Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: Lady1990    30/09/2014    4 recensioni
Archibald è un ragazzino di quindici anni quando compie la scelta che gli cambierà la vita. Col passare del tempo, accanto al suo maestro, il signor Fires, scoprirà su cosa si fondano i concetti di Bene e Male, metterà in dubbio le proprie certezze, cercherà di trovare la risposta alle sue domande e indagherà a fondo sul valore dell'anima umana. Tramite il lavoro di assistente del Diavolo, riscuoterà anime e farà firmare contratti, sperimenterà sulla propria pelle il potere delle tenebre e rinnegherà tutto ciò in cui crede.
Però, forse è impossibile odiare il Bene e l'unico modo per sconfiggerlo è amarlo. Proprio quando gli sembrerà di aver toccato il fondo, la Luce farà la sua mossa per riprenderselo, ma starà ad Archibald decidere da che parte stare. Se poi si somma un profondo sentimento per il misterioso e affascinante signor Fires, le cose non si prospettano affatto semplici.
[Revisionata]
Genere: Dark, Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A






 

Sono le cinque del pomeriggio della vigilia di Natale. Come d’abitudine, sono sdraiato sul letto, intento a scrutare nel vuoto con aria vacua. Samael, seduto sul divano del salotto, picchietta con le dita sulla tastiera del suo nuovo giocattolo con una velocità sovrumana, creando un monotono sottofondo che mi martella il cervello e incrina la rilassante cappa di silenzio che ammanta l’appartamento.
È trascorsa circa una settimana da quando il maestro si è fatto risucchiare dal mondo virtuale. Ha appreso tutte le basi in pochissimo tempo, complice la sua intelligenza demoniaca. Il giorno che ha scoperto internet, però, ha segnato la fine di qualunque dialogo tra noi e ciò è accaduto quarantotto ore fa. 
Di norma, per usufruire di una connessione è necessario possedere una rete telefonica fissa o una chiave USB come supporto, ma Samael, dall’alto della sua saggezza e onnipotenza, ha interferito con le frequenze - non ho la più pallida idea di come abbia fatto - e ha dirottato il segnale dei vicini sul suo pc: adesso può navigare quanto vuole a costo zero, inserendosi nel sistema tramite qualche incantesimo diabolico in grado di influenzare gli algoritmi. È sempre pieno di risorse, non faccio che stupirmi di continuo. Credo sia un hacker mancato.
Tuttavia, ormai non parliamo neanche di lavoro. Per sapere quante anime dovrò raccogliere una notte, è sufficiente che apra la mia valigetta e conti il numero di contratti in essa contenuti. Se prima almeno Samael mi degnava di un briciolo di attenzioni, seppur per commentare qualcosa di futile, adesso non mi elargisce nemmeno un cenno del capo. Mi dà l’impressione di essersi trasformato in uno di quegli adolescenti fissati con la tecnologia, che passa tutto il santo giorno davanti allo schermo a fare chissà cosa, dimentico della realtà che lo circonda.
La solitudine che mi opprime è aumentata in maniera esponenziale e il mio umore, di conseguenza, ne ha risentito parecchio. Molto spesso sono tentato di strappargli di mano quell’aggeggio e scaraventarlo fuori dalla finestra, più che disponibile ad accettare di subire la sua collera, ma so benissimo che non farebbe una piega e andrebbe a comprarsene un altro. Quel maledetto computer si è intromesso nella nostra routine e pare che non ci sia modo di liberarsene. Un vero e proprio terzo incomodo, nonché uno snervante supplizio. D’accordo, essere geloso di un oggetto è ridicolo, ma nel mio caso penso sia più che legittimo. Non so come stia procedendo la creazione di quel sito di cui mi ha parlato Samael, ma, a giudicare dalla sua espressione concentrata e dalla luce sinistra che arde nei suoi occhi ogniqualvolta mi soffermo ad osservarlo, deduco che sia a buon punto. 
Eppure mi chiedo: è davvero necessario? Insomma, per millenni i demoni hanno tirato avanti benissimo senza avvalersi dell’aiuto di questi affari, perciò che senso ha cominciare a sfruttarli ora?
Mi annoio. Sono frustrato, nervoso e arrabbiato con il maestro e il mio stato d’animo peggiora di ora in ora, senza concedermi un attimo di pace. Vorrei ignorare queste emozioni, accantonare la presenza di Samael in un angolino della mente e scordarmene per un po’, ma non ci riesco. Lui è sempre stato una potente calamita per me, ormai non è un segreto. Un po’ come un alcolizzato che è cosciente di avere la bottiglia del suo liquore preferito a pochi passi di distanza e prova a non farci caso: proposito inattuabile.
Mi alzo di scatto, deciso a recarmi in salotto per riscuoterlo dall’apatia, distrarlo dal suo nuovo hobby e cercare di focalizzare la sua attenzione su di me. Sì, esatto, gli chiederò “Chi è più importante: io o quel coso?”. E se sceglie il computer? Mi ghiaccio sul posto e un secondo più tardi i miei occhi cominciano a frizzare. Mi mordo un labbro per seppellire in un remoto anfratto della coscienza questi sentimenti inopportuni, anche perché l’ultima cosa che desidero è mettermi a piagnucolare come una fidanzatina trascurata di fronte a lui. Inspiro ed espiro, calmo i battiti del mio cuore, mi pettino i capelli all’indietro con le dita e fisso con cipiglio agguerrito la soglia del soggiorno. Da dove sono non posso vedere Samael, ma non occorre nemmeno che mi sprema le meningi o che compia alcuno sforzo titanico per immaginarmelo stravaccato sul sofà con il computer portatile sulle ginocchia: ormai questa è la posa che assume la maggior parte del tempo, eccezion fatta per quando esce a riscuotere anime.
Comunque, una cosa è certa: non si può continuare così. Io non posso continuare così. Ho raggiunto il limite di sopportazione. Non mi interessa cosa mi accadrà. Samael sarà libero di spezzarmi tutte le ossa, sbranarmi o torturarmi, a lui la scelta. Ciò che conta è che torni a vedermi, perché la sua mancanza mi provoca un dolore fisico. A volte vorrei gridargli in faccia “io sono qui, guardami!”, ma allora davvero si scadrebbe nel melodrammatico. Non voglio apparire patetico come un essere umano.
