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Autore: Gioacchino    03/11/2014    1 recensioni
L'attimo seguente alla sua morte, Emma Ambrose si risveglia, confusa e dubbiosa, nello stesso posto in cui è stata uccisa. Sono passati solo pochi secondi e tutto intorno a lei è cambiato: il parco giochi è vuoto, l'aria asfissiante, nel cielo perlaceo si innalzano ora aquiloni bianchi ora cornacchie sinistre che si scagliano contro una parte non definita dalla prospettiva. Al posto della statua di Benjamin Franklin, nel centro storico della sua Belleville, si è sostituito il rilievo marmoreo di un angelo, che Emma identifica, subito, nella figura di Lucifero. Giunta a casa, tra gli esoscheletri delle auto abbandonate e le architetture Vittoriane della sua città, Emma è sorpresa di trovare il suo Labrador, nella regressa forma di cucciolo, che è morto anni prima per vecchiaia. Tutta la città è deserta, nessun'anima viva. In un luogo dove non esiste né giorno né notte, né fame né sete, né sentimenti né emozioni, Emma scoprirà ben presto di non essere l'unica presente in quello che, un corteo di anime in pena, gli rivela essere il purgatorio.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non appena aprì gli occhi, Emma Ambrose, riprese ad avvertire il dolore che fino a pochi minuti prima aveva pervaso tutto il suo corpo, lasciandole molle le gambe e le braccia e cocente il ventre, trafitto da quella lama di cui poteva ancora sentire l’affilatura.
Ebbe subito l’impressione di respirare un’aria diversa: quasi di un altro luogo e di un altro mese e di un’altra vita, mentre con lo sguardo ancora terso, rivolto verso il cielo, non poté fare altro che notare tre o quattro aquiloni bianchi ergersi in volo verso il punto più alto che quell'immensità celeste potesse raggiungere.
Per un attimo si sentì completamente rilassata, come se ogni pensiero fosse stato privato della malignità, del rancore, della rabbia. Come se fosse in pace con se stessa, purificata. E il lieve sorriso che le si abbozzò sul volto lo dimostrò. Poi, con l’indice, puntò gli aquiloni e questi caddero sulle fronde di un salice prospiciente il fiume che collegava la sua Belleville a New York City. E la tranquillità svanì tutta d’un colpo, il cielo limpido assunse la sfumatura di un grigio gridellino, quasi perlaceo, e in volo non si alzarono che cornacchie dalle piume di nero lucido destinate a schiantarsi, anch’esse, subito dopo.
La ragazza si alzò allora d’istinto, noncurante dei dolori che il suo stomaco continuava ad avvertire e del leggero formicolio che le si diramava in tutte le ossa. La vista appannata, come se tutto attorno a lei fosse avvolto in una foschia, si aggiunse ai sentori avvertiti in precedenza. Stava succedendo qualcosa di strano a Belleville, un presagio forse, ed era meglio che avvertisse sua madre e sua sorella prima di incappare in qualche funerale inaspettato.
Fu quello il suo primo pensiero: la morte.
Una volta in piedi, sentì come se la testa le roteasse sul collo: conseguenza, pensò, di tutto quel sangue che aveva perso ma che non le era stato fatale. Lo sforzo che fece nel reggersi fu, però, così esaustivo che per evitare di capitombolare sulla pozzanghera di sangue, dovette sedersi sul ceppo di un acero privo di vita.
Superato l’impulso di chiudere gli occhi per cercare di recuperare quella serenità che andava perdendo col passare dei secondi, la sua vista tornò come nuova, cancellando i contorni sfocati di ogni cosa che la circondasse. E bastarono altrettanti pochi secondi affinché tornasse a sentirsi abbastanza in forze da voler scrutare l’ambiente attorno a sé. Si alzò dunque dal ceppo, ispezionando, per primo, ciò su cui i suoi occhi si erano appena fossilizzati: una leggera brezza di vento ammassava le foglie ingiallite ai margini del marciapiede, in seguito, il cigolio delle catene dell’altalena le giunse alle orecchie e quando si voltò per guardare, nessuno vi si stava dondolando sopra.
Nient’altro che il rumore dei ferri di un’altalena che oscillava nel vuoto del suo abbandono, come se qualcuno si fosse appena alzato di lì.
Perfino la certezza di trovarsi a Belleville trascurò la sua mente, nonostante ci fossero gli edifici vuoti e le staccionate di legno bianco che si confondevano con l’architettura Vittoriana, a ricordarglielo. E mentre le venature della foglia che aveva appena preso tra le mani sembravano trasportarla verso altri pensieri, Emma Ambrose si chiese dove fossero finiti i bambini che aveva visto quando era arrivata lì, prima che il suo attentatore la traesse in inganno.
Quel luogo sapeva di assenze, di addii, di cuori di ghiaccio e di … morte, ma non poteva essere morta per davvero. Emma sentiva ancora il suo cuore battere, persino la foga con la quale il suo assassino le scagliava contro la lama del coltello continuava a essere un pezzo dei suoi ricordi. Eppure niente sembrava rimembrarle la vita, poiché l’unica cosa che riusciva a percepire era solo il cambiamento, il cielo grigio, quel tratto di strada che al di là del parco mostrava le villette succedersi in lontananza, facendo di Belleville, della sua città, nient’altro che una città sospesa nel vuoto, un percorso onirico in cui la presenza dell’essere umano, della vita in generale, si era eclissata, non lasciando altro che gli esoscheletri delle automobili a ricordare un passaggio forse dimenticato da Dio, un pezzo di casa, un intervallo temporale in cui far risiedere le proprie speranze, per un improbabile risveglio.
