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Autore: beagle26    06/11/2014    8 recensioni
Londra. Elena Gilbert, giovane scrittrice di belle speranze, dopo mille porte in faccia è riuscita a pubblicare con successo il suo primo romanzo.
Il merito è dovuto soprattutto all'intervento del giovane editore titolare della casa editrice “Tristesse”, che tra consigli non richiesti e qualche modifica di troppo, ha portato il libro in vetta alle classifiche di vendita.
Ma cosa succederà quando Elena verrà colta improvvisamente dal famigerato blocco dello scrittore?
AU - TUTTI UMANI
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Caroline Forbes, Damon Salvatore, Elena Gilbert, Elijah, Stefan Salvatore | Coppie: Damon/Elena, Damon/Katherine
Note: OOC, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 8 – COME FARE A DIRTI CHE HO SBAGLIATO
 
 
How can I tell you I was wrong?
When I am
The proudest man
Ever born
 
I stand on the horizon
I wanna step across it with you
But when the sun's this low
Everything's cold
On the line of the horizon
 
Come to me
Oh won't you come to me
***
Come posso dirti che avevo torto
quando sono l’uomo più orgoglioso
che sia mai nato?
 
Sto all’orizzonte
Vorrei attraversarlo con te
Ma quando il sole è così basso
Tutto è freddo
sulla linea dell’orizzonte
 
Vieni da me
Oh, non vuoi venire da me?
 
Stand on the horizon – Franz Ferdinand
 
 
 
Damon
 
Appena faccio un passo dentro al Sussex, vengo investito dal familiare aroma tipico di ogni locale londinese che si rispetti: un misto agrodolce di birra scura, olio fritto troppe volte e hamburger bruciacchiati.
Accanto alla solita clientela, composta perlopiù da avventori mezzi sbronzi ancora in abito da lavoro, stasera si nota qualcosa di diverso. Si tratta dei tizi che parteciperanno alla finale di karaoke. Non ci vuole poi molto a riconoscerli: sono una manica di personaggi di mezza età riuniti in capannelli, tutti concentrati a ripassare i testi delle loro canzoni, canticchiarle e ascoltarne le versioni originali armati di cuffiette, neanche fossimo alla finale di XFactor.
 
Mr. G è l’unico che se ne sta in disparte, rintanato all’angolo più remoto del bancone del bar, col suo foglio davanti e un barattolino tascabile di miele che con ogni probabilità è deputato a trasformare la sua voce nel gorgheggio di un usignolo, cosa che gli garantirà di vincere la competizione.
Peccato che, anche solo per poter gareggiare, gli serva una partner. Nello specifico Elena, che, se Stefan farà il suo dovere, in questo pub non metterà piede.
A proposito di mio fratello, qualunque idea si sia fatto venire, mi auguro per lui che sia davvero, davvero buona. Cerco di scacciare l’idea di lui travestito da ispettore Derrick nel corso della nostra ultima missione e mi guardo intorno, riconoscendo subito dietro al bancone la brunetta carina dell’altra volta. Deve essere una cara amica di Elena. Credo proprio che, se conoscesse le mie intenzioni, non mi sorriderebbe in quel modo.
 
D.! Sei qui finalmente! Grazie per essere venuto!”
 
Mr. G, in pieno clima pre-gara, mi porge una mano sudata che io scanso prontamente con un mezzo sorriso, preferendo salutarlo con una pacca sulla spalla: più virile e decisamente meno rischiosa.
 
“Ciao! Cosa ti porto?” chiede la barista mora con aria ammiccante. Qualcosa mi dice che lei sappia molte cose sul mio conto, molte più di quanto io possa immaginare.
 
Dopo aver ordinato un bourbon per me e per il mio amico, mi accomodo sullo sgabello.
In fondo anche io devo svolgere al meglio la mia parte del piano. Mentre Stefan intrattiene Elena, io devo accertarmi che suo padre si incazzi a morte per la sua defezione, ricordandogli quanto sia fondamentale per lui avere il supporto della figlia in questa stramaledetta gara canora.
Mica roba da poco insomma.
Ma, prima ancora che io possa iniziare a lavorarmi Mr. G, è lui a sollevare il bicchiere in mia direzione, per poi svuotarlo in un unica, nervosa sorsata e partire in quarta con un monologo.
 