Mi dirigo in salotto con rinnovata determinazione, armato di un’aura battagliera, e lo scopro nella solita posizione, come previsto. Mi dà le spalle, però stavolta non mi avvicinerò in silenzio per non disturbarlo, non avrò il minimo rispetto. Quando è troppo, è troppo. Stringo i pugni e marcio verso di lui, come un soldato pronto allo scontro bellico più cruento del secolo, mentre i miei passi riecheggiano per l’ambiente e spezzano la placida quiete che ha regnato fino a questo momento. Nel breve tragitto dalla porta di camera al divano tento di fare più rumore possibile, così da annunciarmi e al contempo distoglierlo dalla schermata colorata che pare averlo ipnotizzato. Io sono molto più bello, che diamine! 
Non ottengo la reazione sperata, perché Samael seguita a premere tasti e a cliccare sul mouse. Tentando di tenere a bada l’indignazione, mi schiarisco la voce e aspetto paziente che mi rivolga almeno un cenno di invito a parlare. Niente.
“Sam, voglio farmi suora.” sbotto, improvvisando.
“Tch! Non farmi ridere…” sbuffa.
“Dico sul serio.”
Schiocca la lingua e scuote la testa con un sorrisetto divertito.
“Va bene, era una cosa un po’ inverosimile, te lo concedo. Però ci sono degli Exurge Domine fuori dall’appartamento.”
Samael scoppia in una grassa risata e si accanisce ancora di più sulla tastiera. 
“Che stai facendo?”
D’accordo, mi arrendo. Se non riesco ad attrarre un grammo della sua attenzione con le buone, è inutile provarci con le cattive, non funzionerebbe comunque. Perché sono così… impotente? Mi sembra di valere meno di zero, di trovarmi addirittura sotto l’ultimo gradino della gerarchia, tanto che un verme è considerato più interessante e conta più del sottoscritto. Sono depresso.
Ad ogni modo, non mi risponde. Aggrotto le sopracciglia, assumo un’espressione corrucciata e piego il capo di lato, scrutandolo come se stessi studiando un esemplare di una specie animale mai vista prima.
“Sam…?”
Mi accosto a lui, preoccupato. Perché mi ignora? Posso capire che sia stato assorbito dal nuovo obiettivo che si è prefissato, ma qui la faccenda sta prendendo una direzione inattesa. Insomma, far finta che qualcuno sia invisibile è sinonimo di maleducazione e il mio maestro non mi ha mai trattato così. Forse è colpa mia. Mi sono comportato male senza avvedermene e questa è la sua tattica per punirmi. Anche se fosse, tuttavia, è strano, perché non si è mai fatto problemi a parlarmi con schiettezza dei miei errori. Questo suo nuovo modus operandi mi disorienta e non so più che pesci pigliare.
“Samael…”
Sussulta e sgrana gli occhi, quasi si sia svegliato solo adesso da un lungo sonno.
“Archie!” mi guarda basito, poi i suoi lineamenti si rilassano e sorride orgoglioso, “Noto con piacere che sei sempre più bravo a celare la tua presenza, mi complimento! Hai talento. Cosa c’è?”
Stavolta è il mio turno di fissarlo completamente a bocca aperta, pieno di sgomento.
“Ma… ci siamo scambiati un paio di battute un minuto fa…”
“Mh? Ah, no, scusami, stavo rispondendo ad un tizio in chat.”
In un attimo mi sento come svuotato. Non sono altro che un guscio che svolazza senza meta nell’etere.
“Archie, stai bene?”
No, non sto bene. Ti sembra che stia bene?! Vorrei sputarglielo in faccia, ma ora non ho neanche la forza di rispondere. Ho appena ricevuto uno dei colpi più bassi della storia e credo di aver bisogno di qualche secondo per riprendermi.
“Se non hai niente da dirmi, torno a fare quello che stavo facen… ah! È già ora.” esclama, controllando l’orologio sul desktop, “Non mi succede spesso di cadere dalle nuvole! Ah ah! Eri venuto a chiamarmi, vero? Cinque minuti ed esco.” 
Preme il tasto di spegnimento e aspetta che il dispositivo si disattivi.
Lo squadro dall’alto imbronciato e a malapena riesco ad arginare le lacrime, non so per quale miracolo divino. Pure questo dettaglio si aggiunge alla lista di cose che mi destabilizzano, perché ormai non dovrei più essere in grado di piangere. Anzi, a dirla tutta non dovrei più nemmeno provare l’impulso di farlo. Per l’ennesima volta mi trovo a chiedere a me stesso: cosa mi sta succedendo?
“Sam, tu mi ami?” queste parole sfuggono dalle mie labbra prima che possa fermarle o realizzare di averle pronunciate ad alta voce.
Devo essere trasalito notevolmente, perché mi sbilancio di qualche centimetro di lato. Avvampo per la vergogna e abbasso lo sguardo, dandomi dello stupido per aver permesso alle mie emozioni di prendere il sopravvento. Affibbio la colpa allo stress, perché francamente non ho la minima idea su quale fronte debba scaricare il mio malessere. Non posso che imputare la causa di tutto a fattori esterni, anche all’atteggiamento scostante di Samael, poiché è il solo modo che ho per evitare di sbirciare dentro la voragine che si è aperta nel mio cuore, per paura di vedere qualcosa di scomodo di cui in parte ho già preso coscienza, qualcosa che non dovrebbe più esserci dal giorno della mia Caduta. Questo “qualcosa” è lì, lo sento, è una presenza impalpabile e al contempo tangibile, che si annida nei recessi più bui del mio animo e se ne sta in attesa, pronta a cogliere l’occasione propizia e a sfruttare la più piccola crepa per emergere ed esplodere. So che ciò non deve accadere, non devo lasciare che questa cosa fuoriesca e si palesi, specialmente di fronte al maestro, perché so che è sbagliato. 
Non sono in grado di descrivere o analizzare con procedimenti logici tale sensazione. È strano e mi provoca un enorme turbamento. Però sono più che certo del fatto che, se abbasso la guardia e la faccio trapelare all’esterno, Samael non reagirà bene. Beh, alla fine è solo una congettura, non posso dichiarare con assoluta sicurezza come la prenderà, non sono un veggente, eppure covo in me un terrore apparentemente immotivato che mi suggerisce di tacere, di nascondere sotto innumerevoli strati di menzogne e silenzi la tempesta che imperversa in me: è una sorta di istinto di conservazione, che mi urla a gran voce di stare in campana. Credo che sia meglio non rivelare al maestro che cosa si dimena nel mio cuore come un’anguilla, c’è in ballo la mia sopravvivenza. Non capisco bene in che modo, ma una specie di sesto senso animale si è attivato appena ho posto a Samael la domanda di poco fa, facendomi scattare come una molla e comprendere con spaventosa chiarezza di aver compiuto un passo falso. Devo farne uno indietro, subito.
