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Autore: _Sweet_Dream_    01/11/2014    0 recensioni
Chiunque faccia qualcosa è un'artista… Chi fa' la pasta, chi dipinge è un'artista se sa fare bene ciò che fa'… L'arte di Elettra è la morte e sta per dipingere il suo ultimo capolavoro…
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Sapevo che alla fine sarebbe andata così”
“Allora perché non mi hai fermata?”

Eccoti, eppure… †

Sentii il cellulare vibrare. Risposi, rimanendo in silenzio. Sentivo le risate, le urla dei ragazzi che mi chiamavano e chiedevano il bis.

- El, andiamo… - sentivo le risate di Jake e Kail che giocavano insieme.

- Il prossimo gruppo è bravo, ascolta - ma quando rialzai lo sguardo, quello che vidi, fu… una sagoma oscura e l’unica fonte di luce, erano i suoi occhi, azzurro cristallino, quasi bianco. Lasciai cadere il cellulare sul letto, mentre in sottofondo c’era una canzone abbastanza movimentata. Cercai di alzarmi, per scappare, certamente non era li per socializzare, ma la sagoma caricò su di me e mi scaraventò contro il muro. Sentivo la testa farmi male e quando me la toccai, mi ritrovai una chiazza scura sulle mani. 

Si ributtò su di me ed a tentoni cercai qualcosa. In mano sentii qualcosa di vetro, tozzo e realizzai che fosse il vaso che… in quel momento non ricordavo. Gliel'ho ruppi in testa e vidi scorrere il sangue. Approfittai di quei pochi istanti per muovermi. Gattonai, verso la porta, ma mi prese per i capelli. Faceva male, tutto. Anche il minimo pensiero mi faceva male. Volevo urlare, ma non ci riuscivo, era come se qualcuno mi tenesse la mano sulla bocca, impedendomi di parlare. Mi scaraventò a terra e strisciai sui pezzi di vetro rotti del vaso, fino a scontrarmi con la parete. Si avvicinò a me, piegandosi sulle ginocchia e lo vidi. Mi stava… esaminando, quasi come se fossi un vaso che non doveva essere aperto.

Cercai di fermarla, ma troppo tardi; la lacrima già stava scendendo sulla guancia, bagnandomi. Sgranò gli occhi, guardandomi.

- Avanti, uccidimi! - si rialzò, sbalordito e chiuse la chiamata di Jake, interrompendo la musica. Io avevo le mascelle serrate.

- Non oggi - e se ne andò, scomparendo nell’ombra, quasi, non ci fosse stato.

Il sole splendeva, gli uccellini cinguettavano e la sveglia suonava, ovvero, la chiamata. Lo lasciai squillare, visto che non ero riuscita a dormire bene per tutta la notte a causa di un’incubo che avevo fatto. Notando che stessero continuando al cellulare, risposi.

- Cos’è successo? - non capii bene di chi fosse quella voce, ma lo sentivo affannato. La strada, il clacson delle macchine.

- Jake? - viveva più in città rispetto a me.

- Grazie a Dio stai bene - mi sedetti, togliendomi le coperte di dosso.

- Perché mi dici questo? - non riuscivo a capire di cosa stesse parlando.

- Ieri, ho sentito dei rumori -

- Quando? -

- A telefono - rimasi paralizzata e ricordai il sogno. Lui che mi chiamava e mi faceva sentire il gruppo che suonava.

- Ieri? - mi spostai i capelli, ma sentii come qualcosa di appiccicoso e bagnato. Guardando la mia mano, notai che fosse coperta di sangue. Scattai all’impiedi, e vidi una macchia rossa sul cuscino.

- Dopo che tuo padre ti è venuto a prendere, ti ho chiamato. Ho sentito dei rumori - ricordai di quando avevo visto quella sagoma, quegli occhi cristallini. Mi ha sbattuto contro il… muro ed il sangue dietro alla testa - Poi, come del vetro - alzandomi, m’incamminai in bagno e mi feci male, calpestando qualcosa di vetro. Ripensai a quando gli avevo rotto il vaso in testa - Stai bene? - 

- Certo - controllai nella spazzatura della mia stanza, ma non cera niente. Freneticamente, scesi al piano di sotto, scontrandomi con un paio si signore, ma non me ne importò ed a piedi nudi con i vestiti della sera prima, uscii fuori, andando sul retro della casa ed aprii il cassonetto.

