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Autore: Ljn    12/10/2014    3 recensioni
Stava andando tutto male.
Perché stava andando così? Perché? Qualcuno glielo sapeva spiegare? Un secondo prima era intento a bisticciare con quel Teme silenzioso che infestava la sua vita da un’eternità, l’attimo dopo stavano fuggendo. Fuggendo! Loro!!
Loro, che erano i più forti in assoluto!
Non esisteva. Assolutamente! Non poteva! Si erano allenati fino a sputare sangue, avevano sacrificato … un sacco, per arrivare dove erano. Un ENORME sacco. Un sacco così grande che avrebbe potuto starci dentro tutta la famiglia di Choji. E stava parlando mentafornica … metafarica … metaforonicamente – annuì a se stesso, soddisfatto – perché era ovvio che nella realtà il sacco sarebbe stato un sacco più grande.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Naruto Uzumaki, Sasuke Uchiha
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la serie
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Perdono.
Emicrania.
Dopo la giornata di lavoro di ieri non mi è rimasta più forza se non per guidare fino a casa, mangiare qualcosa e seppellirmi nel materasso.
Non sono sicura di riuscire ad aggiornare o rispondere ai commenti questa sera, temo che dovrò rimandare a domani.
Sappiate comunque che li ho letti, ho riso e mi sono commossa. Poi lettererò (neologismo) il mio apprezzamento più estesamente e personalmente.
Ah. Non muore nessuno, rassicuratevi.
Baci e sempre buon invecchiamento ^^


Cinque.
 

Erano passati … quanti? Due secoli? Quattro settimane? Otto ore?

Naruto non lo sapeva.

Sapeva solamente che il silenzio e il buio che all’inizio erano stati tenuti a bada dalla presenza rassicurante di Sakura e Sasuke, stavano tornando ad essere sempre più opprimenti, e lui si sentiva sempre più solo, in quel nero cieco e sordo che pareva ridere di lui e delle sicurezze che vi aveva costruito sopra col passare degli anni, ritornando ad essere quello che era stato per lui durante l’infanzia: il suo nemico più spaventoso.

Ogni volta che da bambino si era trovato da solo, in quell’appartamento che il Consiglio gli aveva stabilito come prigione senza sbarre, era stato il silenzio, a ricordargli quanto davvero insignificante per tutti lui fosse. Era stato il silenzio, con le sue pozze nere di oscurità, ad essere la materializzazione fisica della sua solitudine: perché avere timore di qualcosa di fisico e concreto era meglio che averne di qualcosa di immateriale. La materia la puoi combattere e sconfiggere, una emozione no, in fondo.

Era stato allora, che il suo isolamento aveva acquisito degli occhi neri e maligni, una bocca che rideva muta di lui e delle certezze che si stava lentamente costruendo, e un corpo pesante e soffocante, freddo e duro come il ghiaccio. E una volta diventato nemico fisico, lui gli si era ribellato, cocciutamente, nell’unico modo che era riuscito ad escogitare, accendendo di lucciole fatte di risate, scherzi e rumori, il buio attorno a quegli occhi crudeli, perché senza silenzio non c’era buio e senza buio non c’era solitudine.

E aveva funzionato.

La solitudine si era illuminata quando era entrato nel Team 7, e invece di essere nera e spaventosa, era diventata scura e profonda, come una sorgente di acqua calda in cui bagnarsi. Allora era diventato sempre un po’ più facile ignorare gli occhi cattivi costantemente puntati su di lui da dietro le sue stesse palpebre, e quegli occhi poco per volta erano cambiati: erano diventati gli occhi di Sasuke, e avevano condiviso la solitudine, piuttosto che affogarcelo dentro.

Il buio così era stato solo il momento prima dell’alba, si era colorato di rosso intenso, che non era il colore della paura e del sangue ma quello dell’affetto e della complicità, e aveva illuminato la solitudine in modo più efficace delle sue risate arancioni e blu. Non aveva più dovuto neppure cercare i suoni, perché essi erano stati sempre presenti, a cantare nel suo cuore del fatto che non era più solo, che era parte di un intero, che qualcuno lo aveva visto, e lo continuava a vedere e riconosceva in lui qualcosa oltre le tenebre e la solitudine. Era stato un suono strano, all’inizio, che lo aveva accompagnato ovunque, ma così bello ... come una nenia rassicurante che gli ricordava le promesse e i sogni. Talmente bello …

Quando Sasuke se ne era andato … ecco. Era stato doloroso, ma neppure allora la solitudine aveva avuto la meglio, anzi: perché il suono dei suoi proponimenti si era perfino rafforzato, e gli occhi del suo silenzio, ora tristi e feriti, erano rimasti là a dirgli che pure lui si sentiva solo, e allora erano stati soli in due, e il desiderio di ritrovare il nero profondo, ricco di possibilità, che era tanto caro ad entrambi era stato abbastanza perché il silenzio non fosse tale. Solo quiete determinata e malinconica, quando Naruto le permetteva di esserlo.