“C-cioè… mi vuoi ancora? Insomma, non facciamo sesso da mesi e… mi sento solo.” balbetto nervoso, sperando che non abbia preso sul serio l’altra frase.
In un’altra circostanza potrei tentare, ma al momento mi risulta difficile esaminare tutto il processo che in uno schiocco di dita mi ha condotto alla sconcertante rivelazione di aver articolato una parola tabù, ovverosia “ami”; non possiedo i mezzi, materiali e teorici per illustrare in che maniera l’assoluta certezza di essermi appena tirato il bastone sui piedi mi abbia attraversato la spina dorsale come una doccia d’acqua ghiacciata. Potrei stare a lambiccarmi il cervello per ore, ma non ne caverei alcuna risposta sensata, non ho dubbi in merito. So solo che è stato quasi come schiantarmi a massima velocità contro un muro di cemento armato.
Samael, dopo un istante di perplessità, si scioglie in un ghigno ferino. Poi depone il computer sul divano, si alza e si avvicina, cingendomi i fianchi in una morsa possessiva.
“Oh, adesso è tutto chiaro: sei in astinenza. Hai ragione, sono stato occupato con altre questioni e ti ho trascurato.” mi bacia la fronte e affonda il naso nell’incavo del mio collo, inalando il mio odore, “Scusa, Archie. E poi è colpa mia che ti ho viziato troppo.” ammicca sornione, “Ora devo prendermi le mie responsabilità. Pazienta ancora un po’ e quando avrò portato a termine questo progetto mi dedicherò a te. Recupereremo il tempo perduto, promesso.”
Mi accarezza una guancia con i polpastrelli ed io non posso fare altro che serrare lentamente gli occhi, estasiato dal quel contatto così lieve, appena accennato, eppure così agognato. La paura di poco fa è scemata e per fortuna Samael non mi ha rimproverato. Accantono tutti i tarli molesti che mi assediano la mente, contento di essere di nuovo così vicino al mio demone. 
Mi protendo verso di lui per reclamare un bacio, ma Samael mi afferra saldamente la mandibola con pollice e indice e mi fa piegare la testa all’indietro, in maniera tale da esporre la mia gola ai suoi denti. Morde, lecca e succhia, senza mai però essere violento, mentre io gemo e ansimo tra le sue braccia, bramoso di quelle effusioni che troppo a lungo mi ha negato. Tuttavia, si stacca dalla mia pelle proprio quando le cose cominciano a farsi bollenti e il mio cuore manca un battito al pensiero che voglia interromperla qui.
Sorride e si china sulle mie labbra, sussurrando lascivo: “Ti meriti un premio per aver resistito per tutti questi mesi. Sono stato un maestro cattivo, ma saprò farmi perdonare…”
Lo fisso languidamente, carico di aspettativa, e con mia somma gioia Samael decide di non tirarla per le lunghe. Mi fa schiudere la bocca e vi aderisce con la sua, tenendomi immobile in una morsa d’acciaio. Lì per lì penso che voglia baciarmi, perciò mi spingo in avanti alla ricerca della sua lingua, ma un attimo più tardi una scarica elettrica mi attraversa il corpo, paralizzandomi e mozzandomi il fiato. Sbarro le palpebre nel vuoto, incredulo, sconvolto e incapace di elaborare una risposta alle domande che mi frullano impazzite nel cervello. Sono in preda al caos. Percepisco qualcosa, come una corrente calda, scaturire impetuosamente dalla cavità orale di Samael e riversarsi in me al galoppo, scivolando giù per la gola, invadendomi lo stomaco e incendiandomi il ventre. Urlo mentre le mie membra vengono scosse da spasmi convulsi. Non ho più il controllo dei miei arti e della mia voce, graffio l’aria e le spalle del demone con le mani, emetto rantoli spezzati e la vista si annebbia. Mi sembra quasi di precipitare dalla cima di una montagna, la sensazione è molto simile. Mi sento violare in ogni cellula, esposto e vulnerabile, ma allo stesso tempo sono felice. Il peso delle preoccupazioni e dei dubbi che mi gravava sulle spalle è sparito, sono più leggero delle nuvole e mi pare di volare, libero da ogni costrizione. Il piacere divampa e dei lampi bianchi mi accecano, finché non mi accascio privo di forze, soddisfatto. 
Samael passa un braccio dietro la mia schiena e mi sorregge, risparmiandomi la caduta, ed io mi affloscio come un palloncino bucato, con la bocca socchiusa, le guance in fiamme e gli occhi riversi al soffitto, senza realmente vederlo. Odo la sua risata come un’eco lontana, ma non mi interessa di apparire ridicolo. Credo di aver toccato il paradiso per qualche secondo e posso affermare che è stata un’esperienza fuori dal mondo.
“E questo era un assaggio del mio potere. Piaciuto?” bisbiglia al mio orecchio, alitandoci dentro.
Vengo attraversato da un brivido e mugolo qualcosa di indefinito. Focalizzo la mia attenzione sul suo viso, in un blando tentativo di riacquistare contegno, e lo scorgo umettarsi le labbra con la lingua, proprio come un gatto che si lecca i baffi dopo aver gustato un prelibato banchetto.
“Perché sei così dolce? Sei ancora più delizioso di quando eri umano…” mormora a quel punto con aria assorta, vagamente predatrice. 
La sua voce rimbomba nel mio corpo, facendomi vibrare. Pare quasi che mi stia accordando, come se fossi uno strumento da suonare e vezzeggiare a suo piacimento. Gemo ancora, anzi squittisco, e il suo sguardo ha un guizzo improvviso.
“Il tuo odore è diverso dall’ultima volta che ti sono stato così vicino, è cambiato. Strano che non me ne sia accorto prima.” 
Inarca un sopracciglio e mi annusa il collo, dato che la posizione gli permette pieno accesso a quella parte delicata. Io non riesco ad oppormi, benché pian piano avverta le energie tornare a irrorare le mie vene, ma il processo è infinitamente lento rispetto alle sue azioni.
“Perché sei così buono, Archie? Mi fai venire l’acquolina… voglio mangiarti.”