- Che cosa stai facendo? -

- Frugo nella spazzatura - ed aprii un sacchetto, trovandoci dei pezzi di vetro.

- Perché? - non lo sapevo neanch’io, o forse si?

- No, una delle oche ha buttato una cosa. Scusa, devo andare - richiusi il cellulare e rientrai in casa.

- Puzzi di spazzatura - mi disse Jim senza peli sulla lingua e scansando delle oche, così io chiamavo alcune pettegole delle cameriere, ci dirigemmo in cucina.

- Jim, El. Oh mio Dio, che puzza - quella era Abigail, la mia tata da… sempre. Era mia madre.

- Ha avuto la brillante idea di infilarsi nel bidone - disse Jim dandole un bacio sulla guancia ed abbracciandola da dietro. Abigail sembrava imbarazzata dal modo in cui cercò di spostarsi.

- Io non dico che voi state insieme ed io non ho mai frugato nella spazzatura - presi al volo un pancake ed uscii dalla cucina, avviandomi nel grande salone. Mio padre passò, ma non lo degnai di uno sguardo, quando sentii i passi interrompersi e mi girai verso di lui. Eravamo lontani, volti l’uno verso l’altra, quasi come fosse un duello o meglio, lo era.

- Oggi pomeriggio verrà il tuo ragazzo -

- Non ho un ragazzo - non ero stranita dalla sua frase, ma, adirata, completamente. Un matrimonio combinato, io, ma per favore.

- Cos’hai che non va? - ah, io. È quello che fa, scarica sempre tutta la colpa su di me.

- Non era il volere di Evangeline - non voleva che affrontassi un matrimonio combinato, non l’ha mai voluto, perché neanche il suo lo era stato.

- È morta ed io sono tuo padre. Oggi pomeriggio verrà il tuo futuro fidanzato, che ti piaccia o no! - come se gliel’avessi fatta passare liscia dopo ieri sera - Cos’hai sul viso? - fece per avvicinarsi, ma indietreggiai, fino ad arrivare contro le scale.

- Io non mi sposerò! - dissi tra i denti e fatto ciò, salii le scale per la mia camera, nella quale mi chiusi dentro. Andai in bagno e notai che una macchia violacea si stava facendo largo sullo zigomo, insieme ad un taglio. Ripensai a quando avevo rotto il vaso. Molto probabilmente una scheggia mi aveva colpita. Scuotendo la testa, mi guardai allo specchio - Era solo un sogno - mi lavai velocemente, mettendomi il trucco nero, come al solito ed indossai dei vestiti a caso. Un jeans scambiato con delle catene. Un paio di converse ed una canotta. Per essere autunno, faceva abbastanza caldo. Tolsi le coperte, insieme alla fodera del cuscino e le buttai dalla finestra, visto che sotto c’era il bidone della spazzatura e lo centrai. Presi la mia borsa e mi calai dalla scala.

Ad aspettarmi nel garage della casa, c’era Jim. Non ero il tipo che si faceva accompagnare in limousine o con altre macchine. O le avrei guidate io o avrei scelto io il mezzo. Da uno scompartimento segreto che Evangeline aveva fatto fare quando mio padre era andato via per qualche giorno a causa del lavoro, uscì la mia moto. L’avevo comprata io con tutte le mance degli spettacoli, anche se alla fine posso dire che me l’abbiano regalata Jake e Kail. Mi avevano detto che avevano bisogno di un prestito ed io gli avevo dato i soldi che avevo guadagnato. Il giorno dopo mi ritrovai la moto davanti casa.

- Tieni! - presi il caso che mi passò Jim e portai la moto fuori dal vicolo. Ci saltai sopra e sgommai via, lasciando una striscia di fumo scuro. Mentre correvo, guardavo la strada che andava nella direzione opposta e forse, era quello che mi sarei aspettata. Andavo contro, nella direzione opposta, perché era quello che sapevo fare meglio.


La scuola non era molto distante da casa mia. Era un’istituto privato, alla fine, io e mio padre avevamo patteggiato in quel modo. Io sarei andata in quella scuola se solo non avessi avuto il coprifuoco e avessi potuto spaventare ancora le oche; era divertente. Dopo la morte di Evangeline, mio padre aveva avuto la brillante idea di rinchiudermi in un collegio. Fui cacciata la settimana dopo visto che avevo incendiato i capelli di un’insegnate. Avevo tritato tutti i libri trasformandoli in coriandoli. Avevo imbrattato i muri della scuola. Se non ricordavo male, avevo messo la colla su tutte le sedie degli insegnati ed avevo rotto… la fontana del cortile. 

