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Autore: comeundone    26/08/2014    1 recensioni
Se fosse riuscita a mantenersi lucida. Forse, senza quel whisky e quella sigaretta.
Se non avesse avuto quell’idea stupida di dirgli del concerto. Se avesse accettato le sue scuse per la colazione, e basta.
Ma anche, se lui fosse stato un altro. Non Brian, cioè. Se non avesse avuto quel modo assurdo – gelida arroganza in un involucro di perfetta cortesia – di chiedere scusa. Se non l’avesse fatto con quella voce e quello sguardo di distaccata sufficienza, e quel vezzo di scandire tutte le parole.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Brian Molko
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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24/07/2014, Roma

 

Ore 18.40 – The start of it

That’s the end, and that’s the start of it

 

Lei

Sono passati un sacco di mesi, riflette, mentre aspetta che si aprano i cancelli, e sta fumando l’ennesima sigaretta del pomeriggio, e fissa distrattamente un punto a terra, oltre la transenna. Si sta già divertendo, parla e ride con delle ragazze con cui aveva solo scambiato qualche messaggio, e che invece le sembra siano vecchie amiche. Avevano un braccialetto rosso, come segno distintivo; ma pensa che si sarebbero comunque riconosciute.

Brian è sempre più dentro di lei, e sa che questo si vede. Ma non in superficie – certo, il caschetto nero e gli smoky eyes e il tatuaggio potrebbero farlo credere, ma quella è solo una maschera. Per trovarlo davvero, deve avventurarsi nel profondo, talmente che fino a pochi mesi prima non ci si era mai avvicinata, a quei confini. Confini che Brian ha violato, dapprima solo con la voce, e poi con il resto, una bellezza dolce, senza essere stucchevole, e amara, come una cosa che desideri più di ogni altra, ma che non potrai mai permetterti.  Gli occhi, il sorriso, sono armi scontate, anche se notevoli; c’è qualcosa di molto meno evidente in lui, che fa infliggere loro delle ferite pesanti, che non vuole che guariscano, e che guarda orgogliosa come trofei di guerra. Dio, grazie che mi hai mandato l’amore e la morte attraverso Brian. Grazie per la musica, per le parole, e grazie perché con loro mi sento più forte, perché cerco di cantare, parlare, e guardare il mondo come farebbe lui, e so di aver sempre voluto essere così, anche se non sapevo perché.

Qualcuno si affaccia al cancello e fa le raccomandazioni di rito, spiega che dovranno camminare in fila per due per avvicinarsi al palco, si, come no, vuoi che nel frattempo cantiamo una canzoncina?

Ora corri, Forrest, corri. Ha le sue comode sneakers ai piedi, e ce la può fare. Il concerto di due giorni prima, a Milano, ha decretato la morte delle decisioni sagge, che l’hanno sempre portata a comprare il biglietto in tribuna. Con un po’ di fortuna può raggiungere la transenna, prima o seconda fila, perché sono passati un sacco di mesi, e può reggere Brian a una decina di metri da lei.

Peccato, un coscienzioso operaio ha posato sul terreno una canalina, a proteggere cavi elettrici, probabilmente. E la giudiziosa, protettiva canalina crea un piccolissimo rialzo, solo pochi centimetri, esattamente quelli che servono a piegarle la caviglia. Addio prima fila, pensa prima ancora che il dolore arrivi al cervello. Addio concerto, pensa subito dopo. Alza una mano, dubita che qualcuno si avvicinerà prima di 5 minuti, che sono quelli necessari a occupare le posizioni chiave davanti al palco, microfono destro, microfono sinistro, e il resto a seguire, per tutti quelli che “soprattutto per la musica”.

Lei ama la loro musica. Lei adora la loro musica. Ma avrebbe voluto rivederlo da vicino, ora che sono passati tutti quei mesi.

 

Lui

Sono passati un sacco di mesi, riflette, mentre aspetta che arrivi l’ora di salire sul palco, e sta fumando l’ennesima sigaretta del pomeriggio, e fissa distrattamente un punto a terra, nella sua dressing room.

Brian da qualche tempo ha ritrovato Stefan, ed è felice. Almeno, non così infelice da doversi ammazzare di alcool tutte le notti. Le medicine, di quelle ha ancora bisogno, ogni tanto. Ora, ad esempio, si sente mortalmente stanco, così stanco da non avere la forza di alzarsi da quel piccolo divano, in quella piccola stanza, in cui dovrà diventare ancora una volta il bellissimo frontman dei Placebo, una maschera così perfetta da far dimenticare la sua statura, e i pochi capelli, e i chili che ha messo su.