Sgrano gli occhi nel vuoto e mi irrigidisco per la paura, la medesima paura atavica e primordiale che blocca la preda quando sa di non avere scampo davanti al cacciatore. 
Mi faccio forza e sollevo la testa per studiare la sua espressione, che è quanto di più famelico e primitivo abbia mai visto. Non mi ha mai osservato in questo modo, nemmeno quando ero ancora mortale. Le sue iridi color arancio, più grandi del normale, rifulgono di una luce sinistra, tendente al carminio, e le pupille si sono assottigliate come quelle dei felini. Mi ritrovo a fissare due fari ardenti, che a loro volta mi trafiggono come spade e si incuneano nella mia carne. Vuole divorarmi. È una certezza, questa, un’asserzione inoppugnabile. Non so se sia lucido o se la coscienza lo abbia abbandonato, fatto sta che se non trovo una soluzione morirò entro pochi istanti, senza che possa evitarlo.
Guardo il suo viso, i suoi tratti così familiari distorti in una maschera bestiale, come se anche la conformazione stessa delle ossa sia mutata. Gli zigomi pronunciati, il mento affilato, il naso dritto, le sopracciglia ben disegnate, le orecchie leggermente appuntite e la bocca… un buco nero ornato da due file di denti aguzzi. Avverto i suoi artigli perforarmi la stoffa sottile della camicia e stracciarla a causa della pressione, mentre un calore intossicante e insopportabile si sprigiona dalla sua figura, che torreggia su di me. Di nuovo, i miei occhi vengono calamitati dai suoi, attratti da quel bagliore infernale che brucia e annienta le mie difese. Cerco di ribellarmi, però mi è impossibile districarmi dalla sua presa ferrea. Sono alla sua totale mercé, non posso scappare, non con la forza. Devo escogitare a una strategia per distrarlo e destarlo da questa strana trance in cui sembra essere caduto.
Pensa, pensa, pensa!
La distanza si accorcia, sta quasi per azzerarsi, e una zaffata di fiato bollente mi penetra nelle narici. Sa di bruciato e ho la vaga impressione di udire uno sfrigolio di fiamme sulla legna, ma forse è solo un’allucinazione. Non ho più scampo e il potere che danza nelle sue iridi mi tiene incatenato, tanto che a un tratto mi accorgo di non riuscire più a muovermi, per quanto ci provi.
“Samael!” un grido roco, un’invocazione disperata, l’ultima possibilità a cui posso aggrapparmi.
Grazie a Dio è sufficiente. 
Sbatte le palpebre e torna in sé. Appena realizza che cosa stava per fare, mi scosta bruscamente e arretra, coprendosi le labbra con una mano. Senza più il braccio di Samael, cado a terra, le gambe improvvisamente molli e tremanti. Sono terribilmente consapevole di aver rischiato grosso, anche se non sono in possesso di alcuna spiegazione logica per quello che è accaduto. È successo tutto in pochi minuti ed è buffo che, da quando ho messo piede in salotto, io abbia trovato ogni emozione e ogni singolo gesto di Samael privi di basi razionali a cui attingere, più che altro per placare l’ansia che mi stritola il cuore. 
La confusione regna sovrana e i pensieri vorticano impazziti. Tanto per cominciare, il maestro non mi ha mai attaccato, mai. Non mi ha mai trattato come cibo, né mi ha mai considerato tale. Almeno credo. Perché quindi questo cambiamento repentino?
Lo sorprendo a fissarmi come se mi vedesse per la prima volta. Il tempo si ferma, l’atmosfera rimane sospesa per un lasso di tempo incalcolabile. Poi, quando si inginocchia e gattona verso di me per circondarmi in un abbraccio confortante, finalmente i minuti riprendono a scorrere ed esalo un sospiro di sollievo, rilasciando di botto tutta la tensione e il terrore che mi attanagliano le viscere.
“Scusa, Archie, scusami. Non so cosa… mi dispiace. Non aver paura, non voglio farti del male.” mormora, la bocca incollata alla mia fronte per trasmettermi calore, “Sei prezioso per me, lo sai, vero?”
Annuisco, ma la voce mi resta incastrata in gola.
“Molto prezioso.” continua, “Non succederà più, te lo prometto. Sì, il tuo odore è sublime, ma non ti mangerei mai, altrimenti chi stuzzicherei?” scherza, probabilmente con l’intento di sdrammatizzare.
Il suo volto, come al solito, non tradisce alcun turbamento, eppure percepisco quanto sia sconvolto. Sta dicendo la verità: lui non vuole farmi del male. Ma se un giorno lo facesse comunque, a dispetto di quello che vuole?
“Archie.” mi chiama in tono carezzevole, “Archie, sta’ tranquillo. Tu sei speciale, non dimenticarlo. Sei mio.”
Lo sento esitare e non ne comprendo la ragione. Lo osservo interrogativo.
“Beh, per fartela semplice, ti considero il mio tesoro più inestimabile, un tesoro da proteggere e di cui prendermi cura. Il desiderio che nutro per te è reale, da sempre, dal giorno in cui mi hai evocato. Scordiamoci di questo triste episodio, ti va? Ti garantisco che non si ripeterà più.”
“Cosa…?”
“È possibile che in me sia scattato qualcosa in risposta agli stimoli sessuali che mi spedivi e che in qualche maniera io abbia travisato tali segnali, mettendoti involontariamente in pericolo.”
“Io non spedivo niente…”
“Oh sì, invece.”
Una cascata di baci cade su tutta la mia faccia. Arrossisco e cerco di ritrarmi per l’imbarazzo crescente.
“Tutto il tuo corpo mi stava invitando a banchettare.” prosegue, “Devo aver confuso appunto il desiderio carnale con l’appetito. Cioè…” indietreggia quel tanto che basta per mettersi alla mia stessa altezza, “non sono sicuro, ma penso di aver scambiato il tuo invito a scopare per un invito a mangiare. Il che non è molto diverso… ah, è complicato!” scrolla il capo, arreso.
“Stavi per… per mangiare la mia anima?”
Ridacchia e mi fissa divertito: “Già. Però è alquanto ironico, visto che tu non ne hai più una. Chissà cosa stavo cercando di fare. In ogni caso, sarei rimasto a bocca asciutta!”