E poi naturalmente a quel tempo c’erano altri, a riempire la sua solitudine superficiale di suoni. Più o meno spaventosi, più o meno vicini, più o meno tristi o allegri. Ma sempre là.

Quindi Kurama non era più stato una presenza aliena dentro di lui ma un amico, un complice, e allora la solitudine era diventata un fantasma con la forma di Uchiha Sasuke, e gli occhi bui e lontani e ancora più tristi. Come se si fosse convinta che lui non avesse più bisogno di lui. Che lei, invece, ancora cercava e cercava e anelava riavere vicino, a condividere lo spazio dentro la sua anima che entrambi si sforzavano di tenere costantemente illuminato per lui.

E alla fine Sasuke, quello vero, quello fatto di nero e rosso, e calore e frasi taglienti, e gentilezze nascoste e sorrisi camuffati da sbuffi, e occhi morbidi e sopracciglia aggrottate, e insulti affettuosi e commenti cinici … Sasuke era tornato, e la solitudine non era più stata neppure l’ombra di lui, perché la solitudine si era dissolta nella luce oscura e felice che Sasuke, quello vero, aveva riportato nella sua vita.

E Naruto aveva creduto che non l’avrebbe mai più rivista, ed era stato un po’ triste, ma anche molto colpevolmente sollevato, perché lei, fatta di buio e tristezza e silenzio, era stata la sua compagna più antica e gli sarebbe un po’ mancata (questo era vero) perché lui si affezionava a tutto (Sas’ke lo diceva sempre), ma era felice di non doversi sentire più così solo. Neanche con lei.

«Sas’ke.»

Eppure … eppure era bastato che una stupida montagna intralciasse la sua strada, che adesso lei era ritornata. E non calda e triste e con lo stampo in negativo della forma di Sasuke. No.

Perché Naruto non la vedeva neppure, e non la sentiva, che era anche peggio. Quella solitudine era quella che gli aveva morso ferocemente le dita da bambino: il buio che non era rassicurante, ma solo vuoto. Il silenzio che significava che era solo, in quel nulla. Non aveva corpo né occhi, ma solo opprimente essenza.

E non importava che non fosse fisicamente vero, perché dentro … dentro lui era di nuovo solo. Solo, solo, solo, SOLO.

Senza amici, senza Kurama, senza Sakura né Kakashi né baa-chan né Iruka. Senza Sasuke. E per quanto amasse tutti gli altri, Sasuke era il più importante di tutti, perché Sasuke era quell’ultimo pezzo della sua anima che riempiva la sua solitudine, e se mancava quel pezzo, lui non stava bene. Lo sapeva. Lo aveva già provato.

Ma questa cosa era peggiore, più peggiore del peggio del peggio che aveva già conosciuto, perché in tutto quel buio e silenzio, lui non vedeva neppure più quel buco!

Così si ritrovava là, in quel limbo vuoto e nero, a non riuscire a distinguere il passare del tempo (No … dovevano essere passati per forza dei giorni, perché gli avevano dato da mangiare diverse volte, … giusto? Ma quanti giorni? Quanti?), e la realtà esterna da quella interiore, rassicurato del fatto di essere vivo solamente dall’unico senso utile che gli era rimasto, isolato e solo anche quando gli altri, Sasuke, erano con lui.

«Sas’ke.» mormorò per la millesima volta, non avendo idea se lui fosse vicino, o se magari ci fosse qualcun altro, in casa con lui, se chiamandolo avesse interrotto qualche conversazione, oppure se fosse davvero solo e magari neppure a casa del Teme (dove gli pareva di aver capito Sasuke aveva deciso di portarlo una volta uscito dall’Ospedale), o magari da un’altra parte, in capo al mondo, o se magari … magari non era neppure ancora uscito da sotto quella montagna, da dentro il suo stomaco, e stava morendo piano piano, digerito dai suoi succhi gastrici e immerso in una allucinazione di paura e silenzio che era solamente un modo crudele del suo cervello per raccontargli come sarebbe stata la sua vita da quando avrebbe smesso di respirare in poi.

Poi, per l’ennesima volta in quei secoli (settimane, giorni, ore), un pezzo di quella realtà vera (almeno per lui), arrivò a stringergli le dita. Calda, profumata di menta e mirra, ruvida e rassicurante. Ancora rassicurante, ma non più come prima, mentre il tempo passava e le sue incertezze e paure cominciavano ad avere la meglio sulla certezza che sarebbe uscito anche da quell’incubo, e che non avrebbe mai più perduto l’imbronciato e bizzoso legame che lo aveva trattenuto dallo scoppiare a piangere fino ad allora.

 
   
 
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