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Autore: Callie_Stephanides    18/09/2014    14 recensioni
[Kaijū!AU] Dopo la morte dell’amico e copilota Bucky, Steve Rogers ha abbandonato la divisione S.H.I.E.L.D. e il progetto Jaeger. Quando tuttavia la minaccia dei Kaijū, creature mostruose vomitate dalla faglia atlantica, insidia la baia di New York, il colonnello Fury non esita a richiamarlo: l’umanità decimata ha infatti bisogno di qualcuno che la protegga.
O che la vendichi.
(…) “Non posso guidare uno Jaeger senza Bucky.”
“No, non può farlo senza rabbia. Cosa pensa della vendetta, Capitano?”
“È solo un altro modo di chiamare la sconfitta.”
“Il colonnello Fury ritiene piuttosto che sia la giustizia, se la incoraggi con mano pesante. Il tempo delle carezze è finito. Fuggire è un lusso che non possiamo concederci.” (…)
[ATTENZIONE! Il contesto narrativo è mutuato dal film Pacific Rim, ma la collocazione geografica delle vicende e i protagonisti appartengono al MCU]
Genere: Azione, Guerra, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Nick Fury, Steve Rogers/Captain America, Thor, Tony Stark/Iron Man, Un po' tutti
Note: AU, Cross-over, Movieverse | Avvertimenti: Incest
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There will be time, there will be time
To prepare a face to meet the faces that you meet.
― T.S. Eliot

VII.
Polvere d’oro, polvere di stelle

La guerra è la cartina al tornasole del carattere di un uomo. Non esiste nulla di altrettanto efficace per rivelarne la polpa: lo diceva Abe Zilkowski, un vecchio portuale di Gdańsk che l’avvento dei Kaijū ha trasformato in ‘ratto di barriera’.
Vecchio, poi: probabilmente aveva poco più di cinquant’anni, ma una vita intera spesa a farsi schiaffeggiare dal vento del Nord gli aveva ricamato in faccia una storia secolare.
 
C’è chi brilla solo con la morte a mordere il culo.
I piloti degli Jaeger? Quasi tutti di quella pasta.
La guerra è una polverina d’oro che rende nobile l’ottone, ma basta un niente a grattarla via.
 
Steve ricorda tutto; la memoria, dal giorno in cui Bucky è morto, è un’espiazione quotidiana e l’unica assicurazione di futuro che gli resti: le parole di Abe, infatti, rappresentano ora il metro con cui valuta l’avversario.
 
Molleggia sulle ginocchia, abbassa il baricentro e poi conta.
 
Chiaro, Steve? Con.ta.
È come ballare.
 
Ma io non so farlo.
 
Tocca a tutti, bello. Soprattutto se la musica fa schifo.
 
Il norvegese somiglia ai ghiacciai dell’estremo Nord: stagno, forte e del tutto privo di asperità arroganti. Calibra con attenzione i colpi, trattiene la forza pur intuendo quella dell’avversario. Sa combattere e gli piace farlo, ma è una sfida che vive con se stesso, non con il pubblico.
Il bastone sciabola l’aria e si arresta a qualche pollice dal suo polso.
“Scusami: pensavo ad altro.”
Thor arretra e gli restituisce spazio, senza una parola di troppo.
Steve ricalibra la presa. Il legno è asciutto e pesa nel palmo più di quanto ricordi.
 
Stiamo facendo la figura dei principianti, se non te ne fossi reso conto.
 
Stiamo?
 
Bucky sorride nella sua testa.
 
Come sempre: stiamo. Noi siamo una squadra e lo saremo persino oltre la linea.
 
