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Autore: BlueCandle    10/11/2014    5 recensioni
Persefone, unica figlia di Demetra. Persefone, e il suo destino. Il rapimento, il regno degli inferi. Ade.
Ma non solo.
Questa Persefone, la "mia" Persefone, non resterà una dolce, ingenua e innocente Kore per sempre, come lo resta invece la sua gemella antica di leggende e poemi. Qualcosa, alla fine, scatterà, come un processo di crescita.
Non c'è nulla di più potente di un piccolo cambiamento.
Qui vi propongo il mio, per la dolce Persefone.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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***

I suonatori d’arpa iniziano a pizzicare con maggiore intensità i loro strumenti, dettando poco a poco un ritmo più scandito. Un battito d’ali scherzoso, quasi beffardo, mentre i demoni aumentano la velocità delle loro danze leggiadre.

Tengo ancora il frutto tra le mani, la sua ruvidità ormai familiare, quasi confortante al mio tocco leggero. 

Mi ricorda che non devo mangiare. Ma non fa che rinnovare la fame che ormai si annida dentro di me.


Non mangerò.


Continuo ad osservare le danze. 

Non riesco a distoglierne gli occhi, tranne quando mi rendo conto che Ade continua a guardarmi, lo sguardo attento celato dall’espressione tranquilla. Si porta la mano al viso, reclina il volto di lato sfiorandosi la guancia con le dita bianche. 

Ricambio la sguardo, e mi perdo ancora una volta.


Continuo ad accarezzare il pomo scarlatto con le dita, e ad un certo punto mi fermo sulla sua cima, sul piccolo bocciolo che sembra sfidare il mondo, i petali stellati che si ripiegano dolcemente in un piccolo fiore, rosso come la fame che mi dilania. Rosso come me.

Ne sfioro la forma con gli occhi, le punte con le dita. Ha la forma di un fiore, ma è resistente. Un bocciolo rivestito e protetto da quella stessa armatura cremisi che ho continuato a sentire fino ad ora. Cremisi come un sacrificio compiuto e non ancora rivelato, come il sangue di un guerriero che combatte la sua ultima battaglia. 

Come il sangue che mi scorre impetuoso nelle vene, che inonda il mio cuore.

 

Ho fame.

 

Lo sfioro di nuovo, piano, ne saggio i contorni, ne tasto i petali.

Ecco, l’ho visto di nuovo. Al centro della corolla, uno spazio vuoto; riesco a sentirne i bordi con le dita. 

Sembra un’apertura, un ingresso. Una porta segreta verso un mondo piccolo, nascosto in profondità, popolato soltanto dai segreti silenziosi di quell’oscurità cremisi e profumata che lo abita.

Oso. Sfioro i bordi di quel piccolo ingresso con la punta delle dita, ne lambisco le ombre purpuree.

E morbidamente, come una fanciulla che si sveglia languidamente dal sonno, gli occhi ancora socchiusi, gli arti ancora intorpiditi che si distendono, il fiore sembra scuotersi morbidamente: i petali si stirano e si allungano, per poi aprirsi senza un rumore; come un bocciolo che si apre al richiamo del tiepido calore primaverile l’intera sfera pare schiudersi davanti ai miei occhi meravigliati.


È bellissimo. 

Su una superficie bianca come il latte sembrano incastonate tante piccole gemme, tonde, rosse e all’apparenza preziose come rubini, splendenti quanto il riflesso delle fiamme cremisi che riflettono su di esse le movenze fluide della propria luce calda.

Ma nonostante il nuovo aspetto della sfera sia di uno splendore innegabile, non è ciò che vedo, che mi fa dilatare le pupille, affilare l’attenzione. 


È il profumo. 

Se prima mi era parso quasi di poter sentire un’intera stagione, ora riesco a sentirne la consistenza sulla lingua.

Sfioro una gemma con le dita. E come in risposta al mio tocco, gocce rosse iniziano ad uscirne, la freschezza purpurea sulla mia pelle chiara. 

Il piccolo rubino ha sanguinato per me. 

Il suo succo cremisi mi scivola tra le dita, ora rosse come se ne avessi immerso le punte nel sangue scarlatto di una creatura vivente, di un guerriero che ha rinunciato alla sua vita per me. 

Come da una teca di cristallo, mi sembra di accorgermi che i suonatori hanno ancora una volta accelerato il ritmo, i passi felini dei demoni diventati rapidi e sfuggenti come piume che, agitate dal vento, non sembrano neanche sfiorare la terra.


