.Nameless.
.:3rd
Chapter:.
If I
stay it won’t be long,
‘till
I’m burning on the inside.
If I
go I can only hope that
I’ll
make it the the other side.
“Topino!” Era più un urlo
belluino che un richiamo affettuoso e non feci in tempo a voltarmi che Debbie mi
fu addosso. Mi strinse tra le grosse braccia e mi sentii quasi soffocare prima
che mi lasciasse.
In ogni caso non lasciò
totalmente la presa e mi arpionò gli avambracci per tenermi in
osservazione.
“Cristo tesoro, sei uno
scheletro! Ma non mangi nulla qui nella grande
NY?!”
Effettivamente ero notevolmente
dimagrito. I vestiti mi cadevano dalle spalle con aria decisamente triste, così
come le mie gambe avrebbero potuto stare 2 volte nei pantaloni che avevo
su.
Le sorrisi, sentendo un
familiare senso di calore invadermi piacevolmente.
Come se fossimo a Pittsburgh,
vidi dietro la sua parrucca rossa Emmet, che già si guardava attorno in cerca di
possibili prede, Michael, Ben e Hunter.
Un moto di tristezza e
delusione cominciò ad agitarmi, ma mi obbligai a restare calmo e sorridente. Non
avrei lasciato che mi rovinasse la giornata, non mi sarei permesso di fissare la
porta con aria smarrita.
“Ci siete tutti!”
Sforzai troppo la voce e anzi che un espressione entusiasta risultò un timido
mormorio.
Debbie mi guardò con un accenno
di compatimento nello sguardo e mi sfiorò la ciocca di capelli che cadeva
sull’occhio destro per portarla dietro l’orecchio.
Si avvicinarono tutti per
salutare e passai qualche minuto a provare la stessa sensazione di una palla da
rugby nel mezzo della partita.
Quando cominciammo a
rabbrividire visibilmente feci segno di entrare e li guidai
all’interno.
La mostra sarebbe stata aperta
da lì a 10 minuti.
Lynsey era più eccitata di me,
così come Grant non riusciva più a contenere le braccia, e le utilizzava come
fossero clave per esprimere il proprio entusiasmo.
Fissai con pacata soddisfazione
i gruppetti di persone stazionare davanti all’ingresso, la maggior parte delle
quali provviste del catalogo con le varie opere ed i prezzi. Parlottavano tra
loro rabbrividendo del freddo di un marzo gelido, lanciando occhiate attorno e
all’orologio attendendo pazientemente.
Sentii qualcuno ripetere
insistentemente il mio nome e mi voltai. Due labbra morbide e fredde premettero
contro le mie inaspettatamente e mi presero alla sprovvista. Non feci in tempo a
spingerlo via che Neal si era già staccato, con due occhi eccitati e una sciarpa
firmata stretta attorno al collo.
Volevo sinceramente aprire una
voragine nel pavimento e seppellir mici sino a data da destinarsi, soprattutto
quando mi accorsi che tutti i miei conoscenti fissavano il ragazzo. Emmett
avrebbe voluto fargli una radiografia, mentre Lynsey e Debbie erano più
interdette che sorprese dall’accaduto.
Tentai di rompere l’orribile ed
imbarazzante silenzio.
“Ehm…lui è Brian, il
mio ragazzo.”
Realizzai la gravità di ciò che
avevo detto quando gli occhi sgranati di Neal si puntarono sul mio viso. Se lo
sguardo avesse potuto uccidere, quello mi avrebbe fatto senz’altro
male.
“Strana omonimia.” Azzardò
Emmett.
“No…volevo dire…cioè ecco…”
Farfugliai alla ricerca di qualcosa di possibilmente poco stupido da dire, ma mi
trovai soltanto a ingoiare a vuoto e a cercare un oggetto da fissare che non
fossero le facce che avevo attorno.
“Mi chiamo Neal. Non
Brian. Neal.” Ripeté più volte il nome, come se questo avesse potuto cancellare
la spaventosa gaffe di prima.
Ricevette alcuni cenni e mani
sventolanti, dopodiché fuggii senza preoccuparmi più di
loro.
Corsi sino a dove sapevo avrei
trovato il bagno degli uomini e mi ci chiusi dentro. Scivolai sul pavimento
premendo la schiena contro la porta e chiusi il viso tra le
mani.
Cazzo, cosa stava succedendo?
Avrei dovuto essere felice, contento, galvanizzato, eccitato, soddisfatto e
altri trecento aggettivi che Lynsey senz’altro avrebbe
trovato.
Invece mi sentivo vuoto come
una scatola di cartone, svuotata di ogni suo contenuto e
abbandonata.
Non riuscivo a capire quale
fosse il motivo del mio stato d’animo e mi rifiutavo di prendere in
considerazione l’opzione più ovvia.
L’avevo superato, dimenticato.
Era inutile restare a pensare all’eventualità che la mia fosse una stupida
illusione infantile.
Qualcuno bussò alla porta
contro cui ero rannicchiato e riconobbi la voce di
Michael.