Massaggia i muscoli indolenziti del collo ed è quasi scrollar via un po’ di ruggine, l’indifferenza apatica con cui paralizzano tutti i grandi dolori.
“Finalmente,” dice Thor. “Ora duelleremo come si conviene.”
Il tono è giocoso; la luce che coglie sul fondo dei suoi occhi, colma di autentica soddisfazione.
Steve scarta di lato, raddoppia la presa sull’asta per liberarne l’estremità sinistra non appena l’avversario scopre il fianco. Thor para il colpo, ma non riesce ad anticipare anche il secondo affondo: una lancia o una spada gli sarebbero state fatali.
Il norvegese brontola tra sé e riprende subito posizione.
Il lupo tatuato, lucido di sudore, pare quasi che rida.
“Che letizia,” grugnisce nel suo inglese improbabile, mentre appunta oltre l’orecchio una ciocca sfuggita al legaccio con cui si è raccolto i capelli.
Steve è pronto a difendersi, consapevole di come gli sguardi di un pubblico sempre più nutrito sezionino ogni suo movimento – ma non gli importa.
Un uomo deve sapere chi è – amava ripetere Abe – a maggior ragione quando recita a soggetto. Non è la guerra a raccontarti, salvo che tu non scelga il sangue per inchiostrarti il futuro.
Quello che hai voluto.

*

La lettera di congedo lo fissa dal piano di formica: la burocrazia è l’unica che ricorra ancora alla carta o forse la scelta è legata al bisogno di costringerlo ad accettare l’inevitabile.
È carta, si tocca, esiste. È qualcosa di definitivo: Loki Odinson è morto per lo S.H.I.E.L.D.
A questo punto, pensa, anche per il vecchio che ha chiamato ‘padre’ troppo a lungo.
Scrolla il capo, evitando l’ennesimo schiaffo dello specchio.
Tornare a Oslo, ma per cosa? Concludere il dottorato, sì, e poi?
Passa l’indice sulla busta: spessa, resistente, di un leggero color avorio, ricorda quella che gli ha cambiato la vita.
 
Idoneo. Idoneo. Idoneo.
 
Congedato.
 
“Non vieni?”
Il muso da topo dell’amica di quella fa capolino oltre la porta.
Quella è la donna di Thor; muso-da-topo, una deficiente convinta d’essere interessante.
“Dove?”
“Selezionano i nuovi piloti.”
“Non perdono tempo,” osserva e le regala un sorriso polare. “Grazie per avermi avvisato, Dharma. È proprio quello di cui sentivo il bisogno per migliorare il tono della giornata.”
Muso-da-topo sbatte le palpebre e porta le dita alle labbra, consapevole (forse) della propria stupidità.
Loki si ravvia i capelli e la oltrepassa.
“Darcy,” squittisce la cretina. “Non Dharma: io mi chiamo Darcy.”
Come se avesse una qualunque importanza.
I corridoi della base paiono deserti. Tra cubicoli e pannelli a tenuta stagna, sfilano rare ombre silenziose, che non bastano a creare un’illusione di vita. L’eco dei suoi passi è assordante o forse è solo il riflesso di un’altra emozione: la consapevolezza d’essere, per l’ennesima volta, la macchia del quadro; qualcosa da eliminare, perché fuori posto.
Muso-da-topo non demorde e lo segue, convinta – chissà perché – che tanto lo lusinghi.
Thor la trova divertente, come se non fosse la prova che senza cervello si vive comunque.
È il cuore che ti frega, pensa. È chi fa il nido tra i tuoi pensieri e non ti abbandona più.
“Potresti restare comunque, però.”
Muso-da-topo lo affianca e cerca il suo braccio, con una naturalezza che lo lascia, sul momento, del tutto privo di risorse.
“Che fai?”
Basta un’occhiata, per fortuna, a ripristinare la distanza.
“È quello dove… Be’, sì… Scusa, non volevo farti male.”
Loki serra le dita e trattiene a fatica l’istinto di cavarle gli occhi. Non sarebbe conveniente, né pulito, né civile.
Tutto sommato, però…
“Volevo dire che gli scienziati servono quanto i piloti. Tu non hai una laurea in matematica o qualcosa del genere?”
Qualcosa del genere… Mettiamola così. Ma non m’interessa: la sopravvivenza, ormai, dipende solo…”
“Il professor Selvig sta studiando il Tesseract e sembra che Tony Stark voglia driftare con il cervello di un Kaijū, perciò… Ops. In realtà sono informazioni che non dovrebbero uscire dal settore H.”
Loki sogghigna, poi le sfiora i capelli, trattenendo la mano abbastanza a lungo da creare l’illusione di una carezza.
“Hai detto qualcosa, per caso? Non ho sentito niente.”
Muso-da-topo sospira, morbida e arrendevole come una bestiolina grata.
“Andiamo a vedere che combina mio fratello. Sono curioso…”
 
