lei deve essere il nuovo arrivato" si giró verso di me continuando a sorridere in quel modo - a mio parere - irritante.
"Io sono Endou Mamoru! Ti va di diventare mio amico?"
La prima cosa che pensai quando lo disse, è che sarebbe stato divertente sfotterlo; la seconda, che doveva essere davvero imbecille per rivolgersi così a due suoi superiori che avrebbero potuto fare rapporto al padre per farlo licenziare da un momento all'altro. Anche se, riflettendoci, doveva essere abituato alla compagnia silenziosa e inesistente del mio nuovo compagno di stanza. Sicuramente non avrebbe mai fatto niente per cacciarlo, forse pure gli piaceva la compagnia di quel tipo esuberante.
La prospettiva della mia vita odierna mi entusiasmava ben poco.
Nel frattempo Endou, non giungendogli alcuna risposta, parve ricordarsi di qualcosa e si battè la mano sulla fronte, come preso da un'illuminazione. "Quasi dimenticavo, il signor Kidou vuole riceverla"
Alzai le sopracciglia sarcasticamente alzandomi con un'insolita lentezza. Se si aspettava che gli sarei corso tra le braccia, si sbagliava di grosso. Mi alzai e salutai con un cenno della mano il tipo occhialuto, dopodichè seguii Endou fuori dalla stanza nell'immensita degli intricati corridoi fino ad arrivare ad una grande porta in legno dipinta di bianco. Il domestico bussò e venne ad aprire la stessa donna di prima che mi fece entrare.
Quello che doveva essere il mio padre adottivo era seduto su una comoda poltrona in feltro beige, le gambe accavallate e un viso che sembrava scrutarmi in tutte le sue sfaccettature. Gli occhi erano neri ed austeri, le contratture severe del viso suggerivano gran parte del suo essere. Eppure nelle profondità delle sue pupille, nello guizzare del suo sguardo apparentemente fermo, si riusciva a intravedere, non senza attenzione, la stanchezza di un destino autoimposto che ormai dettava le sue scelte.
"Siediti" ordinò, senza distogliere lo sguardo su di me.
Feci come mi era stato detto e mi accomodai su una delle comode poltrone della sala. Lui parve dover prendere un grosso respiro per far uscire le parole, come se stesse cercando di sollevare un macigno. Non sembrava affatto un uomo tagliato per la guerra.
"Voglio che tu sappia che in quanto mio figlio, sei dovuto a rispettare certi standard di risultati. Desidero, anzi, pretendo il massimo da te, come l'ho preteso e continuerò a pretenderlo da Yuuto"
Yuuto. Era questo il suo nome, avrei cercato di ricordarmelo.
"E se dovessi rendermi conto che le mie richieste non siano adeguatamente esaudite..." lasciò la frase in sospeso.
Io trattenei il respiro: non so se lo feci per l'agitazione o perché semplicemente la situazione ne richiedeva il gesto.
"Bhe, a quel punto dovremmo cambiare un paio di cosette" concluse.
Mi limitai ad un breve cenno col capo per far intendere che avevo capito e dopo qualche istante venni congedato e riaccompagnato alla mia camera. Senza che me ne accorgessi, era già arrivata la notte.
Mi buttai nel letto senza neanche cambiarmi, la pallida figura del mio coinquilino che dormiva beatamente nel suo letto, illuminato dai raggi della luna, catturò la mia attenzione per qualche istante, prima che cadessi in un sonno profondo, le stelle egoiste che brillavano in cielo con tutta la loro bellezza, ignorando il mio dolore e continuando la loro danza ammaliatrice.
  
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