“Il tuo promesso sposo era un
po’ arrabbiato. Ma credo che ti abbia già perdonato ed è molto impegnato a fare
la conoscenza di tutti e a schivare Emmett che fa finta di cadergli addosso.” Il
tono scherzoso era decisamente forzato, ma mi fece piacere sentirlo dopo tanto
tempo.
Mi accorsi solo in quel momento
che avevo le guance umide, ed i solchi salati delle lacrime mi rimasero tra le
dita.
“Arrivo subito.” Gracchiai.
“Stai bene? Guarda che succede
a tutto di fare…sì, di confondersi.”
“Sì, dammi solo qualche
secondo. Sono un po’ agitato per la mostra.”
“Ti aspettiamo fuori. Ma fa in
fretta che tra poco comincia il tuo grande
momento!”
Sentii i suoi passi
allontanarsi.
Uscii dal bagno e mi sciacquai
più volte il viso con l’acqua gelida. Avevo l’aria scavata e due enormi occhiaie
che albergavano tranquille sotto i miei occhi, ma quello era il mio aspetto
solito da un paio d’anni.
***
“Gradisce
qualcosa?”
“Uno
scotch.”
Le nuvole formavano intricate
costruzione morbide e pannose.
***
La mostra era stata un
successo.
I quadri erano stati apprezzati
da numerosi critici importanti ed un giornalista che si occupava dell’inserto
d’arte di un quotidiano aveva deciso di dedicarvi un lungo articolo
entusiasta.
Le ultime persone uscivano
lentamente dalla galleria, salutandomi e
congratulandosi.
“Sono molto soddisfatto.” Mi
annunciò Grant.
Questo procurò un sorrisetto un
po’ forzato da parte mia e una stretta al braccio di Lynsey, che sorrideva come
in preda ad una paralisi.
Mel ed i bambini la aspettavano
fuori, perciò mi diede un grosso bacio affettuoso e camminò elegantemente sino
all’uscita.
“Mi chiedevo…” Harold si
schiarì la gola. “Potremmo andare a festeggiare la mostra stasera. Magari al
DreamOutLoud, o il Pick Out.” Sollevò speranzoso lo
sguardo.
Tentai di sviare il più
gentilmente possibile l’invito. Essere stanchi era un eufemismo in confronto
alla mia spossatezza, dovevo farmi perdonare da Neal e non avevo assolutamente
voglia di schivare le avances del proprietario della galleria per tutta la
notte.
“Volentieri, ma sono molto
stanco. E…devo vedere Neal. Sa, il mio fidanzato.” Calcai
spudoratamente la parola, anche se la cosa mi fece salire l’amaro in bocca e una
sensazione di fastidio mi pervase.
Lui mi sorrise deluso, ma dopo
un cenno sbrigativo della mano si avviò lostesso all’uscita, supposi in uno dei
locali prima menzionati.
“Chiudi tu per cortesia!” Fu
l’ultima cosa che mi urlò dalla porta.
Appena sentii il familiare
suono della serratura scattare, chiusi gli occhi per godermi il buio. Il suono
ovattato delle sirene della polizia mi giungeva dalle strade grigie. Non avrei
mai capito perché a NY erano una costante.
Mi lasciai lentamente
trasportare accanto al muro, per poi scivolare sul pavimento. Era così semplice,
così incredibilmente naturale, restare lì solamente a respirare,lasciare che
tutti galleggiasse nella mia mente senza freni, senza inibizione, che le lacrime
scorressero via come neve al sole in rivoli
argentei.
Le luci del traffico si
riflettevano sui muri ed i quadri ed il mio viso. Per un istante mi chiesi come
dovesse sembrare. Un artista, lo stesso giorno della sua prima Personale, che
piange seduto per terra in una galleria chiusa.
Ma tanto, la bellezza della
solitudine era anche il mero piacere dell’abbandonarsi ai sensi. Del lasciarsi
scivolare nella totale assenza di pensiero logici e
costrizioni.
Non ero consapevole di quanto
le lancette si fossero spostate, quando realizzai di essermi
addormentato.
Mi alzai e le gambe
protestarono per la postura a cui le avevo obbligate per tanto tempo. Le luci
nella strada erano leggermente affievolite, ma la città senza sonno non si
fermava mai. Feci i pochi passi che mi separavano dalla porta e la aprii, per
poi chiudermela alle spalle.
Fu lì che lo vidi. Stava dritto
sul marciapiede, talmente immobile da sembrare una
statua.
Ma neanche Michelangelo sarebbe
stato in grado di riprodurre la sua bellezza, la perfezione pura e
semplice.
La luce del lampione gli
illuminava solo parte del viso, su cui potevo scorgere chiaramente le emozioni
contrastanti che lo agitavano.
Non si mosse, e se non fosse
stato per i capelli che debolmente si agitavano al vento avrei giurato fosse un
sogno, il mio sogno perfetto.