Non ha la forza di alzarsi sulle gambe, figurarsi quella di uscire da lì, cantare e muoversi per quasi due ore. E ne ha voglia, davvero, ma non ne ha la forza. Decide che la cosa migliore è provarci comunque, ed andare in infermeria. Meglio che a dargli qualcosa che lo tiri su sia un dottore, piuttosto che chiederlo ai ragazzi. Oh, glielo darebbero, nessuno di quelli che ha intorno, per amore, paura o interesse, ha mai la forza di negare qualcosa a Brian. E Brian, invece, avrebbe tanto bisogno di avere intorno qualcuno, che sapesse cosa è meglio per lui, più di quanto non lo sappia lui stesso.

 

 

Ore 19.05 – Come undone

You don’t know what you’re coming across

You don’t know who you’re coming across

You don’t know how you’re coming across

So you come undone

                                                                                                             

Lei

Quando a gennaio era uscita la data di Roma, gli era sembrata una coincidenza incredibilmente affascinante. Lei era stata a Parigi, il 10 dicembre; e quel concerto a Roma, il giorno del suo compleanno, sembrava un sogno. Ora, l’hanno portata in infermeria, ed è sdraiata su uno dei lettini, il piede gonfio e oramai inservibile.

Bel regalo del cazzo. Il concerto avrebbe continuato ad essere un sogno, a giudicare dal dolore. Che male, il piede. Non lo vedrà ancora, quell’uomo di cui si è innamorata, quando ha sentito che l’aveva cambiata, l’aveva resa quella che era veramente, spogliandola di modi di fare e di essere assurdamente convenzionali e conformisti. E a cui sente di assomigliare in tantissime cose, per quello che si dice di lui. Il sarcasmo, cattivo, con il sorriso sulle labbra. Il linguaggio forbito, mescolato spesso e volentieri ai vaffanculo, alle persone e ai comportamenti che non le piacciono. Non prendere sul serio niente, ridere delle regole, a parte quelle che mette lei. I cambi improvvisi di umore, e il vestirsi di nero per sentirsi veramente a posto. L’età che passa e dentro, sentirsi sempre degli adolescenti. Il fisico minuto e androgino, e il trucco perfetto, provocante senza essere volgare. Un sorriso, leggero, insieme ad uno sguardo che sa di sesso. Ecco perché lo guarda continuamente; come in uno specchio magico, in cui vede se stessa, come avrebbe sempre voluto essere.

Lui

Brian ha trovato l’infermeria, ma dentro non c’è nessun dottore. C’è una ragazza sdraiata sul lettino, una mano sul viso atteggiato ad una smorfia di dolore. Brian le si avvicina, mentre la mano le scivola via dal viso e cerca di alzarsi, e si trova davanti un clone, una ingenua, anche se piacevole, imitazione di se stesso; e lui stesso si sente improvvisamente una imitazione di sé, 20 anni prima.

Lei

Apre gli occhi, spalancandoli appena. “Noi ci siamo già visti.”, le dice Brian. Visti, si. E sentiti. A Parigi, una mattina di dicembre. “Era il giorno del mio compleanno.” Che memoria, mr. Brian Molko dei Placebo.

Brian le sorride, senza aggiungere altro, e lei abbassa la testa. Sarebbe il momento di flirtare, attività in cui è bravissima, ma in quel momento non è pronta a farlo, non è pronta nemmeno dopo tutto quel tempo.

Brian abbassa gli occhi un momento, senza smettere il sorriso complice, ma non la guarda più, e lei ricomincia a respirare normalmente. Poi torna a parlarle, indicando il piede: “Fa male? Posso fare qualcosa?” Si, grazie. Portami a casa, e facciamo l’amore. “No, ma grazie per averlo chiesto.”

“Vuoi bere? Acqua?” Indica il distributore di bibite, sul corridoio. Lei annuisce, brevemente, e volge la testa dalla parte opposta, verso una parete. Vuota, grigia, molto più rassicurante degli occhi di Brian. “Magari una Coca. Oggi sono io a compiere gli anni.” E fa segno con le mani, 4,2. Brian alza le sopracciglia, e sorride divertito. “Accidenti. A 24 anni, puoi avere il mondo in mano.” E lei ride, con lui, e questo lasciarsi andare rompe gli argini che credeva d’aver costruito, mentre capisce che è di nuovo perduta.