“Sono felice che tu sia qui Damon. Si lo so, con Elena non è sempre facile ragionare, ma chi meglio di te la capisce? Voglio dire, sei tu che l’hai scoperta, che le hai permesso di spiccare il volo. Era giusto che anche tu fossi presente. Perché oggi è il giorno del riscatto. Il giorno in cui, vincendo questa gara, realizzerò uno dei desideri più importanti della mia bambina.”
 
Mr. G sbatte il bicchiere sul ripiano di legno, lo sguardo fiero perso nel vuoto come se stesse per cantare God Save the Queen a Wembley di fronte a Elisabetta II in persona, invece che un pezzo anni ’70 seguendo le parole proiettate su una parete.
Aggrotto le sopracciglia, leggermente confuso dalle sue ultime affermazioni. Non mi risulta affatto che Elena sia mai stata un’appassionata di canto in generale, meno che meno del karaoke. Perché mai dovrebbe essere tanto entusiasta di assecondare il padre in quello che, con ogni probabilità, si rivelerebbe uno degli episodi più imbarazzanti della sua esistenza?
 
“Che vuoi dire?” chiedo, perplesso.
 
“Leggi qui D.!” fa lui, tutto tronfio, porgendomi un volantino “Il primo premio è un viaggio in America, a Disneyland. Sarà una sorpresa per Elena! Possibile che non ti abbia mai parlato di Disneyland?”
 
Forse Mr. G non si è ancora reso conto che, mentre lui se la spassava con l’esperta di botanica, sua figlia è diventata una donna. Una donna i cui interessi si discostano lievemente da Topolino e Pippo. Come no. Adesso Elena preferisce gli sceneggiatori falliti e megalomani.
 
Scrollo le spalle. “Veramente… no. Scusa! Fammene un altro dolcezza.” aggiungo, rivolto a una cameriera. Ho l’impressione che sarà una serata piuttosto dura.
 
“È una lunga storia. Ora ti spiego tutto.” Continua Mr. G, entusiasta. Prima che possa subissarmi di chiacchiere, sfodero la mia migliore faccia d’angelo e gli rivolgo un sorrisino condiscendente.
 
“Ne sarei felice ma… non credo ce ne sia il tempo. Tra poco si comincia. Elena ancora non si è vista?” gli chiedo, fingendomi molto impensierito mentre indico il grande orologio da parete che segna già le otto e cinquanta. Mr. G si volta verso la porta, grattandosi il mento con aria perplessa.
 
“In effetti no. Strano, di solito è così puntuale… Che le sarà successo?”
 
 
Elena
 
“E poi Hayley è scappata in Tailandia col suo maestro di Yoga Asana, minando tutte le mie sicurezze. Forse è per questo che non ho il coraggio di farmi avanti con Care… ho troppa paura di soffrire di nuovo. Riesci a capirmi?”
 
“Oh si. Io odio lo yoga. Non sai quanto.”
 
Io e Stefan ci rivolgiamo un’occhiata liquida ed empatica prima di svuotare all’unisono l’ennesimo shot di vodka.
Ormai non faccio nemmeno più caso a quel fastidioso bruciore che mi provoca scendendo giù per la gola. Anzi, a dir la verità, mi sento stranamente leggera e in pace con me stessa mentre me ne sto accoccolata sul divano con lui, che nel frattempo si è tolto le scarpe, si è stravaccato con la testa sulla spalliera e le gambe sul tavolino del soggiorno e mi ha snocciolato una per una le tragedie della sua vita sentimentale. Ho scoperto che, in quanto a sfiga, possiamo decisamente competere.
 
“Caroline è così… wow… così perfetta! Che dovrei fare secondo te?”
 
Mi accorgo solo in quel momento della sua voce impastata e della cadenza strascinata con cui pronuncia quelle parole, particolare che mi provoca una risatina involontaria e senza senso.
 
“Credo che dovresti seguire il tuo cuore. Ti ricordi no? È una follia odiare tutte le rose perché una spina ti ha punto… eccetera eccetera.”
 