Driftare con un Kaijū? Un’idea degna di Stark, ma l’onore toccherà a qualcun altro.
L’unico che lo meriti davvero.

*

VIII.
L’arte di vivere in difesa

Tony Stark rumina mirtilli liofilizzati in un angolo dell’hangar. È un soldato dall’aspetto innocuo, ma dal morso feroce: i suoi occhi, infatti, non abbandonano mai il perimetro di scontro e le labbra, sigillate, celano ben altro che stucchevole gelatina.
“Colonnello…” biascica, porgendogli la busta saccheggiata. “Pesta duro, il nuovo acquisto. È la prima volta che vedo il vichingo sudare.”
“E questo ti disturba?” replica, prima di tentare la sorte con una pallina dalla consistenza gommosa.
Stark si stringe nelle spalle. “Non più di tanto, anche se ormai…”
“Ormai?”
“Non saranno di sicuro i pugni a giocare l’ultima mano.”
“Mi piacerebbe proprio sapere a che alludi, Stark.”
L’altro mastica l’ennesimo mirtillo con studiata lentezza. All’interno del quadrato d’asfalto, il sudore dei due contendenti schizza un quadro astratto, tutto macchie.
“Dottore, prego. Ho preso altre due specializzazioni durante l’ultimo fine settimana.”
Fury sospira: conosceva il costo dell’acquisto, ma a volte è più comodo dimenticare, perché rassegnarsi alle staffilate di un provocatore nato non è mai facile, soprattutto se l’esperienza che ti ha mangiato un occhio te ne ha lasciato un altro in grado di guardare lontano – e attraverso.
Odinson e Rogers hanno deposto i bastoni di comune accordo e sono passati alle mani. Se non perfetta, la loro coordinazione resta comunque quanto di più vicino esista a un’ipotesi di compatibilità efficace. Meglio del previsto, dati i precedenti di entrambi.
“D’accordo, dottore al quadrato: se hai un poker, voglio vederlo.”
Stark appallottola l’incarto depredato. “Gli Jaeger sono la nostra risposta ai Kaijū; un mostro di metallo contro un mostro di muco, silicati e combinazioni chimiche piuttosto originali.”
“E…?”
“L’arte di vivere in difesa (1) non porta da nessuna parte, se non si osa anche in attacco.”
“La curva di calcolo espansione-manifestazione Selvig-Foster ci ha regalato un’apprezzabile finestra previsionale, ma la tua espressione mi suggerisce che stai pensando a tutt’altro.”
Rogers centra lo zigomo di Thor appena prima d’incassarne il sinistro. Il picco è di ottanta, forse ottantacinque punti percentuali: Mjolnir può tornare operativo, ‘fanculo a Pierce.
“Voglio guardare con gli occhi di un Kaijū e scoprire chi c’è là dietro.”
“Ne abbiamo già parlato: i rischi oggettivi e i dubbi sollevati da Banner mi sembrano sufficienti a escludere…”
Stark rotea gli occhi. “Se ti sporgi nell’abisso, l’abisso ti guarda (2) e blah blah blah. Così nietzschiano e superato!”
Rogers è a terra; il norvegese gli porge la mano senza esitare. Si piacciono, è evidente, e tanto piace a lui almeno quanto non gradiranno i loro invasori.
“Ma se l’abisso non vedesse niente?”
“Cioè?”
“Il drift è una connessione neuronale, niente di più, niente di meno. So che ai piloti piace ricamarci un po’ intorno e celebrarsi con facile poesia, ma è pura chimica.”
“Preferirei che la smettessi di gingillarti con le perifrasi e venissi al punto.”
“Non sto tergiversando, al contrario: muovo al centro e spiego perché ho ragione. Se il Colonnello vuole un riassunto, tuttavia, i termini sono questi: leccherò il francobollo, prima di origliare. Chiunque troverò dall’altra parte, farà con me un bel viaggio, ma non quello che immagina.”
Fury si gratta una tempia. “Vorresti stabilire un ponte neuronale con il cervello di un bestione di cui ignoriamo quasi tutto, dopo esserti calato un acido?”
“Esattamente.”
“E come pensi che reagirà il tuo, di cervello?”
Stark sorride. “Non sono mai stato un bravo ragazzo: qualcuno resterebbe molto sorpreso, se sapesse dei miei esperimenti di… lucidità indotta.”
“In questo momento, Stark, dubito della mia per il semplice fatto di darti ancora cre…”
Dal silenzio improvviso in cui è sprofondata l’area delle simulazioni, non è l’unico ad averne registrata la presenza: lungo il lato sinistro del perimetro, Loki Odinson studia l’arena con uno sguardo che non gli piace per niente.
“Cos’è, un ripescaggio del pubblico? Credevo che Rock of Ages fosse fuori.”
“Lo è,” replica a denti stretti.
Fuori, come tutti i fuori di testa e le cellule impazzite di un mondo che non può più concedersi il lusso della disobbedienza.