Mi scocca un bacio casto sulle labbra e mi dà un buffetto sul naso, però mentirei se dicessi che sono a mio agio. Ad essere onesto, in questo momento vorrei allontanarmi da lui e schiarirmi le idee. Non mi importa più della mancanza di contatto fisico tra noi. La paura mi ha abbandonato e so che il pericolo è passato, ma un fastidioso campanello d’allarme non smette di suonare e seguita a pungolarmi in modo ossessivo. Devo stare all’erta.
“È tardi, il lavoro ci attende. Ne riparliamo dopo, va bene?” mi sollecita ad alzarmi in piedi, porgendomi poi una mano per aiutarmi.
“Sì…” biascico, ancora frastornato.
“Perfetto. Siccome mi sento in colpa, stasera ti alleggerisco e mi farò carico io di una parte dei tuoi contratti. Te ne lascio giusto due o tre, così poi hai tutto il tempo per fare i tuoi comodi: girellare per la città, farti una doccia, riposare, quello che vuoi.” sorride sereno, o forse vuole solo sembrarlo.
Dopodiché agguanta cappotto e valigetta ed esce dall’appartamento, non prima di avermi coinvolto nell’ennesimo bacio, dove imprime tutto il suo dispiacere.

Grazie alla gentile concessione di Samael, ho solo tre contratti di cui occuparmi stanotte, di conseguenza decido di fare con calma. Per la prima volta dopo non so più quanto tempo non ho fretta e non ho bisogno di affannarmi per riuscire a raccogliere tutte le anime entro l’alba. 
I domicili dei clienti sono tutti in centro, quindi ne approfitto per dare un’occhiata in giro e ammirare le decorazioni natalizie che adornano le strade e i negozi, immergendomi in quel tripudio di luci come se rinascessi a nuova vita. È da molto che non respiro un’aria così satura di allegria e spensieratezza e di sicuro è tutta opera della festa in questione. 
Le vie sono affollate ed è un’impresa ardua camminare in linea retta, pur avvalendomi dello strano potere di “dividere le acque” come Mosè. Famiglie e coppiette passeggiano scambiandosi risate o fermandosi in qualche boutique a comprare dei regali, mentre a ridosso di un angolo uno zingaro suona con impegno e passione una vivace melodia con il violino, impaziente di ricevere qualche moneta come premio per la sua bravura; i turisti fotografano il Duomo o le opere degli artisti di strada, che riproducono con stupefacente maestria quadri di famosi pittori rinascimentali, disegnandoli direttamente sulle mattonelle di pietra, nelle piazze o ai lati delle strade, armati di gessetti colorati; dai ristoranti si sprigiona un effluvio squisito di carne o dolciumi, che attira le persone a frotte, e una sinfonia di voci, accenti stranieri e suoni diversi riempie l’aria fredda di dicembre.
Accolgo dentro di me tutti i particolari che riesco a carpire con la vista, l’udito e l’olfatto, li assaporo meravigliato e mi tuffo nella marea di sensazioni che il periodo natalizio fa germogliare in me. Sono sempre stato suscettibile al fascino del Natale, anche se non ricordo di averne mai vissuto uno felice. A casa mia lo festeggiavo con la famiglia, ovvio, ma non ho mai provato questa pace, come se non esistesse più l’odio, la violenza o l’oscurità e tutto il mondo si trasformasse in una gigantesca palla multicolori; come se per una sola notte mi venisse dato il permesso di smettere di angustiarmi per i contratti, di prendermi una pausa dall’onere di estirpare il germe del male che consuma il pianeta per sperimentare invece il lato luminoso della vita. In questo periodo dell’anno spesso mi gingillo col pensiero che c’è anche qualcosa di buono, qualcosa che si può salvare, e che non è tutto da buttare. La speranza si riaccende, come le candele poste accanto al presepe, e ogni anno, in questo giorno, si rinnova e splende più fulgida che mai.
Sorrido distratto, lo sguardo per aria e lontano, il corpo leggero come una piuma.
Dopo qualche minuto, la mia attenzione si sofferma su una coppietta di innamorati che si sbaciucchia su una panchina, in Piazza della Repubblica. In un battito di ciglia mi torna in mente ciò che è successo nell’appartamento con Samael, la sua aggressione, la sua espressione, i suoi occhi. Rabbrividisco e una raffica di vento più forte mi scompiglia i capelli trattenuti in una coda bassa, intrufolandosi sotto i vestiti. Ad un tratto, ogni goccia di gioia e contentezza provata fino a un attimo fa sparisce e lascia dietro di sé una landa desolata, grigia e spoglia, gelida. Scuoto il capo con veemenza, tentando di scacciare il ricordo, ma più cerco di respingerlo, più esso si fa insistente. 
Mi stringo nelle spalle, sollevo il colletto del soprabito pesante per ripararmi dal freddo pungente e serro le dita intorno al manico della valigetta. Ogni traccia di buon umore è scomparsa e tutto ciò a cui sono capace di pensare è il prossimo contratto da riscuotere. I familiari tentacoli neri, fili maligni e ingordi, mi sfiorano il braccio, ci si avviticchiano intorno e risalgono verso il mio viso, accarezzandomi con gentilezza.
Spicco un salto e mi libro nel cielo, sopra i tetti dei palazzi fiorentini, creando una piccola corrente d’aria che si esaurisce in un paio di istanti. Atterro sulle tegole e scrocchio il collo, piegandolo prima a destra e poi a sinistra. Dopodiché volgo l’attenzione davanti a me e la punto su una finestra illuminata, all’ultimo piano di un edificio storico. Il primo cliente si trova lì, posso fiutare l’odore ributtante della sua anima lercia, una scia talmente nauseabonda da farmi storcere il naso disgustato. Fletto le gambe e mi catapulto sul balcone del suo appartamento, pronto a dare il via alle danze ancora una volta.
Concludo i primi due incarichi in circa due ore. Sono le dieci e la notte si prospetta essere lunga. Se almeno avessi più lavoro da sbrigare, il tempo scorrerebbe più in fretta. Lo so, fino a ieri mi lamentavo perché volevo le ferie e ora mi lamento perché non sgobbo abbastanza. No, non sono una persona coerente.
Sbuffo e controllo il terzo e ultimo indirizzo. Prendendo la scorciatoia per i tetti, dovrei arrivarci in tre minuti, massimo cinque. E poi che faccio? A casa la televisione è rotta e non c'è nemmeno un libro. Beh, forse potrei usare il computer di Samael, ma non sono pratico e temo di mandarglielo in corto circuito. E allora chi lo sente? 
