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Autore: marghe999    05/10/2008    6 recensioni
2 anni dopo la 513.
Il tempo è stato capace di lenire, modificare o cancellare?
Genere: Generale, Romantico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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.Nameless.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

.:3rd Chapter:.

 

 

 

If I stay it won’t be long,

‘till I’m burning on the inside.

If I go I can only hope that

I’ll make it the the other side.

 

 

 

 

 

 

 

“Topino!” Era più un urlo belluino che un richiamo affettuoso e non feci in tempo a voltarmi che Debbie mi fu addosso. Mi strinse tra le grosse braccia e mi sentii quasi soffocare prima che mi lasciasse.

 

In ogni caso non lasciò totalmente la presa e mi arpionò gli avambracci per tenermi in osservazione.

 

“Cristo tesoro, sei uno scheletro! Ma non mangi nulla qui nella grande NY?!”

Effettivamente ero notevolmente dimagrito. I vestiti mi cadevano dalle spalle con aria decisamente triste, così come le mie gambe avrebbero potuto stare 2 volte nei pantaloni che avevo su.

Le sorrisi, sentendo un familiare senso di calore invadermi piacevolmente.

Come se fossimo a Pittsburgh, vidi dietro la sua parrucca rossa Emmet, che già si guardava attorno in cerca di possibili prede, Michael, Ben e Hunter.

 

Un moto di tristezza e delusione cominciò ad agitarmi, ma mi obbligai a restare calmo e sorridente. Non avrei lasciato che mi rovinasse la giornata, non mi sarei permesso di fissare la porta con aria smarrita.

“Ci siete tutti!” Sforzai troppo la voce e anzi che un espressione entusiasta risultò un timido mormorio.

 

Debbie mi guardò con un accenno di compatimento nello sguardo e mi sfiorò la ciocca di capelli che cadeva sull’occhio destro per portarla dietro l’orecchio.

Si avvicinarono tutti per salutare e passai qualche minuto a provare la stessa sensazione di una palla da rugby nel mezzo della partita.

Quando cominciammo a rabbrividire visibilmente feci segno di entrare e li guidai all’interno.

La mostra sarebbe stata aperta da lì a 10 minuti.

 

Lynsey era più eccitata di me, così come Grant non riusciva più a contenere le braccia, e le utilizzava come fossero clave per esprimere il proprio entusiasmo.

Fissai con pacata soddisfazione i gruppetti di persone stazionare davanti all’ingresso, la maggior parte delle quali provviste del catalogo con le varie opere ed i prezzi. Parlottavano tra loro rabbrividendo del freddo di un marzo gelido, lanciando occhiate attorno e all’orologio attendendo pazientemente.

 

 

Sentii qualcuno ripetere insistentemente il mio nome e mi voltai. Due labbra morbide e fredde premettero contro le mie inaspettatamente e mi presero alla sprovvista. Non feci in tempo a spingerlo via che Neal si era già staccato, con due occhi eccitati e una sciarpa firmata stretta attorno al collo.

 

Volevo sinceramente aprire una voragine nel pavimento e seppellir mici sino a data da destinarsi, soprattutto quando mi accorsi che tutti i miei conoscenti fissavano il ragazzo. Emmett avrebbe voluto fargli una radiografia, mentre Lynsey e Debbie erano più interdette che sorprese dall’accaduto.

Tentai di rompere l’orribile ed imbarazzante silenzio.

“Ehm…lui è Brian, il mio ragazzo.”

 

Realizzai la gravità di ciò che avevo detto quando gli occhi sgranati di Neal si puntarono sul mio viso. Se lo sguardo avesse potuto uccidere, quello mi avrebbe fatto senz’altro male.

“Strana omonimia.” Azzardò Emmett.

“No…volevo dire…cioè ecco…” Farfugliai alla ricerca di qualcosa di possibilmente poco stupido da dire, ma mi trovai soltanto a ingoiare a vuoto e a cercare un oggetto da fissare che non fossero le facce che avevo attorno.

 

“Mi chiamo Neal. Non Brian. Neal.” Ripeté più volte il nome, come se questo avesse potuto cancellare la spaventosa gaffe di prima.

 

Ricevette alcuni cenni e mani sventolanti, dopodiché fuggii senza preoccuparmi più di loro.

Corsi sino a dove sapevo avrei trovato il bagno degli uomini e mi ci chiusi dentro. Scivolai sul pavimento premendo la schiena contro la porta e chiusi il viso tra le mani.

 

 

Cazzo, cosa stava succedendo? Avrei dovuto essere felice, contento, galvanizzato, eccitato, soddisfatto e altri trecento aggettivi che Lynsey senz’altro avrebbe trovato.

Invece mi sentivo vuoto come una scatola di cartone, svuotata di ogni suo contenuto e abbandonata.

 

Non riuscivo a capire quale fosse il motivo del mio stato d’animo e mi rifiutavo di prendere in considerazione l’opzione più ovvia.

