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Autore: Mistral    15/10/2008    0 recensioni
Se alzi gli occhi, amico mio, la vedi su per la collina. La Luna.
Ma non è la solita piccola luna, con la sua luce soffusa e ispiratrice. È una luna particolare, questa, grande e maestosa. Si staglia orgogliosa e imponente all'orizzonte, come un rosso e tremendo presagio di sventura fin dall'antichità.
Se fai attenzione, però, riuscirai a notare quello che a molti è precluso: ti accorgerai che è la luna stessa ad essere carica di dolore. Lo senti, ora, nell'aria improvvisamente ferma e pesante? Senti la sofferenza, la tristezza?
“Perché la luna è triste?” mi chiedi. Sono tante le risposte alla tua domanda. Tante quante le schegge che compongono la superficie che stiamo osservando. Schegge bagnate del colore sanguigno dell'eclisse e che, nonostante la loro apparente uniformità, sono tutte diverse tra loro. Perché, pur essendo simile alle altre, ogni scheggia di luna prova un dolore diverso…

[Piccola raccolta di one-shot introspettive su ognuno dei componenti dell'Akatsuki]
[SPOILER per chi non conosce i membri dell’organizzazione]
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Akatsuki
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Il tempo non è nient

Il tempo non è nient’altro che una successione di attimi e il cambiamento nient’altro che un mutamento di forme. Interpretarli nella giusta prospettiva e viverli al meglio è la sfida che attende ogni uomo.

 

Genere: one-shot, introspettivo, malinconico

Personaggi: Kakuzu

Warning: spoiler dal cap. 339

 


 

 

“Non si può discendere due volte nel medesimo fiume

e non si può toccare due volte

una sostanza mortale nel medesimo stato

perché a causa dell'impetuosità e della velocità del mutamento,

essa si disperde e si raccoglie, viene e va”

(Eraclito)

15/10/2008

 

 

Panta Rei

Time Ain’t Nothing but Time

 

 

“Allora, ti vuoi muovere o no?! Lo sai che non abbiamo tutto il giorno!”

“Vai a farti fottere, eretico! Lo sai che quando il sole è allo zenit devo elevare la mia preghiera al sommo Jashin!”

“…’fanculo Hidan! Tu e quel tuo dio dell’accidenti… vedi almeno di spicciarti…”

 

L’ultima parte della frase la dico quasi sottovoce, anche perché tanto so già che sono parole sprecate: al solito, il mio compare la tirerà per le lunghe con quelle sue dannatissime preghiere. Che poi chiamarle preghiere ha poco senso, sembrano più sacrifici umani…

Ma questi sono affari che non mi riguardano. Il mio problema adesso è come passare le prossime ore: finirà che come sempre resterò a guardare il paesaggio…

 

Ad una ventina di metri dal luogo scelto dal fanatico per la sua immolazione quotidiana c’è un gelso e nella sua ombra un grosso sasso, che sembra essere stato malamente rotolato fuori dal limitare del campo di grano lì accanto. Me li immagino proprio quattro contadini malridotti che si dannano per spostare quel pietrone, e non riesco a trattenere un sorriso sardonico: perché faticare tanto per conquistare pochi metri quadri di terra da cui trarre qualche misera spiga in più? Eppure probabilmente per loro era una questione di vita o di morte, la differenza tra riuscire o meno a procurare il cibo per sé e la propria famiglia, dopo aver pagato il dazio al feudatario.

La loro vita è tutta lì e non cambia mai: ogni giorno ne segue un altro sempre uguale e poi i giorni si sommano e diventano mesi e infine anni. E ogni mattina si saluta senza gioia una nuova luce, con la consapevolezza che la morte può arrivare in qualunque momento. È per questo che ho cercato un modo per sconfiggere il tempo.

 

Mi accomodo alla meglio sul sasso, buttandomi all’indietro fino a toccare con la schiena il tronco del gelso, in un equilibrio precario ma tutto sommato comodo e comincio a guardarmi attorno: non è male, questa zona. Non la riconosco, non c’è nulla che mi risulti familiare, eppure è come se nel profondo delle colline brulle che ci circondano, tra la polvere della strada, le pietraie e i terreni coltivati, ci fosse un elemento che mi riporta al mio passato, che fa affiorare ricordi lontani. Ma per quanto mi sforzi non riesco a capire cosa sia, e questo mi infastidisce: non mi piace che qualcosa sfugga al mio controllo.