Un angolo remoto del mio pensiero collaterale mi ricorda quanto io sia pessima nel seguire i consigli che sono tanto brava ad impartire. Fortunatamente sono troppo brilla per fare una sintesi mentale di tutto ciò che non va nella mia vita in questo momento.
Anche Stefan sembra riflettere un secondo sulle mie parole, o forse impiega un po’ più del dovuto per capirle.
 
“Seguire il mio cuore…”
 
“Già.”
 
“Ci vuole un brindisi.”
 
“Sono d’accordo.”
 
Afferro la bottiglia di vodka e la rovescio sul bicchiere, ma tutto quello che ne esce è un misero goccio di liquido trasparente. Come abbiamo fatto a finire anche la seconda? Altra risatina. Anche Stefan ride di gusto, rovesciando il capo all’indietro, per poi incupirsi improvvisamente mentre osserva una piccola crepa nel soffitto, come se fosse sul punto di illuminarlo con chissà quale rivelazione.
 
“Non facciamoci prendere dal panico. Ho del vino in frigo!” esclamo, saltando giù dal divano. Per poco non finisco lunga distesa sul pavimento. Avevo dimenticato quel dannato tappeto marroncino che Elijah mi ha convinta a comprare perché si sposava magnificamente col colore dei suoi occhi.
Mentre incespico in direzione del frigorifero, lancio un’occhiata distratta al timer della cucina e...
 
“Oh merda. Merda, merda, MERDA!”
 
“Qualcosa non va Elena?”
 
“E me lo chiedi?? Sono le nove passate. E io dovrei essere da tutt’altra parte. Come ho fatto a non accorgermene?” urlo, inciampando sui miei passi mentre mi sfilo i calzettoni di spugna e afferro un paio di ballerine dalla scarpiera accanto all’uscio.
 
“Il tempo vola quando ci si diverte. E comunque, chi te lo fa fare di uscire con questo tempo?” dice Stefan, serafico. Mi indica con un dito la finestra, sui cui vetri stanno scivolando, una dopo l’altra, gocce di pioggia sempre più grosse. Maledetta Londra e il suo dannato clima, penso, mentre trafelata mi infilo il cappotto e controllo il mio riflesso nello specchio. Sono un disastro ma chissenefrega. Devo correre!
 
“Tu non capisci Stefan. Avevo un appuntamento con mio padre che… lasciamo stare. Passami il telefono. È lì… sul tavolino. Chiamo un taxi…”
 
“Non essere ridicola. Ho la macchina. Ti ci porto io.” fa lui, alzandosi in piedi con non poca fatica.
 
Mi gira la testa. Ad essere sincera mi viene pure un po’ da vomitare, ma  mi sforzo comunque di fare un rapido calcolo. Se aspetto il taxi finirò per tardare ancora, mentre con l'auto posso forse guadagnare qualche minuto prezioso.
 
“O-ok Stefan.” dico alla fine, mentre lui si infila le scarpe per poi barcollare verso di me con un sorriso ebete stampato in viso.
 
 
Damon
 
“Grayson dobbiamo cominciare. Dov’è tua figlia? Deve ancora firmare il foglio di iscrizione.”
 
“Dammi ancora un minuto Mike. Elena deve aver trovato traffico per via del maltempo.”
 
“Ok. Faccio iniziare la prima coppia. Ma se non arriva tra cinque minuti sarò costretto a squalificarvi.”
 
Mike, che ho intuito essere l’artefice di questa farsa, si allontana da noi con risolutezza e si affretta a spingere sul piccolo palco una coppia di camionisti dall’aria piuttosto scontrosa che però, contro ogni previsione, si lanciano in una versione in falsetto di How you do it di Gerry and the Pacemakers.
 
“E questi chi sono? La versione aggiornata dei Chipmunks?”
 
Mr. G non mi risponde nemmeno. È troppo preso dal controllare l’orologio ogni venti secondi.
 
“Comincio a temere che non verrà.”
 
“Peggio per lei. Vorrà dire che si perderà il viaggio a Disneyland.” rispondo, per poi buttare giù l’ennesimo sorso di bourbon. Non ci provo neanche a mascherare l’ironia.
 