 

 

Ore 19.25 – Protect me from what I want

Wedding bells ain't gonna chime
With both of us guilty of crime
And both of us sentenced to time
And now we're all alone

 

 

 

Lui

Brian ride insieme a lei, e d’un tratto ricorda tutto, ricorda perché l’ha invitata nella sua camera. Per divertirsi, certo. Per stare bene, anche se solo per qualche istante, certo. Perché chi lo faceva stare bene tutti i giorni, tutte le notti, non c’è più ora, e, panta rei, non ci sarebbe comunque. Ma quel modo di fingere che lui non sia Brian Molko, e fingere di non essere vittima del suo personaggio, e farlo sentire solo Brian, e farlo sentire colpevole solo di quello di cui effettivamente ha colpa, come chiunque altro, è qualcosa che gli ricorda, vagamente, quello che ormai è un altro fantasma nel suo passato.

Vorrebbe farle un regalo, per ricambiare in qualche modo quella sensazione effimera di normalità e di benessere che gli ha regalato. Ma non ha nulla, non la conosce, non conosce i suoi gusti e ora che ci pensa, non sa neppure il suo nome.

Lei

Una storia con Brian deve finire male. Una fine amara è il tributo inevitabile alla legge per cui nell’Universo, tutto deve bilanciarsi. Brian è il serpente che ti incanta con la voce, senza che tu sia cosciente di quanto ti costerà. Brian ti inonda di filastrocche fino ad un attimo prima di scomparire. E tu lo seguiresti ovunque, su qualunque strada, anche se è chiaro che non vi porterà da nessuna parte, anche se assomiglia ad un labirinto e non hai nessun filo in mano e non fate altro che andare e venire, come un’onda lenta e irrequieta, mentre credi di vedere l’uscita, e invece ci sei sempre più dentro.

Perciò ora, davanti a lui, sa esattamente che si trova davanti ad un bivio, e che un cartello indica a grandi lettere: inferno. Sa che se lui dirà ancora qualcosa, o si avvicinerà solo di un altro centimetro, crederà di nuovo al paradiso, un attimo prima di bruciare.

Mentre pensa queste cose, Brian le si avvicina, lento, e posa le labbra sulla sua guancia, abbastanza lontano dalla sua bocca, da essere considerato un bacio perfetto, per augurare buon compleanno ad un amico, e abbastanza vicino, da farle avere un fremito.

Poi si stacca, e la guarda negli occhi. Aspetta. Non andrà oltre, se lei non farà niente. Ma, di fatto, non ha scelta, quell’unico, innocente tocco la sta facendo già tremare. Ha chiuso gli occhi, scostandosi un po’ indietro, verso il muro, in cerca una difesa da quella scossa che l’ha attraversata, sapendo di essere la regina degli ipocriti. Lei vuole morire, di quella scossa. E si avvicina di nuovo, gli occhi nei suoi, e cerca le sue labbra e lo bacia piano, dicendogli in silenzio che va bene, va tutto bene, non deve preoccuparsi di nulla perché il mondo ora è perfetto e per tutto il resto ci sarà tempo.

 

 

Ore 23.50 – A million little pieces

It’s way too broke to fix

 

 

 

Lei

Ricorda d’aver preso un antidolorifico, forte, che le hanno dato in infermeria. Deve essere stato quello che le ha creato quella nebbia in testa, rotta solo da qualche lampo. Brian che la sostiene, mentre attraversano il corridoio, verso il suo camerino. Brian che chiude la porta. Lei che si stende su quel divano, piccolo, comunque nessuno dei due è un gigante e li ci si è sentita bene; sta cercando di ricordare, se si è mai sentita più a casa di quando è stata tra quelle braccia, su quel piccolo divano.

Sta cercando di ricordare. Ma l’antidolorifico è forte, il piede non fa più quasi male, il cuore, invece, è a pezzi, in un modo che non sa se si potrà rimetterlo insieme.

Non perché Brian abbia fatto qualcosa di sbagliato, si è steso piano accanto a lei e ha cercato in tutti i modi di essere delicato, di non farle male. Senza riuscirci, ma senza volerlo. E’ sempre stato quello, il problema.