La sua Belleville era diversa, come se le lancette dell’orologio si fossero spostate in avanti di qualche secolo rendendola una città post apocalittica, almeno all’apparenza.
D’altronde, Emma, si chiese persino se, in quel posto, ci fosse spazio per la vita.
Non avrebbe comunque risolto nessuno dei suoi dubbi finché se ne sarebbe stata nelle vicinanze di Pine Barrens, dove gli unici che avrebbero potuto ascoltare le sue domande altro non erano che alberi, cespugli, ammassi di ferro e sentieri ristretti che si diramavano nell’entroterra boscoso. Così decise di non guardarsi più intorno, perché se avesse continuato a farlo, non avrebbe smesso di vedere le cose cambiate.
Doveva solo tornare a casa, il prima possibile.
Finalmente uscita dal parco giochi, si ritrovò su una strada deserta, che in poche centinaia di metri l’avrebbe fatta giungere al centro storico e poi ancora a casa propria, dove, per un attimo, pensò di non trovare nessuno. Se tutto intorno a lei si era fermato perché mai la sua famiglia avrebbe dovuto essere al sicuro da quello stravolgimento urbano? Improvvisamente, un groppo alla gola le fece cadere, sulla punta delle converse bianche, alcune gocce di liquido cupo dal colore vagamente rossastro. Altro non erano che lacrime di sangue formatesi all’interno delle cavità orbitarie e stillate nell’esatto momento in cui aveva provato una forte emozione: quella di poter perdere la sua famiglia.
Non le restò, allora, che scoprire quanta verità ci fosse nei suoi dubbi e quanto ancora la sua Belleville avrebbe potuto sorprenderla.
Quindi, continuò a camminare, mentre con la manica della maglia impregnata di rosso, si asciugava le lacrime finora colate e che risiedevano sul suo pallido volto, in direzione del proprio quartiere.
Attraversò il ponte di mezzo che si diceva separasse la Belleville dei poveri da quella dei ricchi, e si promise di non prestare attenzione ai cambiamenti che presentava persino l’acqua del fiume che vi scorreva al di sotto, dove una nutria uscì dall’affluente per porsi in riparo entro le corpose foglie di alcuni cespugli, posizionati poco più in alto del livello dell’acqua.
Oltrepassò la statua marmorea di Benjamin Franklin, eretta su grandi massi di pietra che si innalzavano da terra per circa due o tre metri, e nel guardarla, in tutta la sua imponente grandezza, Emma si accorse che i tratti somatici della statua non erano proprio come li ricordava, nemmeno la posizione mirifica dell’uomo lo era. Quello che si ergeva, adesso, sul macigno era un altro rilievo marmoreo, con grosse ali alle spalle e una posizione quasi fetale che sembrava implorare pietà.
Lucifero pensò, di scatto, sorprendendosi, solo qualche istante dopo, del perché quello fosse il primo e unico nome venutolo in mente.
Lanciò un'altra occhiata al cielo, sperando che fosse tornato al suo colore naturale, ma tutto era per come lo aveva lasciato nei pressi di Pine Barrens e, niente, cominciò a crederlo per davvero, sarebbe cambiato: le strade, l’aria pesante, il silenzio assordante, l’abbandono. Niente si sarebbe mosso, ora che tutto sembrava allontanarla sempre più dall’idea di trovarsi nella sua città natale: quella in cui i bambini giocavano nel parco, la gente attraversava lo stesso ponte nel quale era appena passata e Franklin si ergeva, nella sua posizione eretta, al di sopra del quotidiano via vai che si creava sotto la statua.
Persino la sua famiglia non l’avrebbe aspettata dentro casa con l’odore di caffè che invadeva ogni angolo della piccola cucina. E ancora si ripresentò quel groppo alla gola, con qualche altra lacrima di sangue, e cercando nelle tasche non trovò un fazzoletto che le permettesse di asciugarsi, un qualcosa che non fosse la sua maglia unta o le sue mani congelate. Solo adesso si accorgeva di quest’ultimo dettaglio.
Pensandoci, avrebbe potuto addentrarsi all’interno di quel supermercato, che ricordava esserci nelle vicinanze, e prendere da lì un po’ di fazzoletti sfusi, di quelli che era solita trovare alla cassa. Belleville, però, non smetteva di sorprenderla, e al posto del supermercato si estendeva adesso una modesta distesa di fiori di amaranto che sembrava condurre verso un punto mal definito dalla prospettiva.
Nulla di tutto questo sarebbe stato credibile se solo avesse azzardato l’ipotesi di raccontarlo a qualcuno.
Così non le restò da fare che riprendere la sua camminata verso casa, mentre nell’angolo più profondo della sua mente cominciò a farsi spazio l’inquietante sensazione di non essere da sola, che qualcuno la stesse seguendo.
  
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