“E io non riuscirò mai a rimediare con quella bambina.”
 
Quelle parole catturano la mia attenzione. Non capisco dove voglia arrivare e sono tentato di chiedere di più. Ma quando mi volto verso di lui, il padre di Elena si è già preso il viso tra le mani, mentre i suoi occhi lucidi sono puntati sull’orologio da parete come se non lo vedesse veramente.
 
“Elena risparmiava un penny dopo l’altro per Disneyland. Ogni Natale, ogni compleanno. E il giorno che me ne sono andato… beh, sai. Per quella donna… ho svuotato il suo salvadanaio. Hai capito bene, le ho portato via tutto. Erano poche sterline in fondo, ma sufficienti per pagarmi una sbronza decente e soffocare i miei rimorsi e la mia rabbia. Non ero veramente innamorato di quella donna. Proprio no. Ma ce l’avevo con la madre di Elena. Lei era cambiata, era distante. Non mi sono preoccupato di chiedermi il perché. Ho scoperto troppo tardi il vero motivo: era già malata. Ecco cosa ho fatto Damon, ho abbandonato mia figlia, l’ho lasciata sola ad occuparsi di sua madre e di uno stupido bonsai.”
 
Rimango in silenzio. Mi sento totalmente sprovvisto di parole o giustificazioni.
Tutto ciò che sento è un fastidioso nodo alla gola che mi blocca dal formulare anche solo una frase di circostanza, ma in compenso non mi impedisce di sentirmi un perfetto coglione.
Non ho capito niente.
 
Mr. G stringe il bicchiere vuoto tra le mani, passa più volte un dito lungo il bordo.
Quando solleva di nuovo lo sguardo nei miei occhi spalancati e attoniti, è umido di commozione ma acceso di una specie di luce che assomiglia vagamente alla speranza.
 
“Quando ho letto Lieto Fine mi sono arrabbiato a morte. Ce l’avevo con me stesso, perché ho capito che non avrei mai potuto recuperare con Elena. Le ho fatto troppo male. Ma se stasera vinciamo la porterò a Disneyland. In America, non quello schifo di Parigi. Oh, scusami… mi pare di ricordare che tu sia mezzo francese.”
 
Sorrido sbieco, poi distolgo lo sguardo. Non ho più il coraggio di affrontarlo. Borbotto qualcosa su una telefonata urgente per allontanarmi da lui e dai suoi sensi di colpa che diventano sempre più anche miei. Mi infilo in un angolo del locale, abbastanza isolato perché Mr. G non possa sentirmi e la voce stridula di quei due non mi rimbombi eccessivamente nelle orecchie.
 
Il telefono di Stefan suona a vuoto per una decina di squilli.
Quando finalmente si decide a rispondere, mi accorgo subito della linea disturbata, probabilmente a causa della pioggia fitta che si è abbattuta sulla città.
 
“Dove diavolo sei?”
 
“Fratello mio!” esclama, biascicando.
 
“Hai bevuto per caso? Apri bene le orecchie: ho bisogno di Elena, qui e adesso. Il piano è annullato.”
 
“Oh-oh.” ride.
 
“Oh-oh cosa?”
 
“Elena è… scappata! Eheheh…”
 
Tra un colpo di singhiozzo e l’altro, mio fratello mi racconta a grandi linee di un rocambolesco viaggio in macchina per arrivare al Sussex, o almeno così credeva Elena.
Il tutto si è concluso con Stefan che, per via della pioggia, dice lui, si è schiantato con la macchina – la mia cazzo di macchina, che quell’idiota ha pensato bene di prendere in prestito –  contro un palo.
Nessuno si è fatto male, eccetto la Camaro. Qualcuno me la pagherà cara, questo è certo.
Il problema è che Elena ha pensato bene di cercare di raggiungere suo padre a piedi.
Il pensiero di lei, disperata sotto la pioggia battente, manda in briciole anche gli ultimi residui della mia autostima.
 
“Va’ a casa Stefan. Anzi no, chiama il carroattrezzi.” urlo nella cornetta. Lui blatera ancora qualche frase sconnessa sul seguire il cuore e sulle rose senza spine prima che, esasperato, gli riattacchi il telefono in faccia.
 
