13.
Durante
il viaggio di ritorno, sul treno che l’avrebbe riportato a Chestnut
Castle, rilesse tutti i nomi che aveva
trovato sui giornali posteriori all’edizione del 1890. Come aveva intuito, in
quella scuola c’erano stati altri casi di morte per suicidio, e i giornali,
seppur con la nota omertà che contraddistinguevano la stampa britannica verso i
fatti che coinvolgevano proprietà della Regina, di quegli eventi ne avevano riportato
l’essenziale.
Nel
1895, vale a dire cinque anni dopo l’incendio provocato dal suicida Elijah Pickford, era stato trovato in camera sua, suicida con lo
stesso modus, il giovane Robert Hayden, di appena diciotto anni.
Ed
era uno.
Due
anni dopo invece era toccato a Jack Knight, che si era reciso le vene nel bagno
del dormitorio, durante una lezione. Lui aveva solo diciassette anni.
Suo
coetaneo, ma con modus differente, era stato Thomas Xavier Rice, che si era
tolto la vita gettandosi dalla finestra del corridoio del terzo piano. Questo
era accaduto tre anni dopo.
Cinque
anni dopo invece, era toccato a Gerald Holmes, diciottenne anch’egli,
avvelenatosi con la stessa modalità che aveva scelto
Sean Cortland: bevendo un composto chimico venefico.
L’anno
successivo, durante la notte di Capodanno, era stata la volta del diciottenne
Justin Taylor, che si era gettato nella tromba delle scale dal terzo piano.
Nel 1909 ci fu un mistero nella tragedia.
Se tutti i precedenti casi erano stati archiviati dalla polizia come morte per
suicidio, questo invece presentava dei coni d’ombra. La vittima, Nathaniel Ellsworth, era stata
trovata distesa supina sul bordo del laghetto nel parco dell’Istituto, con la
testa immersa nell’acqua. Fin da principio la polizia aveva dubitato che si
trattasse di un suicidio, bensì di un omicidio. Il caso Ellsworth
quindi non era stato frettolosamente archiviato come suicidio.
E
poi, in ultimo, c’era stato il suicidio di Sean Cortland,
l’unico al quale Louis aveva assistito direttamente. Stando a quanto aveva
scoperto dai giornali dei vari anni, c’erano stati diversi suicidi, cominciando
dal 1890, anno in cui scoppiò un tragico incendio con una sola vittima, tal
Elijah Pickford.
Nella
sua mente cominciarono a insinuarsi delle ipotesi, che andavano dalla semplice
fatalità alla preordinazione occulta.
Da
bambino aveva sentito spesso storie riguardanti
fantasmi che infestavano case e manieri dell’antica Londra. Spesso erano storie
romantiche nella loro soprannaturalità, ma altrettanto spesso si trattava di
storie che facevano drizzare i capelli sulla testa: ad esempio Louis aveva
sentito di quest’ospedale che prima era una prigione dove venivano
eseguite condanne a morte, che a sentire i medici, era infestato dagli spettri
dei condannati che apparivano di notte, terrorizzando i pazienti. Storie alle
quali Louis aveva sempre creduto troppo poco per mancanza di validi elementi
probatori. Scrisse una nota sul taccuino: cercare
libri di occultismo e di parapsicologia.
Alzò
lo sguardo dal taccuino e guardò dal finestrino la campagna inglese immersa nel
paesaggio autunnale. Il cielo color piombo annunciava pioggia, ma per il
momento non era scesa nemmeno una goccia. C’era solo nebbia. Un gran nebbione
che si stava addensando sempre di più.
*****
Giunto
all’Istituto su una carrozza, scese velocemente e pagò quanto dovuto al
cocchiere, che ringraziò togliendosi il cappello e tornandosene da dove era
venuto.
In
quel momento Louis non aveva in mente nulla, solo di andarsene in camera a
pensare, quando a un tratto vide un volto che non aveva mai visto prima.
Nell’atrio,
seduto su una panca con un libro in mano, c’era un ragazzo. Aveva i capelli
ricci e le gambe molto lunghe, accavallate con compostezza mentre leggeva un
libro che Louis conosceva fin troppo bene: Anna
Karenina,
di Lev Tolstoj.
Nel
momento in cui si accorse di essere osservato, il ragazzo alzò lo sguardo,
incontrando quello di Louis. Gli occhi del ragazzo erano di un blu chiarissimo.
Il suo viso era perfetto, così come le sue labbra. In quel momento, Louis ebbe
una vampata di calore.
Arrossì
violentemente, mentre nel suo cervello ogni tentativo di proferire parola era fallace:
troppi pensieri in una volta sola, e troppi di questi non erano consoni a un
insegnante nei confronti di uno studente. Così, sfidando l’etichetta che imponeva
l’educazione di salutare, prese il corridoio verso il cortile e si avviò
velocemente verso i suoi appartamenti.
Fuori,
l’aria fresca sembrò riportarlo alla realtà. Quando arrivò al dormitorio, però,
trovò un altro ragazzo ad aspettarlo.
-
Niall! – esclamò, aprendo la porta a doppio
battente – Che cosa ci fai qui? –
Il
biondo professore di filosofia prima lo guardò e poi
si allontanò verso le scale.
-
Vieni – disse – voglio farti vedere una cosa. –
Senza
fare domande, Louis si avvicinò alle scale, salendo i gradini lentamente.
Niall stazionava
nel corridoio, aspettandolo come un cucciolo aspetta il proprio padrone.
-
Dove stai andando? –
Louis
salì gli ultimi gradini e Niall entrò in una stanza
lì accanto. Doveva essere la sua. Louis si avvicinò a quella porta, e
lentamente l’aprì, entrando.