*

La migliore qualità di una spia, dopo la sospensione d’ogni giudizio e l’obbedienza, è la comprensione dell’altro. Le persone per bene, quelle che non punterebbero mai la canna tra gli occhi di un proprio simile, la chiamerebbero empatia, ma Natasha sa che la somiglianza non è mai identità; che lo scopo definisce l’atto oltre l’apparenza.
Conoscere l’altro, comprenderlo in profondità non vuol dire amarlo, solo ucciderlo più facilmente.
O parare il colpo prima che arrivi.
A Natasha, Loki non è mai piaciuto, perché è tanto intelligente da essere cattivo – abbastanza, soprattutto, da poterlo dire pericoloso. A differenza di Thor, non ha mai tentato di socializzare con il resto della squadra, quasi la guerra contro i Kaijū sia un affare circoscritto all’amnio della cellula di comando. Natasha sospetta persino che non nutra alcuna avversità per i loro invasori, ma abbia vestito una plug suit per vanità personale o scopi torbidi almeno quanto indecifrabili.
È incredibile ricordare sia un Odinson, dunque, perché quella dei due fratelli è una diversità assoluta: il maggiore, bello come un dio, sembra caduto per sbaglio dal cielo, nonostante la grazia da plantigrade e  l’inglese degno di una ballata medioevale. L’altro è un pugnale affilato, attraente, a suo modo, ma di un fascino mostruoso. L’inglese di Loki è impeccabile, così il gusto nel vestire: una perfezione tanto ostentata da tradire la deformità che riposa oltre la maschera. Basta guardarlo negli occhi: Natasha ha rubato tante vite da riconoscere la fiammella di un’anima, se la incontra. In quelli di Loki, invece, c’è solo un buio da perderti.
 
“Vuoi continuare ad ammirare le chiappe del capitano, Nat, o diamo una lezione di stile ai pivellini? Non vorrai che credano di poter rubare il primato alla nostra squadra.”
 