Sono strani i ricordi: io non me ne sono mai fidato, perché ti ingannano, ti tradiscono. Spesso il ricordo di ieri è evanescente e vacuo, mentre la tua infanzia ti appare nitida e viva.  E se cerchi di misurare attraverso i ricordi il tempo trascorso, di sicuro sbaglierai.

Il mio sguardo continua a scivolare attento su ogni dettaglio del paesaggio che mi sta di fronte, per scovare quel qualcosa che mi disturba. Alla fine gli occhi si posano su un’imponente betulla e su quelli che sembrano i ruderi di una casa colonica: all’improvviso mi è tutto chiaro e rivedo quella betulla e quella casa com’erano ai tempi della mia giovinezza.

Perché questo è il luogo dove ho trascorso quella che, in retrospettiva, posso definire l’unica parentesi felice della mia esistenza. Non so nemmeno quanti anni siano passati, non provo neanche a contarli, ma di sicuro sono tanti. Quella betulla, nella mia testa è ancora l’alberello striminzito con un tronco esile che potevo abbracciare con due mani, piantata da chissà chi nel futile tentativo di ombreggiare l’aia del casolare, la mia casa. Una volta qui c’era un villaggio e, sebbene non ci fossi nato, ero affezionato a quelle quattro cascine e alla gente che le abitava - mia moglie, i miei figli, i miei amici.

Quando avevo cominciato ad allontanarmi da casa, l’avevo fatto anche per loro, perché i soldi non bastavano più. Fare il cacciatore di taglie rendeva e io ero abbastanza forte e spietato da poter campare, letteralmente, sulla pelle degli altri.

Ogni volta che li lasciavo mi imprimevo nella mente ogni dettaglio di quel piccolo borgo, sempre uguale a se stesso, e il pensiero che sarei tornato e l’avrei trovato così come l’avevo lasciato era ciò che mi sosteneva quand’ero lontano. E credevo che anche mia moglie, i miei figli, i miei amici la pensassero come me, che volessero vedere al ritorno lo stesso uomo che li aveva salutati alla partenza, uguale in tutto e per tutto. E così avevo imparato a non permettere alla vita di segnare il mio cuore e avevo trovato un modo di sconfiggere il tempo, assorbendo i cuori delle mie vittime.

Di volta in volta le mie assenze si facevano sempre più lunghe e i rapporti con mia moglie, i miei figli, i miei amici sempre più allentati. A loro non piaceva il mio non-cambiamento, dicevano che ero diventato un mostro. Ma io sono convinto che quella fosse tutta invidia, perché su di loro il tempo si accaniva, lasciando tracce pesanti del suo scorrere. Alla fine non ci riconoscevamo nemmeno più, facevamo finta di non essere mai esistiti nelle vite gli uni degli altri.

Il villaggio invece era sempre lo stesso, come me; cambiavano solo i fiori sui davanzali, come io cambiavo d’abito a seconda della stagione, ma la nostra sostanza rimaneva immutata nel tempo.

E credevo potesse durare per sempre.

Ma mi sbagliavo: ora la piccola betulla è diventata un albero quasi centenario e fa ombra al tetto sfondato di un cascinale in rovina, mentre le altre case del villaggio sono scomparse, lasciando il posto ad una pietraia, misero pascolo per qualche pecora.

Ora, per la prima volta, negli occhi del giovane che ho voluto essere per sempre, c’è lo sguardo del vecchio che avrei dovuto essere da tempo, c’è la consapevolezza che, per quanto mi sia ostinato a negarli e a combatterli, gli anni sono passati anche per me.

Nulla di ciò che avevo amato nella mia giovinezza e che avrei voluto vivere per sempre è rimasto com’era, come lo ricordavo… allora, che senso ha che io non sia cambiato?

 

“Ehi, tirchione di merda… per quanto tempo ancora vuoi startene lì impalato?! Cazzo, ma lo sai che sei un gran figlio di puttana? Prima mi rompi l’anima che dobbiamo muoverci e non mi lasci nemmeno il tempo di recitare le mie preghiere come si deve, poi te ne resti lì come un’idiota… ‘fanculo, va…!”

“Chiudi quella fogna, Hidan! E vedi di conservare il fiato per camminare, piuttosto che sprecarlo per continuare a dire stronzate… andiamo, che la strada per il Tempio del Fuoco è ancora lunga…”

“Fottiti Kakuzu!”

 

 

   
 
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