Quando torno dal padre di Elena lo trovo a discutere animatamente con Mike.
 
“Ancora qualche minuto. Per favore.”
 
“Non se ne parla. La gara è solo per coppie e…”
 
“In questo caso non c’è problema.” intervengo. Due paia d’occhi sgranati si puntano sul mio viso. Scrollo le spalle. “Coraggio G. Canto io con te. Vinciamo questo viaggio per Elena.”
 
 
Elena
 
L’auto inchioda sulle strisce pedonali. Il tizio alla guida si sporge dal finestrino, imprecando furioso contro di me.
 
“Mi scusi!” urlo mortificata, certa che purtroppo le mie parole non arriveranno mai a destinazione, coperte dalla pioggia scrosciante e dai rumori della strada.
Mentre corro per raggiungere il marciapiede, scosto con rabbia i capelli che mi si sono incollati al viso per l’ennesima volta.
Il mio aspetto deve essere tremendo.
L’ombrello si è rovesciato dopo pochi metri per via di una raffica di vento, e ora mi ritrovo fradicia, col trucco sparpagliato sulla faccia, i vestiti zuppi e le scarpe che imbarcano acqua ad ogni passo.
Non me ne importa. Se non raggiungo il pub papà non mi perdonerà mai e io non voglio, non posso deluderlo.
Il pensiero mi incoraggia a correre ancora più veloce, scansando i pochi passanti che incontro per la strada e cercando di ripararmi meglio che posso con la borsa.
Arrivata all’angolo della St. Martins Lane, riesco finalmente a scorgere l’insegna di legno del pub e le sue finestre, che proiettano sull’asfalto umido una luce gialla e ovattata.
 
“Finalmente!” penso, allungando il passo per raggiungere la porta. Ma quando mi ritrovo a stringere la maniglia dorata fra le dita, sono invasa da una prepotente sensazione di panico.
 
È tardi, troppo tardi. Mio padre deve essere furioso ed io non ho idea di come giustificarmi per il mio ritardo. Non è colpa di Stefan, avrei dovuto capire che non era in grado di mettersi alla guida. Sono una stupida, non c’è altro da dire e…
 
La porta si spalanca, lasciando uscire due ragazzi che, riparandosi sotto la tenda del locale, si accendono una sigaretta ridacchiando fra di loro. È in quel momento che una melodia fin troppo familiare mi arriva alle orecchie, lasciandomi a bocca aperta e annullando di colpo tutti i miei pensieri.
 
Prendo coraggio e spingo l’uscio. Il calore umido che proviene dall’interno mi invade all’istante, oltrepassando la barriera dei miei vestiti inzuppati di pioggia.
Qualcuno mi guarda storto, ma non mi interessa. Come ipnotizzata, seguo il suono che mi ha attirata qui dentro, facendomi strada tra i tavolini stipati di gente. Urto per sbaglio una ragazza in gran tiro. Lei mi scansa infastidita, mormorando qualcosa, ma io non la sento neanche.
 
Eccolo là. Mio padre sta cantando la sua canzone, un braccio attorno alle spalle di…
 
Che cosa??? Ancora tu???
 
Mi faccio ancora largo tra la piccola folla di avventori, piazzandomi di fronte al palco, gocciolante e sbalordita.
 
Nothing is gonna change my world…
 
Rimango in ascolto fino a che la canzone finisce.
Il pubblico applaude. Arriva perfino qualche fischio di approvazione, e papà finalmente mi nota. Mi saluta con un cenno della mano, gli occhi accesi di entusiasmo e la bocca che si allarga in un sorriso felice. Accanto a lui, Damon. Incrocio il suo sguardo troppo azzurro, smorzato da un che di indefinibile, che si abbassa sul pavimento per qualche breve istante prima di posarsi nel mio, accompagnandosi a quel sorriso a metà che ancora una volta mi confonde.
 