Clint comincia a conoscerla davvero, pensa: legge la sua espressione con una facilità che la spaventa, perché sa di non aver perso smalto e d’essere ancora un’eccellente simulatrice, eppure Barton l’attraversa come vento. Percepisce la sua inquietudine, la tensione innaturale che la costringe a una perenne allerta, quando Loki è nei paraggi, e le offre una soluzione comoda, il lusso di usare le mani per non perdersi nei labirinti della mente.
Natasha, nondimeno, sfiora il petto del compagno e lo allontana. “Non con te,” mormora, puntando decisa il minore degli Odinson.
“Vuoi scambiare due colpi?”
Loki accoglie in silenzio l’offerta, senza mostrare subito la volontà d’assecondarla. Un altro pilota penserebbe a due sole ipotesi – non ha voglia di spettinarsi, oppure: teme la crudeltà congenita di un’ex assassina.
Natasha scommette su una terza variabile – prende tempo per capire quanto gli convenga.
L’assenso è un sorriso feroce, ma una lupa della steppa non trema: paura e lacrime le confondono la lingua, mai il cuore (3). Se ha pianto quando è nata, non ricorda, poi si è asciugata comunque.
“Non hai già un leale tirapiedi?”
La donna è mobile, dice qualcuno, però a te manca forse l’esperienza.”
Loki sfila la t-shirt, ponendo a nudo l’inquietante serpente che ne veste la pelle come una sfacciata confessione.
“Non l’esperienza, se mai la pazienza di concedere a una vulvetta lamentosa l’illusione di possedere un carattere.”
La freddezza del tono è nulla se paragonata al gelo dello sguardo. Il suo avversario ha l’istinto dell’assassino: occhi slavati sostituiscono il veleno dello scorpione, lasciandone intoccato il potere paralizzante.
Natasha lo vede attraversare i limiti dell’arena, accostarsi al fratello e colpirlo alla spalla con forza – troppa, perché non racconti del loro rapporto più di quanto entrambi vorrebbero.
Delle mille voci fiorite sull’incidente di Jotunheim, solo una racconta la verità: anche l’anima sanguina, se la spezzi a metà, per marcire subito dopo.
L’amore degli Odinson puzza di cancrena.

*
 
IX.
Roba mia

Si è accorto di Loki quand’era già tardi, ma discrezione e invisibilità sono forse tra le sue qualità migliori. È bravo a non farsi notare, a colpire sempre alle spalle.
“Allora, hai capito o no? È il mio turno, ora.”
Steve aggrotta le sopracciglia e si prepara a intervenire, ma Thor lo anticipa con un cenno che è, al contempo, rassicurazione e preghiera.
Lascia fare a me. È roba mia, vorrebbe dirgli; l’americano, tuttavia, è un tipo sveglio e l’ha capito da solo.
“Non sei nelle condizioni di affrontare la simulazione,” mormora – un tono tanto pacato che Loki non può ignorarne la delicatezza. “Lo sai.”
L’altro lo allontana con una spinta – le dita, gelide, indugiano appena sulla pelle del petto. “So badare a me stesso e tanto basta.”
La Romanova è una sfinge impenetrabile. Thor sa che non è il nemico, che potrebbe, anzi, costituire un’estrema risorsa: se Loki cadesse un’ultima volta, forse riuscirebbe a rialzarsi.
“Chi è quel tipo?”
Thor si tormenta le labbra: conosce una sola parola utile a descriverlo ed è quella sbagliata.
Fratello, fratello, fratello.
La verità è che non hanno ancora inventato un nome per un rapporto come il loro.
“Loki,” risponde.
Loki è l’unico che possa definire se stesso, in fondo.
“Non mi piace.”
“Direbbe altrettanto al proprio riflesso.”
I due contendenti si studiano ai lati opposti del quadrilatero. Non riesce a decifrare le intenzioni del fratello, ma è abbastanza onesto da dirsi che no, probabilmente non ne ha mai inteso il lessico segreto, oppure Loki non l’avrebbe sorpreso con il veleno di un amore d’ombra e neve.
Cerca con lo sguardo Fury, ma il colonnello non mostra il desiderio d’intervenire e tanta indifferenza lo costringe a leggere nelle malignità di Loki una lucida, amarissima verità.
 
T’illudi della lealtà di qualcuno per cui non siamo che un mezzo, se vinciamo, e un danno collaterale, se crepiamo come cani.
 