Alla fine, era talmente ridicolo pensare di fargli credere che era tutto a posto, che ha dovuto accettare la sua offerta, e il concerto lo ha visto, seduta, a pochi metri da lui. Ora la voce, e i movimenti, e quelle mani sulla chitarra rossa, non potrà toglierseli più dalla mente, nemmeno pregando di poterlo fare.

 

                                                                                                                                                                                                            Lui

Il concerto è stato perfetto. Ecco, questo è il suo problema. Ha portato tutte le sue esibizioni allo stesso, altissimo, livello. Ogni imprevisto, ogni sbavatura, è stato eliminato o nascosto sotto uno spesso strato di make-up. Troppo, Brian non c’è più, su quel palco. It’s killing time, e a tagliarsi la gola è rimasto solo un attore. E questo, anche chi è in prima fila, lo ha capito benissimo.

Stupido, arrogante Brian.

Sarebbe stato facile rendere immortale il tuo mito. Hai voluto tornare sulla Terra, vivere una vita normale, ma questa ti ha ucciso.

Piccolo, ingenuo Brian.

Nessuno ti vuole veramente ora, avrebbero preferito mille volte che rimanessi per sempre Nancy Boy.

Lo sai perfettamente, mentre ti togli il trucco, la mano che si muove lenta, l’odore forte di sigaretta dentro quella cazzo di minuscola stanza.

Si sdraia sul divano. Domani, riposo. E poi un altro concerto, ecco a voi, signore e signori, mr. Brian Molko dei Placebo di Londra, che viene in pace.

Si sta comodi, su quel divano. Sul cuscino un profumo, che non è il suo. Non sa neppure il nome, e non ci saranno conseguenze, non ci saranno complicazioni, c’è stato solo sesso, perciò è stato perfetto.

Come il suo prossimo concerto.

 

 

Ore 00.25 – Every you, every me            

Because there’s nothing else to do

Every me, and every you

 

 

                                                                                                                                                                                                            Lei

E’ stato egoista, a tratti rude, Brian, ma è stato del buon sesso. E questo dovrebbe farla felice, è comunque qualcosa che ha condiviso con lui. E’ qualcosa di minuscolo, d’accordo. Di insignificante.

Qualcosa che non dovrebbe sentire dentro, ora, come l’innesco di una bomba.

TIC, TAC. TIC, TAC.

 

Lui

TIC, TAC. TIC, TAC.

Da una mezz’ora, guarda fisso il display del suo cellulare, che segna il tempo come un vecchio orologio analogico, facendo lo stesso rumore cadenzato, rassicurante.

Ora però smetti di pensarci, si impone, alzati e fatti una doccia.

 

Lei

Lei è sotto la doccia, e si guarda il tatuaggio. “E’ la cosa più stupida che potessi fare”, le ha detto, lo sguardo duro, la bocca tirata in una linea sottile, sprezzante. A parte rivolgerti ancora la parola, e seguirti nel Paese delle Meraviglie per la seconda volta, no? A parte quello, si, il tatuaggio è stata una cosa molto stupida. Le chiederanno per tutta la vita che cosa significa. Equilibrio, significa equilibrio, dirà.

Invece, è solo il ricordo di quando una volta si è trovata davanti ad un bivio, e l’istinto le ha detto di seguire una strada, ed ha camminato senza sapere dove stava andando, finché non è andata in pezzi.

L’antidolorifico doveva essere molto forte, perché non ricorda quasi altro di quello che si sono detti in quella stanza. Ma ricorda bene quello che si sono detti dopo, perché non c’è nulla da ricordare. E’ stato più facile della prima volta, perché in fondo non si aspettava nulla, ed aveva già esaurito tutto l’odio che si può provare verso chi si ama senza essere amati, e non c’è stata gelosia, non c’è stata rabbia, e non c’è stato quel senso di ubriacatura degli amori che scoppiano violenti.

C’è stato solo sesso. Perché non c’era nient’altro da fare.

Lui

Non c’era nient’altro da fare, Brian lo sa. Lo sa, di non essere in grado di dare nient’altro, ora; chissà se è stato mai diverso, si dice con amarezza, e in tutti i casi, è stato tanto tempo fa.

Si domanda se anche lei, ora, è sotto un getto d’acqua calda, per pensare ancora a quello che è successo, o per togliersi di dosso la sensazione di essersi buttata via, per la seconda volta.

Poi esce dalla doccia, e mentre si asciuga lentamente, guarda lo specchio appannato che ha davanti. E pensa che no, non c’era nient’altro da fare.

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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