Sbuffo ancora, scocciato, e plano delicatamente su un terrazzo di pietra, risalente ai primi decenni del novecento. Scruto oltre i vetri della portafinestra e vedo un ragazzino di non più di diciotto anni che legge un fumetto, sdraiato sul letto.  Aggrotto le sopracciglia e assottiglio le palpebre. Sì, è lui: Marco Spadoni.
Mi muovo con circospezione e, dato che ho tempo, decido di studiarlo un po’. È raro che ne capiti uno così giovane, non nego di essere curioso. Mi siedo sul bordo della massiccia ringhiera di pietra del terrazzo, con la schiena rivolta verso la strada. La camera è piccola e arredata in modo semplice, con un letto a una piazza a ridosso della parete sulla mia destra e una scrivania da quella opposta. Accanto a questa c’è un armadio di legno a due ante, mentre sopra il letto noto due scaffali pieni di libri scolastici e fumetti. Sembra la cameretta di un liceale ordinario. Sul muro sopra la scrivania è stato affisso un poster di una squadra di calcio. Sorrido quando mi imbatto nella classica pila di vestiti sgualciti abbandonati sulla sedia, messi lì da un ragazzo troppo pigro per concepire di ripiegarli e riporli nell’armadio. Due paia di scarpe giacciono sul pavimento come se fossero state scalciate via con indifferenza e qua e là vedo sparsi dei fogli, forse appunti di qualche lezione, insieme a penne e cianfrusaglie varie, disseminate senza criterio anche sulla scrivania.
Tocco la valigetta, chiudo gli occhi e mi concentro. Subito delle visioni mi attraversano la retina e precipito nel vortice di memorie del contraente.
Marco ha stipulato il patto quando aveva sei anni, perciò ora ne ha diciannove. Ha venduto l’anima per ammazzare un bulletto che faceva del male a lui e ad un suo amico alle elementari. Le emozioni contenute nel pegno del contratto, un braccialettino comprato a qualche mercato etnico, sono contrastanti: c’è paura, angoscia, ma anche sollievo e determinazione, la stessa di qualcuno che è convinto di stare facendo la cosa giusta. Al contrario degli altri individui con cui ho sempre avuto a che fare, Marco non presenta le peculiari caratteristiche di un peccatore. Sì, ha venduto l’anima per uccidere un bimbetto arrogante, presuntuoso e prepotente, ma lo ha fatto per salvare il suo amico. Non so, voglio vederci chiaro. È la primissima volta che scopro di dovermi occupare di una persona che ha firmato un patto per il bene di qualcun altro e, sinceramente, non so bene come comportarmi.
Mi alzo e mi smaterializzo, così da passare attraverso la finestra sprangata. Come da copione, Marco avverte la mia presenza e compie un balzo sul materasso, trattenendosi a stento dal gridare. Lo squadro da capo a piedi: di costituzione debole, magro e gracile come un giunco, pure un po’ basso per la sua età. Appena incontro il suo sguardo, però, non riesco a frenare un moto di stupore: i suoi sono gli occhi di qualcuno che è cosciente di cosa lo aspetta. Marco sa chi sono, lo percepisce, e sa cosa gli succederà stanotte, proprio la vigilia di Natale. Rimane muto e immobile, pallido come un fantasma, ma non cerca di scappare. Conosce il suo destino e in qualche strana maniera me lo sta comunicando. 
Ammetto di essere spiazzato anch’io. Questo è un risvolto che non avevo mai preso in considerazione. Cioè, normalmente il cliente inizia a strillare e a implorare pietà, oppure nega l’evidenza, attribuisce la mia comparsa a un effetto collaterale di qualche pillola o dell’alcool e si convince di stare sognando. Mai mi è capitato di fronteggiare un ragazzino con degli occhi così maturi, due laghi montani calmi e placidi come stagni, privi di increspature. È pietrificato, eppure sento che non è sorpreso. I riccioli scuri, che costituiscono il suo cesto informe di capelli, sono arruffati e disordinati e un secondo più tardi un ciuffo ribelle gli cade sul naso, provocandogli uno starnuto. 
“Salute.”
“Grazie.”
Questo rompe il ghiaccio tra noi e noto segretamente colpito che Marco si tranquillizza e si accomoda a gambe incrociate sul letto. Mi scruta dal basso. Ha riacquisito un colorito roseo e adesso sembra più a suo agio.
“Sapevo che qualcuno sarebbe venuto a prendermi.” esordisce pacato, ma con voce ferma, “Ho contato i giorni e le ore sul calendario. Sono pronto.”
Mentre poco fa lo esaminavo dal terrazzo, avevo intuito che era un giovane introverso e intelligente, con una marcia in più. Avevo inoltre ottenuto alcune informazioni sulla sua vita attuale: nessuna fidanzata, un solo amico - per l’appunto colui che ha salvato alle elementari - una famiglia assente, figlio unico. Un cane, che dorme con lui tutte le notti. 
“Che aspetti? Guarda che non ho paura.”
“Dovresti, invece.” replico.
“Tanto non esiste un modo per evitarlo, giusto?”
“Puoi chiedere una proroga.”
“In che senso?” mi osserva perplesso e interessato.
“Qualcun altro deve prendere il tuo posto e in questo caso… direi che si tratta proprio del tuo amico. Immolalo e ti saranno conferiti altri tredici anni.”
Tra noi piomba il silenzio. Marco abbassa la testa e si rannicchia, raccogliendo le ginocchia al petto.
“Non posso farlo.”
“Perché? Non ti è cara la vita?”
“Ho venduto l’anima per proteggerlo, non posso sacrificarlo adesso. Gli voglio bene, siamo sempre stati inseparabili, sin dalla seconda elementare. Non tradirò la sua amicizia, è una delle poche cose belle che ho conservato.”
Questo ragazzo è una persona buona. Lo fisso corrucciato ed esitante. Non ho idea di come dovrei procedere, giunti a questo punto. In teoria, sarebbe meglio che mi sbrigassi a portare a termine l’incarico, senza tergiversare, ma il mio corpo rifiuta di muoversi.
“Come ti chiami? Ce l’hai un nome? Non sei come quello che ho incontrato tredici anni fa.”
“Chi sarebbe?” schivo la domanda.
“Non lo so, però ricordo che mi incuteva soggezione. Ho provato un terrore reverenziale. Non rammento il suo aspetto, le immagini sono sfocate. Solo la sua voce è rimasta impressa nella mia mente: era metallica e profonda, mi entrava dentro e mi sembrava che potesse vedere tutto di me.”