 
***
 
Un’ora dopo, mi chiudo la porta di casa dietro le spalle.
Le scarpe, ormai distrutte, finiscono subito per essere lanciate in un angolo. Appendo il cappotto e la borsa, corro in bagno a levarmi di dosso i vestiti fradici. Li lascio abbandonati sul pavimento e li rimpiazzo immediatamente col mio accappatoio di spugna.
Tamponandomi i capelli con un asciugamano, raggiungo la cucina per mettere la teiera sul fuoco. Accendo il forno e ci infilo una teglia di muffin preparati questa mattina, raccolgo dal tavolino le bottiglie vuote e appoggio i bicchieri nel lavandino.
 
Infine mi lascio cadere su una sedia.
Sono ancora frastornata. Dall’alcol in eccesso, dall’incidente, dalla corsa verso il pub, ma più di tutto da chi ci ho trovato dentro.
Gli occhi mi scivolano sul piccolo trofeo di latta che mio padre mi ha consegnato con un gesto solenne, conclusosi in un abbraccio soffocante durante il quale mi ha blaterato all’orecchio parole confuse sul viaggio a Disneyland che ha promesso di regalarmi.
Non ho detto nulla, limitandomi a stringerlo di più e osservando furtivamente il profilo di Damon, che se ne stava in disparte col suo immancabile bicchiere di bourbon in mano.
 
Stavo per avvicinarlo per chiedergli spiegazioni, ma prima che potessi farlo ecco arrivare Katherine. Si, proprio lei, la stronza. La gallina dalle zampe lunghe.
Sembrava parecchio agitata, ma non ho avuto voglia di approfondirne i motivi. Mi sono limitata a girare sui tacchi e uscire dal locale.
Miracolosamente sono riuscita a fermare al volo il taxi che mi ha riportata qui.
 
Tutto è bene quel che finisce bene.
Non si dice così?
Allora perché mi sento ancora sull’orlo di un baratro?
Mi stringo le braccia al petto, sbuffo e osservo la polvere sui mobili del mio salotto, fino a che lo sguardo non mi cade sullo schermo del Mac che se ne sta lì, (inutilmente) acceso da questa mattina. Mi torna in mente quel discorso idiota di Elijah sul tipo che scrisse nudo per sbloccarsi.
 
“Che stronzata!” esclamo.
 
Poi però…
 
Mi alzo in piedi lentamente, guardandomi intorno con circospezione come se qualcuno potesse saltar fuori da un armadio all’improvviso. E poi lo faccio. Mi sfilo l’accappatoio e lo poso sulla spalliera della sedia, rimanendo nuda come un verme al centro della stanza.
 
“Non è così male!” dico tra me e me, non senza un lieve compiacimento.
 
Raggiungo la scrivania e mi piazzo davanti al Mac, accarezzandone i tasti con le dita.
 
Capitolo 36
 
La mia mente è invasa dal solito, perenne, senso di vuoto cosmico.
 
“Ma vaff…”
 
“Elena… lo so che ci sei! Aprimi!”
 
La voce di Damon, accompagnata da un vigoroso bussare alla porta, mi fa sussultare.
 
“Che diavolo vuoi?” urlo. Guidata dall’istinto, tento di coprirmi con le mani, come se lui fosse in grado vedermi attraverso la barriera di legno dipinto di bianco.
 
“Devo parlarti! Apri questa stramaledetta porta!”
 
“V A T T E N E!”
 
Scatto in piedi con l’intento di afferrare l’accappatoio, ma proprio in quel momento la teiera, dimenticata sul fornello, inizia a fischiare furiosamente. La afferro per il manico, scordandomi di un piccolo dettaglio: è rovente.
 
“Dannazione!”
 
“Stai bene?”
 
“VAI VIA!” grido. Che dolore! Saltello da un piede all’altro e soffio sulla mano ustionata.
 
“Elena…”
 
La voce di Damon sembra pericolosamente nitida e vicina.
Dio, ti prego, fa che mi stia sbagliando.
Mi volto lentamente.
Lo trovo lì, impalato sulla porta aperta, con una mano ancora stretta alla maniglia e una chiave nell’altra.
Ci metto un attimo a focalizzarmi su quella faccia da stronzo impunito.
Un altro istante e realizzo con orrore che l’accappatoio non me lo sono ancora messo.
 
“Non credevo lo avrei mai detto in vita mia. Ma per il tuo bene, e soprattutto per il mio, sarà il caso che tu ti rivesta Elena.”
 