L’avevo superato, dimenticato. Era inutile restare a pensare all’eventualità che la mia fosse una stupida illusione infantile.

 

Qualcuno bussò alla porta contro cui ero rannicchiato e riconobbi la voce di Michael.

 

“Il tuo promesso sposo era un po’ arrabbiato. Ma credo che ti abbia già perdonato ed è molto impegnato a fare la conoscenza di tutti e a schivare Emmett che fa finta di cadergli addosso.” Il tono scherzoso era decisamente forzato, ma mi fece piacere sentirlo dopo tanto tempo.

 

Mi accorsi solo in quel momento che avevo le guance umide, ed i solchi salati delle lacrime mi rimasero tra le dita.

“Arrivo subito.” Gracchiai.

“Stai bene? Guarda che succede a tutto di fare…sì, di confondersi.”

“Sì, dammi solo qualche secondo. Sono un po’ agitato per la mostra.”

“Ti aspettiamo fuori. Ma fa in fretta che tra poco comincia il tuo grande momento!”

 

Sentii i suoi passi allontanarsi.

Uscii dal bagno e mi sciacquai più volte il viso con l’acqua gelida. Avevo l’aria scavata e due enormi occhiaie che albergavano tranquille sotto i miei occhi, ma quello era il mio aspetto solito da un paio d’anni.

 

***

 

“Gradisce qualcosa?”

“Uno scotch.”

 

Le nuvole formavano intricate costruzione morbide e pannose.

 

***

 

La mostra era stata un successo.

I quadri erano stati apprezzati da numerosi critici importanti ed un giornalista che si occupava dell’inserto d’arte di un quotidiano aveva deciso di dedicarvi un lungo articolo entusiasta.

 

Le ultime persone uscivano lentamente dalla galleria, salutandomi e congratulandosi.

 

“Sono molto soddisfatto.” Mi annunciò Grant.

Questo procurò un sorrisetto un po’ forzato da parte mia e una stretta al braccio di Lynsey, che sorrideva come in preda ad una paralisi.

 

Mel ed i bambini la aspettavano fuori, perciò mi diede un grosso bacio affettuoso e camminò elegantemente sino all’uscita.

 

“Mi chiedevo…” Harold si schiarì la gola. “Potremmo andare a festeggiare la mostra stasera. Magari al DreamOutLoud, o il Pick Out.” Sollevò speranzoso lo sguardo.

 

Tentai di sviare il più gentilmente possibile l’invito. Essere stanchi era un eufemismo in confronto alla mia spossatezza, dovevo farmi perdonare da Neal e non avevo assolutamente voglia di schivare le avances del proprietario della galleria per tutta la notte.

 

“Volentieri, ma sono molto stanco. E…devo vedere Neal. Sa, il mio fidanzato.” Calcai spudoratamente la parola, anche se la cosa mi fece salire l’amaro in bocca e una sensazione di fastidio mi pervase.

 

Lui mi sorrise deluso, ma dopo un cenno sbrigativo della mano si avviò lostesso all’uscita, supposi in uno dei locali prima menzionati.

“Chiudi tu per cortesia!” Fu l’ultima cosa che mi urlò dalla porta.

 

Appena sentii il familiare suono della serratura scattare, chiusi gli occhi per godermi il buio. Il suono ovattato delle sirene della polizia mi giungeva dalle strade grigie. Non avrei mai capito perché a NY erano una costante.

 

Mi lasciai lentamente trasportare accanto al muro, per poi scivolare sul pavimento. Era così semplice, così incredibilmente naturale, restare lì solamente a respirare,lasciare che tutti galleggiasse nella mia mente senza freni, senza inibizione, che le lacrime scorressero via come neve al sole in rivoli argentei.

 

Le luci del traffico si riflettevano sui muri ed i quadri ed il mio viso. Per un istante mi chiesi come dovesse sembrare. Un artista, lo stesso giorno della sua prima Personale, che piange seduto per terra in una galleria chiusa.

 

Ma tanto, la bellezza della solitudine era anche il mero piacere dell’abbandonarsi ai sensi. Del lasciarsi scivolare nella totale assenza di pensiero logici e costrizioni.

 

 

Non ero consapevole di quanto le lancette si fossero spostate, quando realizzai di essermi addormentato.

Mi alzai e le gambe protestarono per la postura a cui le avevo obbligate per tanto tempo. Le luci nella strada erano leggermente affievolite, ma la città senza sonno non si fermava mai. Feci i pochi passi che mi separavano dalla porta e la aprii, per poi chiudermela alle spalle.

 

 

 

 

Fu lì che lo vidi. Stava dritto sul marciapiede, talmente immobile da sembrare una statua.

Ma neanche Michelangelo sarebbe stato in grado di riprodurre la sua bellezza, la perfezione pura e semplice.

 

La luce del lampione gli illuminava solo parte del viso, su cui potevo scorgere chiaramente le emozioni contrastanti che lo agitavano.

Non si mosse, e se non fosse stato per i capelli che debolmente si agitavano al vento avrei giurato fosse un sogno, il mio sogno perfetto.

