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Autore: Stay away_00    23/08/2014    1 recensioni
- DAL TESTO. -
Lui era un dannato burattino che attendeva con ansia che i suoi fili si rompessero, finalmente, per non esibirsi mai più.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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PARTE UNO.

 

C’erano poche cose che un uomo non poteva assolutamente accettare. E alcune di queste erano il sentirsi confuso. La confusione non faceva parte degli uomini, non faceva parte degli essere umani in per se e quello Alexander lo sapeva bene perché aveva passato gran parte dei suoi venticinque anni a dirsi che non poteva esserci confusione nella sua vita, ma quella bastarda c’era sempre e lo tormentava; mattino, pomeriggio, soprattutto di notte come una di quelle ragazzine stupide, quelle adolescenti che piangono abbracciando il loro cuscino, chiedendosi cosa accadrà, chiedendosi se quella confusione sparirà mai e lui faceva lo stesso, lui se lo chiedeva e richiedeva senza trovare una risposta, perché a distanza di ben quattro anni, la confusione non era sparita. Bensì peggiorata, era peggiorata e lui non riusciva a farne a meno. A buttarsela alle spalle.
“Dannata confusione.”
Si diceva spesso mentre fumava le sue sigarette e guardava la sua vita scorrere, lentamente. Perché a lui non importava. Non importava nulla dei suoi polmoni, ne della sua vita.
Lui era un dannato burattino che attendeva con ansia che i suoi fili si rompessero, finalmente, per non esibirsi mai più.

 Era il tipico pomeriggio di metà gennaio, a New York pioveva e lui se ne stava seduto con il suo libro in grembo, la sua amata tazza di caffè in una mano e udiva rilassato la pioggia picchiettare sui vetri. Ormai erano ben due mesi che era pensieroso e nessuno gli aveva chiesto il motivo. Forse perché, infondo, non aveva a nessuno a cui importasse.
Portò la tazza alle sue labbra rosee e piene, ben delineate – quasi simili a quelle di una donna – e bevve un piccolo sorso, poi posò la tazza sul tavolino e si diresse nella sua camera, fino alla scrivania, dove tenuta con cura sotto una fila di fogli risiedeva il famoso invito all’evento di suo padre. Una piccola festa di beneficenza da quello che aveva capito, uno atto di bontà dell’uomo più tirchio del mondo. L’aveva letta e riletta e in più aveva anche risposto alla telefonata di suo padre, nella quale gli diceva che non poteva assolutamente mancare, che la mancanza del suo unico figlio sarebbe stata uno scandalo.
Gli aveva persino inviato un completo elegante da indossare quella sera, probabilmente fatto da un sarto importante.
Suo padre era il tipo di uomo a cui piaceva esagerare.
Fino a quel momento si era detto che non avrebbe partecipato, che non sarebbe stato alle sue suppliche, che gli avrebbe dimostrato che era molto più del ragazzino che quattro anni prima aveva mandato via, ma l’amore per il suo vecchio ancora una volta vinceva e quindi in quel momento, mentre osservava ancora l’invito, come uno stupido idiota, decise di andarci. Decise che non poteva permettere ai suoi sentimenti di governare su di lui, decise che non poteva darsi per vinto, che non poteva nascondersi come un cucciolo.
C’era stato un tempo in cui era stato terrorizzato da suo padre, ma quel tempo era finito, quel bambino che soffriva il suo abbandono era morto, ed era rinato un ragazzo, morto anch’esso assaporando l’amore per una donna proibita.
Allora cosa gli restava se non un uomo che non aveva più nulla da perdere? Un uomo rimasto da solo con le sue abitudini ed i suoi demoni, con il suo noioso lavoro e con il suo adorato cagnolino.
Di conseguenza, poche ora dopo si guardava allo specchio, arricciando il naso mentre tentava di aggiustarsi la cravatta. Non era mai stato bravo con quelle cose, non era mai stato un tipo elegante, la sua vita andava bene indossando t-shirt bucate e vecchie felpe, ma di certo non poteva presentarsi li in jeans.
Una volta finito con la cravatta mise la camicia immacolata nei pantaloni di stoffa nera e sistemò la giacca prima di sorridere al suo riflesso e prendere una rosa da un vasetto vicino allo specchio e se la portò al naso, annusando il suo odore e socchiudendo gli occhi, pensando che quella sera sarebbero appassiti tutti i petali.
Ogni uomo, silenziosamente, brama la sua vendetta, ogni uomo sente la rabbia e l’umiliazione. Ogni uomo vuole una sua seconda opportunità ed era tutto quello di cui il piccolo Alexander aveva bisogno, una seconda opportunità e una vendetta.
Tutto quello che il dolce Alexander avrebbe ottenuto quella sera.