Passai tra i ragazzi, che si scostarono, lasciandomi passare tra di loro. Mi guardavano, parlottando tra di loro di qualcosa che mi riguardava. Forse stavano parlando del livido che avevo sullo zigomo.

- El! - girai la testa, vedendo Jake e Kail sul “nostro” muretto, ma andai a finire addosso a qualcuno.

- Scusa - dissi d’istinto e quando alzai la testa, vidi degli occhi verdi come dei smeraldi incredibilmente, brillanti. I capelli neri come la pece.

- No scusami tu - disse sorridendomi e qualcosa, portò anche me a sorridere - Beh, ciao - e se ne andò. M’incamminai verso il muretto, sedendomi sopra.

- Com’è andata con tuo padre? - Kail ormai conosceva la prassi di qualsiasi litigio con mio padre. Una volta si era ritrovato in mezzo e non era andata a finire bene.

- Il solito. Vuole farmi sposare - mi accesi una sigaretta e lasciai uscire il fumo a piccoli cerchi nell’aria che si era raffreddata.

- Certo che vuole affrettare di molto - Jake lo guardò storto, quasi come se si fosse potuto risparmiare il commento.

- Il ragazzo con cui mi sono scontrata è nuovo? - mancavo da li da una settimana circa, o più, solo perché… no, non importava. I due si guardarono, come per soppesare la loro risposta. Jake chiuse gli occhi, respirando e quando li aprì, cambiò espressione.

- Che c’è sei interessata? - mi diede una spintarella e per poco non caddi, se non mi fossi aggrappata a lui. Lo mandai a quel paese - Ti ricordo che c’è i ballo d’inverno - era solo uno stupido ballo che organizzava la scuola. In tutto erano quattro balli. Quello delle matricole, una festa di presentazione. Il ballo d’inverno, uno stupido ballo dove le femmine invitavano i maschi. Il ballo di primavera, uno stupido incontro con i genitori e quello di fine anno.

- Lei? Interessata? Per favore - Kail sbuffò, ma aveva ragione.

- A giusto, lei non è una ragazza normale - gli tirai i capelli biondo verdi che si era tinto ed arrivai a scoccargli un bacio sulla fronte - Stavo scherzando - lo lasciai andare. C’erano più probabilità che la cenere attecchisse al suolo che io uscissi con un ragazzo seriamente. Lasciai cadere la cenere e… una folata di vento la portò via. Sorrisi.

- I ragazzi vogliono i Black - avvertì Kail. I ragazzi della scuola potevano fare una “colletta”, i genitori, per eleggere i gruppi che avrebbero suonato alla festa - Devi fare la canzone di tributo - pochi anni fa, cioè, almeno tre anni fa, era morto il figlio del preside ed io mi sentivo un po’ in colpa, visto che assistetti alla scena. Ogni anno mi davano la canzone di tributo in suo onore e per me era qualcosa di speciale, perché lo sentivo particolarmente vicino a me.

- Non c’è problema - appena suonò la campanella, mi aiutarono a scendere e lasciai la cenere cadere a terra, solo che questa, non toccò mai terra. E ce ne andammo, con nell’aria il profumo delle giornate d’inverno che aleggiava, sospesa.

Entrammo nella scuola e s’innalzarono le voci su di me. Sorrisi. Non avevano nient’altro da fare se non parlare di me? Patetici. Se avevano tanto da parlare, avevano tanto anche da invidiare. E non lo dicevo con cattiveria, io, non avevo niente, mentre loro vedevano tutto in me. Si può essere poveri dentro e ricchi all’esterno. Io, ero povera ad entrambi i lati.

Scontrai qualcuno con la spalla, ma non lo calcolai, visto che lo sorpassai subito e mi avviai in segreteria, per registrare la mia presenza.

- El, ciao - quei pochi che credevano veramente in me, oltre ai miei amici e parte della servitù in casa, erano la segretaria, l’infermiera, il professore di ginnastica e quello di filosofia, della scuola.