Natasha ruota il bastone. Loki serra la presa sul proprio, incerto se giocare in attacco o in difesa; la prontezza con cui la Romanova organizza l’assalto, nondimeno, basta a fugare ogni dubbio. Il cozzo è fragoroso, o forse è il silenzio innaturale dell’hangar a moltiplicare gli echi.
Thor contrae le dita nel palmo. L’abilità di Loki gli è nota, né è stata intaccata dalle ferite ricevute. Dal punto di vista fisico, anzi, la furibonda determinazione con cui ha affrontato la riabilitazione l’ha reso ancora più forte. Quanto lo spaventa è il potenziale offensivo, che suo fratello non tenta mai di tener a freno. È questo che ne ha azzerati i parametri di compatibilità, perché il drift è una violenza gentile, un’invasione che riesce se chiedi permesso. Ora Loki sembra bramare ponti neuronali solo per morderti (fotterti) il cervello e inghiottire la volontà che resta.
“Ha capito che si tratta di una prova di compatibilità? Mi sembra che la stia prendendo troppo sul serio.”
Anche a me, pensa, e si odia per la codardia che gli impedisce di urlarlo in faccia al diretto interessato.
 
Che combini, Loki? Che diavolo aspetti a stringere la mia mano e a uscire dal buco?
 
“Natasha è una guerriera molto capace,” replica, come se fosse una risposta sensata.
Steve avanza di un paio di passi.
Né Loki né la Romanova tradiscono emozioni. Per indovinare gli equilibri dello scontro e la direzione che sta assumendo, devi guardare mani e gambe: quelle della russa si piegano più del dovuto. È chiusa in difesa e resiste perché ha la guerra dentro e le manca l’innocenza. In caso contrario, Loki le avrebbe già spezzato almeno un braccio.
“Dovremo dividerli, prima che capiti l’irreparabile.”
Loki compensa con l’agilità quanto gli manca in termini di forza – che è comunque notevole. Ne studia ogni assalto e pensa con disagio che Odin apprezzerebbe lo spettacolo della sua crudeltà più di quanto non ne abbia mai accolta la dolcezza.
Loki è un serpente e muta pelle; una scelta d’amore ogni volta e, ogni volta, la scelta sbagliata.
Natasha scarta sulla destra e lo colpisce alla clavicola, sbilanciandolo.
L’altro impiega qualche secondo a reagire e tanto basta perché Thor formuli una preghiera muta.
 
Fa’ che le porga la mano e abbandoni l’arena.
Fa’ che segua le regole, come un tempo.
Fa’ che…
 
Loki, tuttavia, ha già recuperato terreno e centra l’avversaria alla base del plesso con un impeto pensato per ferire – spezzare. La prima emozione viva, che ne illumina il volto dopo eoni, è il compiacimento con il quale guarda Natasha volare, quasi fosse una foglia spazzata dal vento.
La seconda, il trionfo feroce del ragno, non appena Clint gli si lancia addosso.
 
È questa la tua vendetta? Distruggere la squadra dall’interno?
Distruggere un sogno che non è mai stato tuo?
 
A dispetto del vociare concitato dei presenti, le parole con cui Loki devia il pugno di Barton, mentre carica un jab da manuale, sferzano Thor come uno schiaffo in pieno volto.
 
Tu hai cuore.
 
Quello che suo fratello ha perso tra le creste taglienti del fiordo.
 
Cuore.
 
“Tocca a me,” sospira.
 
Amore, odio, guerra: quanti nomi può avere la famiglia, quando diventa un affare davvero privato?

