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Autore: Arepo Pantagrifus    09/09/2014    1 recensioni
“L’uomo, nato da donna,
breve di giorni e sazio di inquietudine,
come un fiore spunta e avvizzisce,
fugge come l’ombra e mai si ferma.”
GIOBBE 14, 1-2
Genere: Drammatico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando tornai in superficie non era rimasta traccia di alcun essere umano: la natura li aveva debitamente condotti all’estinzione. Ad inverni meno rigidi si intervallarono estati sempre più calde. L’aspetto della Terra come io lo avevo conosciuto, non esisteva più. Era radicalmente cambiato. Ogni ricordo che se ne aveva era, inoltre, perduto, come pure la memoria degli uomini e gli uomini stessi.

Fui solo. Definitivamente solo. Vidi il mio palazzo anno dopo anno creparsi, rovinarsi, e un poco alla volta sgretolarsi. Era inevitabile: le meraviglie della tecnologia si danneggiarono e si arrugginirono. L’oro e le pietre preziose rimasero chiuse negli scrigni; lì, inutili, a farsi guardare: una volta simbolo di potenza e ricchezza, da esibire davanti agli uomini, ma adesso che non c’era più nessuno, erano rifugio per ragni e vermi. Le stoffe e i mobili lussuosi si lacerarono e marcirono, e tutte le opere dell’ingegno umano stavano andando perdute, divorate dal tempo. Tempo che consuma e nasconde ogni cosa, e che trasforma tutto in cenere.

Del mio meraviglioso palazzo rimasero solo le sue architetture; maestose rovine soggette al freddo e alle intemperie. Anche queste, però, non durarono in eterno, e le vidi sbriciolarsi e trasformarsi in polvere e sassi; da questi nacque nei secoli una foresta, che vidi bruciare e distruggere completamente dal fuoco, poi vidi il mare che sommerse quei tronchi carbonizzati, e quando anche il mare si ritirò, rimase solo un deserto sabbioso. Su questo deserto, un giorno, camminai lasciandomi il sole alle spalle e ammirando un’ombra stagliarsi davanti a me.
Chi era quello? Di chi era quell’ombra? Lui chi era? Io chi ero? Che cos’ero?

Ero un uomo? L’uomo si era estinto: non potevo essere un uomo. Un suo simile, forse, ma l’uomo non era più. Eppure quell’ombra mi diceva chiaramente che esistevo: ero carne ed ero vita, ed ero pensiero! Ero giovane e bello, ero un uomo perfetto, ero un uomo incorruttibile ed eterno, ma la natura intorno a me No. Mi sfiorava, ma non mi toccava: continuamente mutava e si mutava, trasformava e si trasformava, mentre io non mi mutavo e non facevo mutare, non mi trasformavo e non producevo trasformazioni. Ero insignificante e impotente ma al tempo stesso ero potente sul tempo e immortale nel corpo. Ero la forza e la debolezza, ero la potenza e l’impotenza, ero l’onnipotenza e l’impossibilità, ero il bene e il male, ero la gioia e il dolore, ero l’amore e l’odio. Ero nato ed ero destinato a morire, ma quando dovrò morire? Potevo dire di aver vissuto una vita? Una vita identica? Sempre uguale a me stesso? Lo stesso giovane e bel viso del tempo?

Ero, esistevo, ma rinunciai da quel giorno maledetto ad una vita: fui, ma non esistetti, ed esistetti solo per essere e apparire. Ero forzato a vivere aspettando solo di morire, ma la morte rifuggiva da me: sarebbe stata un sollievo, una liberazione, ma non mi era permessa. Vissi una vita vuota e priva di senso, vissi per scontare una crudele condanna: quella di essere nato. Vissi dimenticandomi della mia vita, delle persone, dei miei genitori, della mia nascita. Qual era, qual è stato e qual è il mio nome?

Improvvisamente udii un rumore tanto inatteso quanto dolce. Mi girai e rimasi abbagliato dalla luce e dalla bellezza insostenibile che questa sprigionava. Una luce accecante e meravigliosa, come un sole, un fuoco, una stella, dai capelli di seta e dal corpo velato. Tutto avvolgeva e tutto smorzava: venni proiettato in uno spazio così luminoso che non era sopportabile alla vista, sicché dovetti coprirmi gli occhi con le mani. Udii però la sua voce: la luce parlava come se fosse ovunque intorno a me, produceva suoni e melodie armoniose che incantavano l'orecchio… Tentai allora di riaprire cautamente le palpebre e vidi allora tutta la sua magnifica figura confusamente radiosa e inavvicinabile, come se stesse ripetendo continuamente con la sua voce serena e soave l'infinita interrogazione: «Sei tu?»

Ero l’unico al mondo, come poteva avere dubbi? Io ero sicuro di essere me stesso, di essere io quello che cercava, ma lei ripeteva sempre la stessa domanda. Era impossibile che fossi cambiato: io ero ed ero stato lo stesso di dieci, cento e altri mille anni prima, lo stesso che conobbe in un mercato affollato… perché non mi riconosceva? Perché? «Guardami! Sono io! Non mi riconosci?» Feci un passo verso di lei, ma fu come se lei si fosse spaventata. Immediatamente la magia cessò tutto d’un tratto e lei pure smise di parlare. Forse non mi riconosceva? Forse non guardava all’apparenza, ma vedeva un vecchio storpio e millenario, odioso e malvagio? Vedeva quello che io ero diventato dopo che se ne andò, vedeva il me crudele e sanguinario: non quello che l’amò, ma quello che la odiò e uccise. Non riconobbe più il suo amore, il mio amore per lei: «No! Ti prego! Non ero io quello! Era un folle, un pazzo! Era un uomo che aveva conosciuto troppo bene il tuo amore!» Ma io non potevo mentirle, perché lei aveva nella sua mano il mio cuore, e con questo se ne fuggì lontano. In quegli istanti velocissimamente tutta la luce svanì, come rapita e attratta da lei. Tutto intorno a me venne proiettato in quel punto e prima che io potessi riuscire a pronunciare un’altra sola parola, lei scomparve con un ultimo improvviso bagliore che mi trafisse l’iride. Mi lasciai cadere a terra disperato, con le mani sul viso a nascondere la mia vergogna, per nascondermi da me stesso.

In che cosa mi ero trasformato… Capii in quel momento di essere solo un folle, un folle che preferì morire, fuggire dalla vita e dimenticarsi dell’amore perché aveva amato troppo. Amai troppo, e me ne feci una colpa. Avevo creduto veramente di averla dimenticata per l’eternità? Avevo creduto di esserci riuscito, ma avevo dimenticato pure chi ero. Avevo creduto che dimenticandomi avrei risolto il problema, ma non servì a niente.
Rialzando lo sguardo, vidi nel cielo soffocante un rosso Sole che illuminava le mie orme impresse nella sabbia. Erano l’unica certezza del mio esistere: ero ancora, malgrado tutto, Io, un qualcuno, un qualcosa… Ma quando mi accorsi che il vento le stava cancellando, allora fui preso da un indicibile sgomento.
Forse per questo fui condannato a vivere, a vegliare sui resti dei vissuti, ad esistere, e a contare gli anni che passeranno in eterno, fino a quando un nuovo evento celeste non interromperà il suo ciclo.

Attendere. Aspettare la morte che non verrà. Qui sulla Terra, disabitata da millenni, pugno deserto di roccia, arido e secco in mezzo al nulla. Ero solo. Sono solo. Solo, in un mondo di polveri. Solo, nell’universo.

 

   
 
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