- Julia - prese dal cassetto una dei fogli, che mi passò - Grazie -

- Ciao - e me ne andai. A quel punto i ragazzi si avviarono in classe, nelle loro perfette divise della scuola, ma io no. Loro erano costretti ad indossarle visto che avevano una particolare situazione familiare. Io, beh, ero io. Entrai nell’ufficio del preside facendogli un cenno e mi avviai verso la zona bar, versando in sue bicchieri dello scotch. Lui venne a prendersi un bicchiere e ci sedemmo sulle poltrone, in mezzo alle quali c’era un tavolino di legno.

- Sei appena ritornata - lo vedevo anche io - E tuo padre mi ha minacciato di non istruire bene gli allievi - bevvi un sorso del contenuto del bicchiere e mi avvicinai verso la collezione di libri antichi del preside, toccando il dorso vecchio.

- Lo sa perché i libri antichi sono i più belli? - sorseggiai, per poi appoggiare il bicchiere sul ripiano e presi un libro, sfogliandolo e sentendo l’odore di vecchio - Hanno qualcosa di profondo da raccontare. Non capiremo mai l’importanza di qualcosa fin quando non sarà troppo tardi. È un concetto che non arriva proprio a mio padre. Lui non mi può tenere incatenata ne tantomeno lei. Ci perde lei se me ne vado - lasciai il bicchiere sul tavolino ed il libro sulla poltrona vicino al preside.

- È inutile cercare di gestire un gatto randagio - me ne andai, ma riuscii ad intravedere il mezzo sorriso sulle sue labbra. Si, forse anche il preside faceva il tifo per me, ma non ne ero completamente certa. La lezione era già incominciata, quindi, entrai nell’infermeria e mi lanciai sul mio lettino comodo.

L’infermiera non c’era, ma rimasi per un momento li, a guardare il bianco. per quanto mi piacesse il nero, c’era qualcosa nel bianco che… Presi la boccetta che corrispondeva al foglio che mi aveva dato la segretaria e presi due pillole dall’interno, ingoiandole con un po’ d’acqua. Lasciai che facessero effetto, lasciandomi cullare da quella sensazione di tranquillità.


Quando mi svegliai, notai l’orario e che il cellulare fosse pieno di chiamate perse di Jake e Kail. Mandai un messaggio al volo, dicendogli che mi ero addormentata in infermeria e che mi sarei diretta all’ultima ora di lezione. La cosa che mi stupì di più, fu che addosso, mi ritrovai una giacca di pelle nera. Me l’infilai e decisamente mi andava larga; era maschile. Odorava di… muschio e vaniglia, misto a… calore.

Alzandomi dal lettino, uscii fuori, notando che l’aria si fosse raffreddata molto di più del solito. 

Entrando in classe, fui accolta da un mormorio, ma il professore non c’era ancora. L’ora di filosofia.

Ma non ti avevano cacciato? 

Fai schifo!

E sentendo quelle urla, m’infilai le cuffiette nelle orecchie e con carta e penna alla mano, cercai le parole per la canzone di tributo. Fuori pioveva, quasi come se il cielo stesse rispecchiando il mio… niente. Quando la canzone finì, lasciai impressi sul foglio parole come “Alla ricerca di un finale dolce. Guarda la fiamma dentro i miei occhi Brucia così luminosa, voglio sentire il tuo amore”. Sentii anche i mormorii delle ragazze e togliendomi le cuffie, alzai gli occhi, incontrando due paia di sfere blu scintillanti. Sembravano quelle del mio incubo… 

I capelli castano dorati ricadevano scombinatamente sulla faccia. La linea perfetta del naso. Le labbra sottili. Le mascelle contratte e squadrate. Aveva un look quasi come il mio. Pantalone stralabrato con delle catene. Una maglietta nera a mezze maniche attillata, che faceva risaltare la linea dei muscoli circondati dalle vene sporgenti. Aveva un lungo tatuaggio su tutto il braccio sinistro ed indossava un’orologio nero. Portava una catenina intorno al collo, una sfilza di braccialetti ed un’anello. Sul sopracciglio destro portava un piercing nero e vari orecchini. A quel look da… duro, sembrava come mancare qualcosa. Una giacca di pelle nera. Che sciocchezza. 

Non era solo il tipo duro, ma anche quello che era abituato ad avere le ragazze ai suoi piedi. Poi, la vidi. La cicatrice che nascondeva sotto i capelli. Mi ricordò quella del sogno, quando avevo rotto il vaso in testa a quel tipo… scossi la testa.