“I demoni fanno questo effetto.” annuisco comprensivo.
“Ma tu sei diverso. Sei… non so… sembri umano.”
Mi rabbuio e giro il capo di lato, per non incrociare i suoi occhi indagatori.
“Non mi vuoi dire il tuo nome?”
“Al…” comincio, ma poi mi correggo, “Archie. Mi chiamo Archie.”
Sorride: “È un nome molto umano.”
“Non siamo qui per parlare di me.”
“Sì, scusa.” infossa la testa nelle spalle, “Te l’ho detto, io sono pronto. Quando vuoi.”
Non resisto, devo chiederglielo. Non è mia abitudine ficcanasare negli affari altrui, ma sento che c’è una ragione dietro il mio tentennamento. Devo sapere.
“Senti, come mai hai firmato un patto col Diavolo, invece di farti aiutare dai tuoi genitori o da qualche insegnante?”
Sospira e lascia vagare lo sguardo per la camera con aria assente: “È una storia lunga.”
“Sono curioso.”
Simpatizzare con il cliente va contro il codice, ne sono consapevole, ma ho la netta sensazione che non potrò agire se prima non ascolto dalla sua bocca quello che è successo. Non mi capacito di come un bambino abbia avuto il fegato di vendere l’anima. Inoltre, cosa alquanto strana, Marco non pare diffidente, non avverto alcuna traccia di ostilità in lui. 
“Beh, all’inizio ero solo io quello preso di mira. Ero magrolino e ingenuo. Volevo fare amicizia con tutti, desideravo farmi accettare dai miei compagni, perciò tendevo a prestarmi agli scherzi e ad evitare i litigi. Non mi importava che mi rubassero lo zaino per giocarci a calcio o che mi buttassero le scarpe da ginnastica nel cesso. Ci ridevo su come uno stupido, perché pensavo che prima o poi si sarebbero stancati. Se invece avessi reagito, si sarebbero accaniti ancora di più. Le maestre qualche volta intervenivano, ma io coprivo spesso quei bulletti e mi beccavo le loro punizioni. Speravo di diventare loro amico. Leonardo, così si chiamava il bambino che comandava il gruppetto, era vivace, iperattivo, e aveva anche un brutto carattere. Non so come fossero i suoi genitori, non me ne sono mai preoccupato, ma a posteriori ho realizzato che forse il suo comportamento era dovuto ad una situazione familiare non esattamente rose e fiori. Comunque, poco importa.”
Si interrompe e mi fa cenno di sedermi sulla sedia davanti alla scrivania. Scosto i suoi vestiti stropicciati e li faccio cadere sul pavimento, al che lui ridacchia.
“Scusa, non sono un maniaco dell’ordine come mia madre.”
“Sei perdonato.”
“Dicevo…” tossicchia, “Ero la vittima designata di Leonardo e quasi ogni giorno mi faceva i dispetti. Niente di che, intendiamoci, ma all’epoca uno spintone equivaleva ad un pugno sul naso. Tornavo a casa con le ginocchia sbucciate, i pantaloni sporchi e qualche graffio, però tutto sommato resistevo. A metà del primo anno delle elementari arrivò un altro bambino, che si era trasferito in zona: Claudio, quello che ancora oggi è il mio migliore amico. Io fui il primo ad avvicinarmi a lui, dato che era timido e impacciato, e stringemmo subito un solido legame. Mi piaceva giocare con lui, avevamo gli stessi gusti in tutto, tranne che per il cibo. Su questo non ci siamo mai intesi. Insomma, come si fa a preferire un hamburger alla pizza?!” accenna una risata e scuote il capo, “Passavo molti pomeriggi a casa sua e lui da me, ma Leonardo non ci mise tanto a prendere di mira pure lui. Anzi, le sue attenzioni virarono da me a Claudio. Ma Claudio non era forte, o stupido, come me. Piangeva sempre e io lo consolavo. Cominciai a desiderare di proteggerlo e, di conseguenza, cominciai ad oppormi alla ‘dittatura’ di Leonardo, che ovviamente non reagì bene. Gli scherzi divennero più crudeli, tanto che una volta arrivò persino a strappare i libri scolastici di Claudio durante la ricreazione, quando in classe non c’era nessuno. L’indomani seppi dal mio amico che era stato severamente sgridato dai suoi genitori, perché non gli avevano creduto quando aveva giurato di non essere stato lui a far scempio dei suoi libri. Per farla breve, la situazione degenerò in fretta e io tornai ad essere un bersaglio, ma non mi dispiacque: non avrei abbandonato Claudio, ci saremmo spalleggiati a vicenda. Era il fratello che non avevo mai avuto e lo è ancora. Poi, verso Natale, prima delle vacanze, Leonardo venne a scuola con un coltellino svizzero, molto piccolo, vantandosi di averlo fregato a suo padre, che faceva il ferramenta. Per tutta la mattina lo sfoggiò di nascosto e lo mostrò ai nostri compagni di classe, attento a non farsi scoprire dalle maestre. Dopo il pranzo, tornando dalla mensa, ci portarono in giardino a giocare e lì Leonardo colse l’occasione per usarlo. Con la scusa di far finta di essere un pirata, attaccò Claudio brandendo il coltellino e in qualche modo riuscì a procurargli un graffio sulla fronte. Ad un’occhiata veloce non parve profondo, ma in realtà dovettero applicargli i punti all’ospedale. Quando lo venni a sapere, mi arrabbiai talmente tanto con Leonardo, che espressi il desiderio che morisse. Il resto… credo non ci sia bisogno di raccontarlo.”
Non è difficile capirlo. È possibile evocare un demone se il desiderio è abbastanza forte, e nel caso di Marco si è trattato di vendetta. Non è stata una richiesta innocente, non lo ha fatto per proteggere Claudio, ma per vendicarlo. Covare questo tipo di sentimento verso qualcuno è male, ergo Marco non è puro come un giglio. Tuttavia, se non avesse agito, forse Leonardo avrebbe continuato a vessare Claudio e il bullismo può avere gravi ripercussioni su un bambino così piccolo.
“C’è ancora una cosa che non mi è chiara: perché non lo hai detto ai tuoi genitori? Perché non li hai coinvolti?”
Sbuffa e si gratta la nuca.