*

Vorrei che fossi felice, Loki, tuttavia ho l’impressione, a tratti, che tu sia il primo a cercare la rovina: è stata sua madre a dirglielo, quand’era solo un adolescente schivo, consumato da un’invidia feroce – un fratello, un figlio, un Odinson.
Adesso non saprebbe nemmeno spiegare perché Frigga sia ancora ‘mamma’, nei suoi pensieri, e non quanto è davvero: un’ipocrita complice del vecchio.
La Romanova sputa sangue e uggiola come una cagna presa a calci. La fissa con il disprezzo che meritano gli sconfitti, la soddisfazione meschina di chi non è più l’unico a respirare polvere.
“Non sei granché,” dice. “Eppure il file rosso a tuo nome parla di una feroce esecutrice!”
Natasha non reagisce, né può farlo in sua vece Barton, dopo aver sperimentato il sinistro di qualcuno che – ne è certo – si guarderà bene dal chiamare ancora ‘signorina’.
 
Ti è piaciuto, Clint? Ora sai che la ‘signorina’ ha la mano pesante…
 
La vittoria, nondimeno, sa di poco, quasi a ricordargli quanto l’appagamento sia lontano da una natura inquieta, perennemente affamata di tutto.
 
“Che hai nella testa?”
 
La voce di Thor lo raggiunge alle spalle. Non si volta, né reagisce. È l’unico bersaglio cui tenda, eppure il dardo, spuntato, fallisce non appena mira al cuore: non ha voglia d’inquinare il suo trionfo. Non ora.
 
“Mi ascolti?”
 
La stretta attorno al suo polso cresce d’intensità, strappandogli una smorfia. Thor è davvero uno che lascia il segno – sempre.
“Niente di quello che potresti dire m’interessa.”
Gli occhi di suo fratello – no, non più – somigliano a un oceano in tempesta, ma si annega una volta soltanto e Loki non teme più nulla.
“Perché ti stai comportando così?”
“Perché non dovrei?”
Thor scuote il capo, poi lo stringe alla gola e lo solleva quasi fosse un gattino.
Loki annaspa, senza perdere il sorriso: non è l’unico prigioniero di un castello di rabbia, ma è il solo a custodirne le chiavi.
“Smettila… Smettila, altrimenti…”
“Altrimenti cosa?”
La morsa si allenta; torna la rassicurazione della terra sotto i suoi piedi: se ne stanno immobili, loro due, l’uno davanti all’altro, sospesi in un tempo fermo che ricorda la bolla del drift. All’improvviso, tuttavia, Thor tende il braccio e gli accarezza i capelli.
“Basta, Loki. Basta, per favore.”
Troppo tardi, pensa, prima di sottrarsi a quel tocco per imporre il proprio: e lo bacia e ne morde le labbra e stringe, stringe, finché il sangue non gli bagna la lingua e lacrima lungo il mento.
Sangue di un Odinson, non suo.
“Le bugie non hanno il buon sapore che credi, né i bugiardi,” sussurra, tanto piano che solo Thor potrebbe sentirlo. Nessun altro, del resto, lo merita.
Nessun altro l’ha riempito di lividi senza sfiorarlo mai.
O quasi.

*

“Non l’hai voluto tu,” dice Steve. “Ti ha provocato di proposito, finché non hai dovuto colpirlo.”
Thor strofina le labbra massacrate con le nocche imbrattate dal sangue di Loki.
Sulla sua pelle sono di nuovo uno, ma è l’illusione di un attimo.
“C’è riuscito, dunque ha vinto lui.”
 
E abbiamo perso entrambi.
 
 
 
Note:
(1) L’arte di vivere in difesa è un romanzo di Chad Harbach, oltre che uno dei più bei libri sportivi mai scritti.
(2) La citazione completa e corretta è la seguente: «Wer mit Ungeheuern kämpft, mag zusehn, dass er nicht dabei zum Ungeheuer wird. Und wenn du lange in einen Abgrund blickst, blickt der Abgrund auch in dich hinein (Aph. 146)»: chi combatte i mostri, dovrebbe guardarsi dal diventare per primo un mostro. Se troppo a lungo guardi nell’abisso, infatti, l’abisso scruterà in te [la traduzione (e conseguente interpretazione) è mia].
(3) Il gioco di parole ha senso solo in inglese (che è, nondimeno, la lingua franca del mondo da me descritto): tear significa, infatti, ‘lacrima’; fear, ‘paura’.

   
 
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