 […]

 L’abitazione di suo padre era proprio come se la ricordava, una di quelle ville eccentriche complete di piscina e giardino, quelle classiche che si vedevano nei film.
C’erano luci e c’era musica per lo più il suono dolce del violino.
C’erano persone che bevevano champagne e che chiacchieravano tra loro.
Donne e uomini bellissimi la cui eleganza era visibile ai soli gesti. E fu in quel momento che l’uomo si sentì spaesato, sicuramente fuori posto come una tartaruga in un branco di pesci. Come un pezzente tra i nobili.  Ma di certo non era la prima volta che si sentiva in quel modo. In passato durante le feste della sua famiglia era sempre rimasto in camera sua, fingendo di essere malato o di avere un compito importante, raramente suo padre lo costringeva a partecipare, ma alcune volte accadeva e aveva imparato a mascherare il disagio.
Lui ci sapeva fare con i suoi modi da galantuomo e il visino da angelo.
Si diresse verso il buffet dove si versò a sua volta un bicchiere di champagne e lo sorseggiò lentamente, mentre si guardava intorno incuriosito e si permetteva di studiare persone e ambiente. Cercava di capire cosa si nascondeva dietro quella festa perché non poteva essere semplicemente beneficenza. Un affare importante? Era molto probabile.
Poi, ad un certo punto il suo sguardo si posò su una donna. I morbidi capelli rossi erano racchiusi in una treccia, un abito blu – probabilmente di seta – le fasciava la vita sottile e le cosce delineate mentre la scollatura non lasciava molto all’immaginazione sul piccolo seno. Rideva, tenendo tra le mani un bicchiere di vino rosso, poi, ancora una volta come in un film lo sguardo di lei si posò su di lui e in quel momento smise di ridere, rimanendo con il bicchiere a mezz’aria. Lui a sua volta la fissava inespressivo mentre senza neanche accorgersene aveva cominciato a camminare verso di lei fino a ritrovarsi ad un soffio dai suoi occhi acquamarina, abbassò lo sguardo su di lei e infine le rivolse un piccolo inchino, baciandole con accurata lentezza il dorso della mano e lasciando che un ricciolo biondo le solleticasse la pelle.
-Madre. –
Sussurrò in tono beffardo, prendendosi gioco di lei - sapendo quanto odiasse quell’appellativo, sapendo quanto ci tenesse a puntualizzare che lei era soltanto la donna che aveva sposato suo padre e non di certo colei che lo aveva messo al mondo - senza però osare alzare lo sguardo, senza ammettere che il mondo si era fermato dal momento in cui l’aveva vista, che i ricordi avevano cominciato a danzargli nella mente e che quell’amore aveva ricominciato a battergli nel petto.
Quelle stupide farfalle assassine a svolazzare nel suo stomaco.
Eppure quel momento di assoluto benessere fu interrotto da una presa salda sulla sua spalla, una presa che lo allontanava dalla sua bella e lo faceva voltare, incrociando un paio di occhi verdi come i suoi, gli occhi di suoi padre.
-E papà.- Disse arretrando di qualche passo, senza permettergli di stargli troppo vicino e senza permettere neanche a quella donna di stare troppo vicino a lui.
Sorrise e prese la coppa di champagne che la donna teneva tra le mani e ne beveva un lungo sorso prima di arretrare velocemente, borbottando un “E’ stato un piacere” e scappando velocemente da quella coppia che per tre anni non aveva fatto altro che ferirlo e tormentarlo.
E ancora una volta era scappato, si era detto che non lo avrebbe più fatto, si era detto che sarebbe stato forze, ma quello sguardo, quella voce, quel sorriso avevano risucchiato tutte le sue forze. Ogni volta che si trovava nelle vicinanze di Elisabeth rimaneva sconvolto da tale bellezza e dopo non gli restava altro che il niente e un forte senso di umiliazione e disagio per quella battaglia che non riusciva mai a vincere.