“Quando Leonardo è morto, mi sono pentito di quello che avevo fatto. Quando sono cresciuto un po’, ci ho riflettuto e il peso del mio peccato mi è piombato addosso come un macigno. Sono colpevole di omicidio, in fin dei conti. Ho capito dopo che avrei potuto risolvere da solo il problema, denunciandolo alle maestre e ai miei genitori, ma ero troppo piccolo e troppo spaventato per rivelarlo a qualcuno. Anzi, ho agito d’impulso. Non mi rendevo davvero conto delle implicazioni del mio gesto.” assume un’espressione seria e comincia a mordersi le unghie, “Ero qui, su questo letto, sotto le coperte. Cercavo di dormire, ma l’odio verso Leonardo e il ricordo del sangue sulla faccia di Claudio mi tenevano sveglio. Ho pensato 'vorrei che Leonardo morisse, vorrei che sparisse e che ci lasciasse in pace'. Io sarei sopravvissuto ai suoi dispetti, ci avevo fatto il callo, ma per Claudio era diverso. Lui sarebbe crollato. Poi è accaduto tutto in un attimo, così velocemente che ho dimenticato come si svolse. Quell’essere… quel demone mi propose un accordo: in cambio della mia anima, avrebbe tolto di mezzo Leonardo. Come pegno gli diedi il braccialetto che Claudio mi aveva regalato per il mio compleanno.” fa una pausa e si sdraia supino, “A quell’età non avevo ben chiaro il concetto di anima, né ero cosciente del casino in cui sarei andato ad infognarmi. Ho commesso un errore, che ora mi costerà caro. Però va bene. In vista di questa notte, non ho mai fatto progetti per il futuro, perché sapevo che non ne avrei mai avuto uno. Non ho mai ceduto all’illusione che fosse stato tutto un brutto sogno, sapevo che era reale. Ho tenuto alta la media scolastica per dare qualche soddisfazione ai miei, e ho pure cercato di allontanare Claudio, in modo che non si affezionasse troppo e non soffrisse quando me ne sarei andato. È stato inutile, ma confesso che una parte di me è felice che il mio migliore amico mi sia rimasto accanto. Almeno sono stato attento a non innamorarmi.” sorride triste, mentre i suoi occhi azzurri si riempiono di lacrime, che si affretta ad asciugare con le maniche della maglia. 
Poggio i gomiti sulle ginocchia e il mento sulle dita intrecciate. Rifletto.
“Per quello che vale, mi dispiace.”
Devo aver detto qualcosa di strano, perché Marco strabuzza gli occhi e mi scruta inebetito.
“Un demone non dovrebbe provare dispiacere… anche se non so niente dei demoni, quindi forse mi sbaglio.”
Reprimo una risatina e mi biasimo tacitamente. Diavolo, cosa mi sta succedendo in questo periodo? Non mi riconosco più. Fino a qualche mese fa non mi sarei mai seduto a chiacchierare con un cliente, avrei considerato assurda anche solo l’idea.
“Lascia perdere.” borbotto a disagio, “Davvero non vuoi una proroga?”
“No. Se il prezzo da pagare è la vita di Claudio, rifiuto.” risponde deciso.
Deve esistere una soluzione. No, aspetta, perché mi ostino a volerlo salvare? È un peccatore e come tale merita la dannazione eterna. Tuttavia, una domanda mi frulla nel cervello: perché uno come Marco è destinato a patire le pene dell’Inferno, se dal contratto non ha ricevuto alcun beneficio per se stesso? D’accordo, era mosso dal desiderio di vendetta, ma lui che ne ha ricavato? Ricchezza? Prestigio? Felicità? Il contratto gli ha solo tolto dalle scatole un bullo, quindi presumo abbia trascorso il resto delle elementari tranquillo, insieme al suo amico. E con ciò? Nel senso che pochi anni di serenità sono stati la ricompensa?
“Claudio è mai stato vittima di altri episodi di bullismo, in questi anni?”
“Oh, sì. È stato picchiato varie volte, colpa della sua timidezza. Ma io sono sempre stato lì a fargli da scudo e a rispondere ai pugni per lui.” 
Lo osservo meditabondo, finché una lampadina si accende.
“Lo ami.”
Arrossisce e torna a mangiucchiarsi le unghie.
“Non so cosa sia l’amore. Sono attratto dalle ragazze, ma per lui farei qualsiasi cosa. Bah, che importa! Domani non camminerò più in questo mondo.” mormora.
Questo adolescente mi stupisce sempre di più. Mi ha subito ispirato fiducia e affetto, appena i suoi occhioni azzurri hanno incontrato i miei, e con mia somma sorpresa mi accorgo solo adesso che non irradia i classici tentacoli neri, manifestazioni della natura maligna di un individuo. 
“Archie, perché hai voluto chiacchierare con me? Perché non la fai finita?” 
Le sue parole mi distolgono dalle mie elucubrazioni e mi gettano nella confusione più nera. Stavolta è il mio turno di restare zitto. Già, perché non la faccio finita? Perché esito? Il silenzio si protrae per infiniti secondi, senza che riesca ad elaborare una risposta convincente. In realtà non lo so. Non so perché, ma non voglio smettere di parlare con lui. Voglio conoscerlo meglio… voglio fargli compagnia per un po’. Sto sbagliando, sto andando contro tutti gli insegnamenti che Samael mi ha impartito, ma non posso farne a meno. Qualcosa in me mi spinge a continuare questo teatrino, che avrà un solo, possibile epilogo, per quanto tragico. È quel “qualcosa” che alberga in fondo al mio animo a trattenermi dal compiere il mio lavoro, quel “qualcosa” a cui non riesco a dare un nome. Quel “qualcosa” che non dovrei più possedere da anni e che invece è rimasto lì, in silenzio, sempre presente. Si agita, si divincola nella gabbia in cui l’ho costretto, ed oggi gli ho già dato fin troppi stimoli, a partire dalla scena nell’appartamento. Devo calmarmi. Devo soffocarlo. 
“Raccontami di te.” lo esorto con un sorriso partecipe e sincero. 
Mi squadra confuso per una manciata di istanti, dopodiché accetta l’invito e ricambia il sorriso, che è quanto di più bello e genuino abbia mai visto sul volto di un peccatore.
Forse è troppo tardi per tornare indietro. Percepisco quel “qualcosa” guizzare felice e invadermi lo sterno di un piacevole tepore.










 
  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: Lady1990