So che Ade mi sta osservando. 

So che non ha mai smesso di farlo. Ma adesso non riesco a guardarlo.

Non quando rosso cremisi è tutto ciò che vedo, il profumo dolce e inebriante tutto ciò che sento, la fame che mi assorda tutto ciò che ho.

 

Tutto sfuma in quel colore avvolgente, la vista si annebbia nella luce cremisi, io non sono più... niente.

Vedo la mia stessa mano avvicinarsi al mio volto, le lacrime di sangue che tracciano scie scarlatte tra le dita, sulle mani, sulla pelle bianca dei miei polsi. 

 

Rosso. 

 

Rido, l'eco della mia voce divertita che mi riecheggia nella testa. Mi sento una regina, regina di quel rosso scarlatto che mi circonda e mi riempie, che mi pervade come fosse il mio stesso sangue, il mio stesso essere. 

Oh.

Tra le dita ora tengo tre perle, rosse e lucenti. Piano, con delicatezza, però, o ancora le gocce scarlatte giocheranno a rincorrersi, beffardi, sulla mia pelle bianca.

La musica ora è tornata, più forte che mai. 

E se per un attimo aveva dimenticato la fame, adesso non riesco a pensare ad altro.


Le tre piccole sfere rubino scivolano nel mio palmo, brillano, il loro succo profumato che continua a lasciare scie rosse sulla mia pelle.


                                                             
Le avvicino al volto

                                                                                                                          le arpe  

                                                                                                                                  un vortice di suono                

                                                             Ne inalo il profumo

                                                                     inebriante

                                                                                                                        i demoni ballano

                                                                                                                        tutti attorno a me

                                                                  sfioro il rosso

                                                                   con le labbra 

                                                                                                                     i tamburi

                                                                                                                     il mio cuore


 socchiudo

la bocca


e

 

 

 

Sono perduta.

Nel momento in cui deglutisco, mi rendo conto di quel che ho fatto. 

Alzo attonita lo sguardo, i miei occhi terrorizzati che cercano una via di fuga, qualsiasi cosa che riesca a provarmi che non ho appena fatto ciò che temo di aver fatto. 

Ma le mie mani sono rosse, tinte dal quel succo afrodisiaco, macchiate come quelle di un assassino, di un criminale. 

E quando incrocio lo sguardo di Ade, rimasto silente, le dita di ragno immobili su quella guancia di marmo, la sciocca speranza si spegne come una candela esposta al più gelido vento d’inverno. 

 

So che non avrei dovuto farlo. 

È una regola semplice, che ogni bambino conosce; che ogni essere, umano o divino, sa di dover rispettare. 

Il cibo dei morti è la condanna dei vivi. Una volta posate le labbra su un frutto dell’aldilà, della terra nascosta, parte di me non sarà… più.

Parte di me, realizzo con orrore, non è... già più.

 

Spingo violentemente la sedia all’indietro, e mi alzo di colpo; le gambe, le braccia, ogni cosa non fa che tremare.

Il respiro mi si mozza, mi afferro il volto con le mani e stringo le palpebre, aspettando il dolore...

che non arriva.

 

Riprendo a respirare, anche se con cautela. Tengo gli occhi chiusi, ma scosto le mani dal viso, allungo rigidamente le braccia lungo i fianchi.

Aspetto che da un momento all’altro un dolore sordo mi assalga, mi trafigga come molteplici lame affilate...

Ma sono dita morbide quelle che mi stringono gentilmente le spalle, un tocco delicato ma abbastanza deciso da tenermi ferma.

“Persefone”.

 

Apro gli occhi. 

Ade è di fronte a me. Mi guarda, gli occhi che sembrano riflessi dell’oscurità stessa, delle profondità più buie dell’oceano.

Riprendo a respirare.

Mi carezza piano la guancia, le dita fredde, il tocco leggero.

Deglutisco, ma non distolgo lo sguardo, né lo abbasso. 

 

Non ho paura. 

Voglio solo sapere. 

 

Lentamente, vedo le labbra sottili del dio della morte curvarsi in un velato sorriso, gentile, appena accennato. 

Ma sono i suoi occhi.

Fiamme nere, calde di un calore impossibile da sostenere. Bruciano con l’intensità di mille soli, eppure sono più neri della notte.

“Persefone”.

Non distolgo lo sguardo. Non muovo nemmeno un muscolo.

E allora, Ade parla ancora.

“…mia regina”.

 

 
  
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