Si rintanò in un angolo della sala e si portò le mani sulla fronte, facendosele poi scorrere sulla nuca, allontanandosi i capelli dal viso. Quella brutta sensazione non faceva altro che crescere e crescere, temeva che da un momento all’altro l’avrebbe divorato, temeva che di lui non sarebbe rimasto più niente, che il suo cuore finalmente si sarebbe fermato e forse fu così, forse quando udì quel suono delicato il suo cuore si fermò e quello che successe dopo fu tutto un sogno:
-Cosa stai facendo? –
Chiese la donna in tono beffardo, con quell’accenno di ironia crudele che poteva sentirsi nella cadenza delle sue parole, quella crudeltà che ogni volta lo spingeva tra le sue braccia e gli faceva desiderare di essere qualcun altro. Qualcun altro con più forza di volontà, una persona nuova, una persona che non era mai stata innamorata. Ma purtroppo era lui e non poteva fare altro che accettare quel tono, non poteva fare altro che fingere, fingere che tutto andasse bene.
-Ammiro il sedere della bionda. –
Inarcò un sopracciglio mentre con l’indice della mano destra indicava una ragazzina – probabilmente sui vent’anni – che parlava con un uomo poco più avanti, rideva come se avesse udito la barzelletta più divertente del mondo e il suo corpo era messo in risalto da un vestitino color cobalto.
La donna a sua volta gli schiaffeggiò la mano e serrò la mascella, assumendo un’espressione indignata che su quel visino da adolescente assumeva un’aria decisamente buffa. Ma l’innocenza che l’aveva contrassegnata in quel momento sparì e sulle labbra rosse della donna andò a formarsi un sorrisetto allusivo mentre si avvicinava di un passo a lui e Alexander in quel momento poté giurare di aver sentito il suono dei suoi tacchi rimbombargli nella testa, come se in quell’attimo tutto andasse a rallentatore. Come se il tempo si fosse fermato e neanche si fosse accorto del viso della donna troppo vicino, delle sue fiato sul collo, delle sue labbra che gli sfioravano l’orecchio, provocandogli un brivido per niente piacevole lungo la schiena.
-Tuo padre se ne è andato.-
Disse solamente e in quella frase c’erano davvero troppe parole non dette, un chiaro invito a rinvangare il passato e a perdersi in quello stupido errore che andava a ripetersi ancora, ancora e ancora.
Posò velocemente le mani sulle spalle di “Betty” – come lui amava chiamarla – e fece aderire la sua schiena alla parete fredda alle spalle di lei, avvicinando pericolosamente il corpo a quello della donna, sentendo l’eccitazione scorrergli nelle vene, quel desiderio farsi vivo, procurandogli quasi un male fisico. 
Forse per quello, per la milionesima volta cedette alla tentazione e posò le labbra su quelle di lei, assaporandole con una lentezza straziante, con desiderio a malapena trattenuto, con amore, paura.
E alla fine si allontanò da lei come se avesse preso una scossa, come se stesse baciando un mostro e non era forse così? Il mostro che gli aveva fatto perdere il senno, che lo aveva allontanato dalla sua famiglia. Il mostro che aveva il potere di distruggerlo e di rimetterlo insieme come se fosse un giocattolo.
Il suo burattino. Lei era il burattinaio che non voleva tagliare i fili.
-Hai il mio numero. –
Cantilenò lei intrecciando le dita dietro la schiena e rivolgendogli il più zuccheroso dei sorrisi, il sorriso che poteva rivolgerti il diavolo prima di rubarti l’anima.

 Ovviamente lui non pensava che l’avrebbe chiamata, non pensava che sarebbe tornato da lei, né che non avrebbe dimenticato quel bacio.
Ma si sbagliava.
Era uno dei suoi più grandi difetti, lui non faceva altro che sbagliarsi, rendendo da se la sua vita un vero inferno. 

   
 
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