 
Damon
 
Ok, ok. Ho bisogno di un altro minuto per riprendere il controllo della situazione.
Da che ho messo piede qui dentro, ogni scenario possibile ha finito per capovolgersi.
 
Adesso io ed Elena ce ne stiamo qui, muti, a mangiucchiare un muffin ciascuno. Io seduto comodamente sul suo divano come se niente fosse, lei rannicchiata su una seggiola con gli occhi bassi e quella vestaglia rosa che di tanto in tanto si stringe addosso, come se fosse sufficiente a farmi dimenticare cosa nasconde lì sotto.
 
Questa è decisamente una serata di svolte.
Tanto per cominciare mi sono comportato da vero gentiluomo, ma non è solo questo il motivo.
 
Ho partecipato ad una gara di karaoke, vincendola.
Ho capito di essere uno stronzo.
Ho lasciato Katherine. Si, l’ho fatto davvero.
 
E per concludere ho attraversato la città, deciso a scusarmi con la donna che mi odia con tutta sé stessa e confessarle che, per tutto questo tempo, non ho fatto altro che tramare alle sue spalle al solo scopo di renderla infelice.
 
Ok, non è del tutto esatto. Non le ho chiesto scusa. Ancora no.
Ma non perché non voglia farlo.
Sto solo cercando di trovare le parole adatte per dirle che non mi importa se non scriverà quel romanzo. La lascio libera. Libera di essere felice, anche se questo significherà lasciarla andare via.
 
Mi chiedo diverse volte da che parte dovrei cominciare. Non sono bravo in questo genere di cose.
La spio in silenzio, senza farmi notare.
Indugio per un po’ sul quel suo broncio imbarazzato e sulle dita sottili che continuano a spostare una ciocca di capelli ancora bagnati che non vuole saperne di stare al proprio posto.
 
“Almeno potresti dirmi che sei venuto a fare.”
 
Quella sua richiesta, pronunciata con un tono ancora lievemente contrariato, interrompe la mia contemplazione silenziosa.
Sollevo gli occhi nei suoi, incrociandoli un secondo prima che si abbassino di nuovo sul pavimento.
È allora, in quel momento esatto, che una luce bianca cattura la mia attenzione.
No, non si tratta di un’illuminazione divina, ma dello schermo del MacBook che se ne sta lì,  sulla scrivania. Dannatamente invitante.
La pagina aperta su un documento word mi lampeggia negli occhi. Eccolo lì il mio fottuto romanzo!
Prima che Elena possa captare il mio sguardo e comprendere le mie intenzioni, lancio il muffin sul divano e mi precipito sulla scrivania ad agguantare il computer, mentre una raffica di pugni e altrettante imprecazioni mi raggiungono alle spalle.
 
“Damon! Non oserai…”
 
“Oh si. Certo che lo farò.”
 
Elena mi tira per la camicia, ma ormai è troppo tardi. Sono già assorto nella lettura del primo capitolo e non sto più ad ascoltare. Mi accorgo a malapena del sospiro con cui si arrende, raggomitolandosi in un angolo del divano senza mai staccare gli occhi dal mio viso.
 
***
 
“Cosa ne pensi?”
 
La domanda che aspettavo arriva appena dopo un quarto d’ora, che in ogni caso mi è bastato per leggere una decina di pagine.
 
Intercetto due grandi occhi spalancati e speranzosi. Completamente disarmanti.
Non ne ha proprio idea.
Non si rende conto di quanto sia valido ciò che ho appena letto. Altro che invasioni aliene del cazzo. Ma non glielo dirò, o almeno non ancora.
Sarebbe come ammettere che mi mancherebbe troppo.
Che in fondo, Stef e Sigmund Freud la sanno lunga sul mio conto.
Mi limito ad una smorfia di sufficienza e ad un distaccato “Non c’è male”, prima di battere sul divano col palmo della mano, invitandola ad avvicinarsi per ascoltare le mie correzioni.
 
 
Elena
 
“Non capisco. Che diavolo vuoi dire con questa frase?”
 
“Sei sempre il solito!”
 