Non riuscivo a muovermi. Ero
inchiodato al suolo e anche il gelido clima non mi convinceva ad infilarmi il
giaccone, che pendeva assieme alle mie braccia
inerti.
Nessuno dei due sembrava
intenzionato ad avvicinarsi, come se la distanza tra noi non fosse solo fisica
ma soprattutto mentale, e l’avvicinamento volesse dire rompere ogni legame e
muro che impediva la nostra riunione.
Lottavo per muovere le mie
gambe. Ero pervaso da un bruciante desiderio di buttarmi su di lui, di
abbracciarlo sino a sentirlo lamentarsi della troppa forza. Ma ero terrorizzato
dall’idea che per lui non fosse così e come un bambino impaurito rimanevo
immobile.
Forzai avanti un piede, e vidi
che Brian era rimasto immobile. Si ergeva in tutta la sua altezza, in una
postura rigida e nervosa, con le grosse mani calde affondate nelle tasche del
giubbotto di pelle. Mi fissava con quegli occhi che non erano mai stati più
enormi di adesso, dilatati nel tentativo di contenere l’agitazione interiore.
Riuscivo a scorgerne i bagliori che la luce delle strade rifletteva, e mi colpì
il ricordo più che nitido di quando osservavo quegli stessi riverberi nel suo
letto, appoggiato su di un gomito nella notte più
totale.
Un altro passo, più lungo del
primo. Spostò il suo sguardo per un attimo impercettibile al marciapiede, alla
distanza incolmabile che ci separava, prima di inchiodarlo nuovamente al
mio.
Mi sentivo come una calamita.
Sino a qualche secondo prima non riuscivo a muovermi, ed ora l’unica cosa a cui
riuscivo a pensare era che i pochi secondi che mi mancavano a raggiungerlo erano
insopportabilmente lunghi.
Vidi solo i suoi occhi
avvicinarsi pericolosamente, sino a che mi resi conto che ero a pochi centimetri
da lui.
Non avevamo ancora emesso un
singolo suono, ma era come se l’aria fosse stata satura di parole e di
confessioni. Sapevamo già tutto senza alcun bisogno di spiegazioni superflue.
Eravamo coscienti dell’impossibilità di mere parole mortali a descrivere
determinate situazioni, e sprecare fiato con esse avrebbe solo turbato il
momento.
Spostai avanti il viso,
fissandogli le labbra carnose. Ricordavo perfettamente la loro forma e
consistenza ma la loro mancanza sulle mie infieriva dentro di me come un
pugnale, e il desiderio di toccarle era lacerante. Tuttavia rimasi a qualche
millimetro, tenuto indietro da un invisibile filo di
tensione.
Improvvisamente mi colpì come
un pugno la possibilità che lui non volesse ciò che stava accadendo, che fosse
un parto della mia mente confusa. Feci per allontanarmi, ferito e deluso come
mai nella mia fottuta vita, quando una mano priva di gentilezza mi afferrò la
nuca e mi spinse contro le sue labbra.
Fu come se un naufrago avesse
appena trovato l’acqua. Dopo incalcolabile tempo di sofferenza e dolore, il
chiaro liquido argenteo gli era apparso all’orizzonte, e vi si era gettato senza
esitazione e requie. L’aveva raggiunto, vi si era immerso
totalmente.
Allo stesso modo Brian mi
baciò, o meglio mi divorò. Non avrei desiderato nulla maggiormente, e persino il
gusto salato del sangue quando il mio labbro rimase incastrato tra i denti non
turbò la mia totale e assoluta felicità del poterlo fisicamente toccare e
baciare.
Mi aggrappai disperato alla sua
giacca, tentando di trascinarlo più vicino a me, anche se sarebbe stato
statisticamente impossibile. Volevo fondermi con lui, diventare un unico essere.
Con un solo cuore.
L’unico motivo per il quale ci
separammo di qualche millimetro fu la mancanza d’aria. Maledii i miei polmoni
per non poter continuare a baciarlo per sempre.
Mi guardò un attimo ansimando,
e poggiò la guancia contro la mia, affondando il viso nel mio
collo.
“NY non è poi così
male.”
Furono le prime parole che sussurrò. Non avrei voluto niente altro.
Ed ecco qua xD. Il capitolo era già scritto da parecchio tempo. Ho provato a contattare un Beta perchè lo correggesse ma non si è più fatto vivo. Ergo, il progetto correggi-la-bozza-a-marghe è stato accantonato, e continuerò a postare fic senza correzione come ho sempre fatto. Alla fin fine la grammatica l'ho studiata, e i congiuntivi li so usare.
Ultimissima cosa. Sto letteralmente impazzendo nel cercare di mettere un immagine dopo il titolo e prima delle lyrics (che per inciso stavolta sono prese da Get out alive - Three Days Grace). Ho creato apposta un header che penso sia venuto bene, e odio il non riuscire a metterlo XD qualcuno sa come si fa? Se si per cortesia me lo dica *.*
Come sempre le recensioni mi rendono un Happy Panda, quindi assittatevi e scrivete ^.^
*Marghe*