 

Non riuscivo a muovermi. Ero inchiodato al suolo e anche il gelido clima non mi convinceva ad infilarmi il giaccone, che pendeva assieme alle mie braccia inerti.

 

Nessuno dei due sembrava intenzionato ad avvicinarsi, come se la distanza tra noi non fosse solo fisica ma soprattutto mentale, e l’avvicinamento volesse dire rompere ogni legame e muro che impediva la nostra riunione.

Lottavo per muovere le mie gambe. Ero pervaso da un bruciante desiderio di buttarmi su di lui, di abbracciarlo sino a sentirlo lamentarsi della troppa forza. Ma ero terrorizzato dall’idea che per lui non fosse così e come un bambino impaurito rimanevo immobile.

 

Forzai avanti un piede, e vidi che Brian era rimasto immobile. Si ergeva in tutta la sua altezza, in una postura rigida e nervosa, con le grosse mani calde affondate nelle tasche del giubbotto di pelle. Mi fissava con quegli occhi che non erano mai stati più enormi di adesso, dilatati nel tentativo di contenere l’agitazione interiore. Riuscivo a scorgerne i bagliori che la luce delle strade rifletteva, e mi colpì il ricordo più che nitido di quando osservavo quegli stessi riverberi nel suo letto, appoggiato su di un gomito nella notte più totale.

 

Un altro passo, più lungo del primo. Spostò il suo sguardo per un attimo impercettibile al marciapiede, alla distanza incolmabile che ci separava, prima di inchiodarlo nuovamente al mio.

Mi sentivo come una calamita. Sino a qualche secondo prima non riuscivo a muovermi, ed ora l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era che i pochi secondi che mi mancavano a raggiungerlo erano insopportabilmente lunghi.

 

Vidi solo i suoi occhi avvicinarsi pericolosamente, sino a che mi resi conto che ero a pochi centimetri da lui.

Non avevamo ancora emesso un singolo suono, ma era come se l’aria fosse stata satura di parole e di confessioni. Sapevamo già tutto senza alcun bisogno di spiegazioni superflue. Eravamo coscienti dell’impossibilità di mere parole mortali a descrivere determinate situazioni, e sprecare fiato con esse avrebbe solo turbato il momento.

 

Spostai avanti il viso, fissandogli le labbra carnose. Ricordavo perfettamente la loro forma e consistenza ma la loro mancanza sulle mie infieriva dentro di me come un pugnale, e il desiderio di toccarle era lacerante. Tuttavia rimasi a qualche millimetro, tenuto indietro da un invisibile filo di tensione.

 

Improvvisamente mi colpì come un pugno la possibilità che lui non volesse ciò che stava accadendo, che fosse un parto della mia mente confusa. Feci per allontanarmi, ferito e deluso come mai nella mia fottuta vita, quando una mano priva di gentilezza mi afferrò la nuca e mi spinse contro le sue labbra.

 

Fu come se un naufrago avesse appena trovato l’acqua. Dopo incalcolabile tempo di sofferenza e dolore, il chiaro liquido argenteo gli era apparso all’orizzonte, e vi si era gettato senza esitazione e requie. L’aveva raggiunto, vi si era immerso totalmente.

 

Allo stesso modo Brian mi baciò, o meglio mi divorò. Non avrei desiderato nulla maggiormente, e persino il gusto salato del sangue quando il mio labbro rimase incastrato tra i denti non turbò la mia totale e assoluta felicità del poterlo fisicamente toccare e baciare.

Mi aggrappai disperato alla sua giacca, tentando di trascinarlo più vicino a me, anche se sarebbe stato statisticamente impossibile. Volevo fondermi con lui, diventare un unico essere. Con un solo cuore.

 

L’unico motivo per il quale ci separammo di qualche millimetro fu la mancanza d’aria. Maledii i miei polmoni per non poter continuare a baciarlo per sempre.

Mi guardò un attimo ansimando, e poggiò la guancia contro la mia, affondando il viso nel mio collo.

 

“NY non è poi così male.”

 

Furono le prime parole che sussurrò. Non avrei voluto niente altro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ed ecco qua xD. Il capitolo era già scritto da parecchio tempo. Ho provato a contattare un Beta perchè lo correggesse ma non si è più fatto vivo. Ergo, il progetto correggi-la-bozza-a-marghe è stato accantonato, e continuerò a postare fic senza correzione come ho sempre fatto. Alla fin fine la grammatica l'ho studiata, e i congiuntivi li so usare.

Ultimissima cosa. Sto letteralmente impazzendo nel cercare di mettere un immagine dopo il titolo e prima delle lyrics (che per inciso stavolta sono prese da Get out alive - Three Days Grace). Ho creato apposta un header che penso sia venuto bene, e odio il non riuscire a metterlo XD qualcuno sa come si fa? Se si per cortesia me lo dica *.*

Come sempre le recensioni mi rendono un Happy Panda, quindi assittatevi e scrivete ^.^

*Marghe*

 

  
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