La
stanza era immersa nel buio, eccezion fatta per alcuni spiragli di luce che
filtravano dalle imposte chiuse. Niall sembrava
essere scomparso, ma doveva essere lì da qualche parte.
-
Niall? – chiamò Louis, e nel buio vide
baluginare la luce di un fiammifero.
Poco
dopo apparve Niall che reggeva un lume. Solo che… non
aveva più i vestiti.
Il
giovane professore di filosofia si era denudato completamente, ed aveva posato il lume sulla scrivania, avvicinandosi
sempre di più a Louis.
Louis
chiuse la porta tenendo gli occhi fissi su quelli di Niall,
pensando che non aveva mai visto creatura più bella.
Niall prese una mano di
Louis e se la passò sul petto glabro. La sua pelle era morbida e priva
d’imperfezioni, tanto che Louis si eccitò visibilmente.
-
Ho paura a dormire da solo questa notte – disse Niall,
abbracciando Louis e baciandogli il collo all’altezza dell’orecchio sinistro
– Resteresti insieme a me? –
Louis
abbracciò a sua volta Niall, accarezzandogli i
capelli e combattendo contro la sua mano che voleva toccargli il sedere.
-
Sì – rispose soltanto, mentre Niall prendeva la
sua mano e se la portava sul sedere, dando modo a Louis di fare ciò che voleva.
*****
Nel
frattempo, chiuso nel suo ufficio, il Preside Umbridge
stava aggiornando un libretto… o meglio, un diario. Il diario che Louis aveva
visto quando era stato convocato a seguito della figuraccia con il professor
Baskerville. Nel caminetto, il fuoco scoppiettava, spandendo nell’aria
quell’odore di fumo che tanto piaceva a Umbridge.
Posò la penna, rilesse ciò che aveva scritto fino a quel momento e corrugò la
fronte, sospirando ampiamente.
Si
alzò dalla scrivania e andò verso una credenza che conteneva, fra i libri, un
vassoio di liquori. Il vecchio Umbridge non era
avvezzo a certi piaceri di bassa moralità, ma ogni tanto gli piaceva concedersi
un goccio di Whisky, stanti le sue origini scozzesi. Prese un bicchiere e si
versò due dita di liquore.
Il
dolce liquido fu una carezza per la sua gola infiammata, ma prima di tutto per
la sua mente troppo affaticata, nella quale girava, a ciclo continuo, una sola
domanda:
Quanti, ancora?
Camminò
verso il caminetto, dove erano posati alcuni oggetti, tra i quali un orologio,
una vecchia fotografia incorniciata e dei ninnoli di ottone. Appeso alla
parete, in modo da riflettere la luce, c’era uno specchio. Umbridge
vi si riflesse, guardandosi bene in faccia. Se l’avessero visto dei suoi
colleghi, la prima cosa che gli avrebbero detto
sarebbe sicuramente stata: Salve, vecchio
mio. Mi permettete di essere insolente? Vorrei dirvi che non avete una bella
cera. Vi converrebbe un po’ di riposo, se accettate il mio consiglio.
Rise
amaramente. Forse era l’unica cosa fare in una situazione come quella. C’era
soltanto da sperare che con Sean Cortland le cose
fossero finite lì, almeno per quell’anno.
E
poi?
E
poi… chissà. Forse avrebbe continuato a insegnare in quell’istituto, oppure si
sarebbe dato alla scrittura a tempo pieno. Ah, com’era ardua la scelta, in
bilico tra il mollare tutto domani stesso e continuare nella sua opera di
reggenza di un istituto, sopportandone i costi e traendone benefici, primo fra tutti quello di formare sempre più nuovi individui
capaci di portare avanti il nostro Glorioso paese.
Quella
era la sua missione. E l’avrebbe portata a termine, ad ogni costo.
Perso
nei suoi pensieri, a un tratto si sentì di non essere più solo nel suo ufficio.
Guardò nello specchio, accorgendosi che dietro di lui, di spalle, era presente
un ragazzo. Si girò di scatto, ma il ragazzo era ormai scomparso. Senza riflettere, Umbridge afferrò un
attizzatoio dal camino, brandendolo come una spada.
-
Chi c’è? Venite fuori! – disse, senza troppa convinzione.
Nessuna
risposta. Si guardò intorno, con il sudore che stava cominciando a imperlargli
la fronte.
Si
avvicinò velocemente alla porta, girando il pomello che comandava la chiusura
del lucchetto, sprangandosi dentro. Ansimava, mentre cercava di controllare le
sue emozioni. Andò all’armadietto dove teneva i liquori, sempre tenendo fisso lo sguardo sulla porta, e si versò altre due
dita di Whisky, che ingollò molto velocemente. Il liquore gli
bruciò la gola e lo stomaco, ma lo stordì abbastanza da mantenergli viva quel
poco di sanità mentale che gli era rimasta.
Barcollando,
andò alla finestra, poggiando una mano sul vetro. Vide il suo volto nel
riflesso, ma poi questo cambiò e assunse le fattezze di un ragazzo con il viso
sfigurato, che gli urlò in faccia.
Umbridge saltò dalla paura,
barcollando all’indietro e inciampando sui suoi stessi piedi. Il bicchiere che
stringeva nella mano destra andò a versare il suo contenuto sul tappeto,
spandendo nell’aria un gradevole odore di Whisky. Umbridge
si girò sul fianco, tenendosi le mani sulla zazzera di capelli bianchi,
cercando di proteggersi da quelle visioni.
-
No… andatevene. Andatevene via! – gemette, tappandosi le orecchie.
Non
serviva a nulla.
I
ragazzi avevano cominciato a parlare, e Umbridge non
sapeva quando avrebbero smesso.