Damon ride di gusto e io finisco per andargli dietro. Finisco anche per ricordarmi tutti i motivi per cui mi piaceva lavorare per lui. Tutti i motivi per cui mi piaceva… lui. Per cui mi piace.
Al punto che non mi sono nemmeno resa conto del tempo che è trascorso da quando ci siamo messi a correggere il mio romanzo.
 
“Dammi qua!”
 
Si allunga su di me per strapparmi il computer dalle mani e apportare l’ennesimo aggiustamento.
È allora che succede.
Che siamo troppo vicini, ancora una volta.
E io ritorno di colpo la ragazzina euforica e frastornata nel suo ufficio pieno di scartoffie, che ha appena visto realizzato il suo sogno. Ritorno la donna che qualche sera fa non riusciva a staccare gli occhi dai suoi finendo per combinare un casino.
Ed è tutto ancora lì. Dentro ai suoi occhi.
Anche se stavolta, lui non fa proprio niente. Non si muove, non dice una parola.
Continua soltanto a fissarmi e io, ancora una volta, dimentico come si fa a respirare.
Mi risveglio solo quando sento le dita intrecciarsi alle mie. Abbasso lo sguardo sulle nostre mani unite e all’improvviso la testa diventa pesante.
Distolgo lo sguardo. Il tappeto marroncino di Elijah è sempre lì, ai nostri piedi.
Troppe immagini negative mi tornano alla mente. Una su tutte: la gallina dalle gambe lunghe. Mi manca l’aria.
 
“No!”
 
Mi alzo di corsa, annaspo verso la portafinestra ed esco fuori, nel buio.
Il terrazzo è ancora fradicio di pioggia. Mi appoggio alla colonna del balcone nel vano tentativo di riprendermi, ma non riesco a fare a meno di avvertire la sua presenza alle mie spalle.
 
“No…” ripeto un’altra volta, senza nessuna convinzione.
 
“Perché no? Elena…”
 
Mannaggia a te Damon, e a quella voce che ti ritrovi!
Mi aggrappo a tutta la mia forza di volontà residua, ma non basta.
In un attimo torno sui miei passi.
Brucio la distanza che ci divide, intreccio le dita fra i suoi capelli e succede.
Succede che lo sto baciando.
E succede per davvero questa volta, non è che me lo stia sognando.
Perché, porca miseria, è molto meglio di come me lo sia mai immaginato.
 
Si l’ho fatto. L’ho già immaginato.
Una volta. Forse due.
 
Solo che quando l’ho fatto, non c’era lui che mi spingeva contro la colonna con quell’urgenza che sento anche mia. Non c’erano le sue mani a scivolarmi sotto la vestaglia e ricordarmi improvvisamente che non sto indossando la biancheria.
Non c’era questo gemito spezzato a sfuggirgli dalle labbra e nemmeno questa cosa che sta facendo con la lingua che…. Cristo Santo.
Solo quando abbandona le mie labbra per percorrere il profilo del mio mento e scendere giù, lungo il collo, ho la forza di riaprire gli occhi e inalare un po’ d’aria.
 
E poi, accade qualcos’altro.
Il rumore della serratura che scatta, la luce dell’ingresso che si accende illuminando un po’ di più anche il terrazzino. Qualcosa che si trascina sul pavimento.
Un’intuizione che diventa certezza poco a poco. È la voce di Elijah. Del mio fidanzato.
 
“Elena? Elena sei in casa?”
 
 
 
*********
Oh là! Ho scritto un bel poema e me ne sono fregata della lunghezza.
Non sia mai che pensiate che non vi ascolto :)
 
Buonasera!
Lasciatemi dire che sono fiera della mia velocità e di aver mantenuto la parola data per una volta.
Spero che il capitolo, pur così lungo, vi piaccia e non vi abbia annoiate.
Ci ho messo pure un vago sentore di 3x19 che non guasta mai, eheheheh. I bei tempi andati… a proposito, ipotizzo che la 6x06 sgretolerà i miei residui feelings. Voi che ne pensate?
Ora vi chiedo un po’ di pazienza, perché devo dedicarmi a un certo finale che ancora non ho terminato.
Un bacio a tutte e grazie sempre di cuore.
Il vostro sostegno è davvero importante e fondamentale per me! <3
 
Chiara
  
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