Si sedette vicino a me, in silenzio, per quanto ci siamo guardati. Questa volta i mormorii non erano solamente su di me, quasi come se avesse scelto il momento giusto per entrare.

- Buongiorno ragazzi - disse il professore entrando. Era il classico professore anziano con occhiali e vestito bene. Uno di quello con il quale puoi instaurare un rapporto - Signorina Grey, è un piacere rivederla - disse sorridendomi. Anche se guardavo lui, sott’occhio notai occhiate sfuggenti dei ragazzi e di quello accanto a me - Allora, incominciamo con… William Blake - lo aveva fatto apposta, visto che era uno dei miei poeti preferiti - Una frase tratta con libro e anno - molti alzarono la mano e lui, passando per i banchi, interpellò quasi metà della classe, mentre io ripresi a scrivere - E lei, signorina Grey? - alzai lo sguardo - Cosa pensa dei poeti? -

- Sono persone normalissime. Ci sono più poeti in questa scuola che nella realtà. Non lo si è solo perché si ha scritto o si è famosi. Sono tanti i poeti che scrivono, ma pochi quelli che lo fanno col cuore - intrecciai per pochissimo lo sguardo del ragazzo accanto a me, che sembrava alquanto… compiaciuto.

- Un poema a suo piacere? -

- 1790-1793. Dal Matrimonio del Cielo e dell’Inferno. La prudenza è una vecchia zitella corteggiata dall’incapacità. Oppure: Io non interrogo il mio occhio… - ed a quel punto continuò…

- …Più di quanto interrogherei una finestra a proposito di una veduta. Io guardo attraverso di esso, non con esso - parte della classe rimase estasiata da lui, ma io ero più, stupita, irritata. La sua voce sembrava accarezzarmi come in tentazione, ma potevo contrastarlo.

- Signor Hate, è la prima volta che la sento partecipare. Devo pensare che la presenza della signorina Grey lo abbia influenzato? - appoggiò la mano sullo schienale della mia sedia, appoggiando, o meglio, sfiorando con un dito incandescente la mia schiena. 

- Probabilmente - mi ritrassi facendomi avanti e lo sentii sorridere.

- Farete coppia insieme per il compito che vi affido. Dei versi scritti da voi. Potete presentarli come volete - il professore mi guardò sott’occhio, visto che io mi limitavo all’ultimo momento. Andavo direttamente li con una chitarra dalla sala di musica e strimpellavo quale frase, da sola. Lo guardai e lui guardò me. Ci stavamo analizzando, come se stessimo cercando si squadrarci, capendo la persona che ci ritrovavamo davanti.

- Professore! - non prestai neanche attenzione all’urlo della ragazza che mi ero persa nei suoi occhi.

Avvenne tutto molto velocemente e mentre prima lo stavo guardando, adesso ero a terra, con un corpo caldo che mi proteggeva. Aprendo gli occhi, vidi tutti a terra, mentre dal cielo continuavano a scendere quelli che sembravano fiocchi di vetro, ma quando uno mi colpì, capii che fosse vetro. Alzando la testa, mi ritrovai faccia a faccia con lui. i nasi che si sfioravano ed il battito accelerato, ma che andava in sintonia. I suoi occhi nei miei. La sua mano calda dietro alla mia schiena mentre mi… proteggeva. Avevo una mano intorno al suo collo.

Rimasi come paralizzata. Non potrei descrivere le emozioni che mi balenarono dentro. Amore, ammirazione… nessuna di queste potevano descrivere come mi sentivo in quel momento. Si trattava di più di gelosia mista ad invidia d’invidia e poi… desiderio.

L’ultima cosa che ricordo, era la finestra della stanza della classe, che però, adesso, non c’era più. il freddo mi circondava lentamente, rinchiudendomi in quel mio mondo freddo e chiuso a chiave, nell’oscurità. L’unica cosa che sentivo, era qualcosa di caldo, un caldo di quelli che mi spaventavano, quelli che desideravo allontanare, ma che ardentemente, volevo che mi circondasse, incenerendomi.







Ps: Salve, scusate se è un po' lunghetto, ma ho incominciato a scrivere e non mi sono più fermata. Spero sempre che vi piaccia :)

  
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