Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: khyhan    26/12/2014    0 recensioni
– Ci ritroveremo. – urlò. – E ti amerò di nuovo, te lo prometto. Nella prossima vita. In cento prossime vite. Ogni volta mi innamorerò di nuovo di te. Tu sei mia e il mio cuore è tuo.
Settantotto sono le carte dei Tarocchi, settantotto sono le persone che in tempi antichi hanno ricevuto dono di una magia che è insieme una benedizione e una maledizione, perché con il potere cresce anche il seme della follia.
Nel momento in cui Verity abbandona Roma per seguire un misterioso biglietto trovato accanto a cadavere del suo ragazzo non sapeva che ad attenderla ci sarebbe stato il suo destino. Michael è un ladro che non crede in nessuno a parte se stesso ed è perseguitato dal ricordo del suo amore che ha perduto mille volte. Christian è un medico che ha trovato il senso della vita tra i bassifondi di Calcutta ed è costretto ad abbandonare i suoi principi per salvare centinaia di vite.
La follia e il destino hanno voluto che si incontrassero e finissero ciò che era cominciato più di duemila anni prima. Vendetta e potere scorrono nelle loro vene.
La tragedia e l'amore si intrecciano tra passato e futuro.
E il cerchio sta per chiudersi.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
3.4 La ragazza dietro l'obiettivo

III – L’Imperatrice

La Ragazza dietro l’Obiettivo

 

Villa Courteney, Dover. 16 Agosto 2011

 

Era sera e Verity stava ancora guardando la valigia spalancata sul letto cercando di capire cosa metterci dentro.

A pranzo Christian le aveva detto che sarebbero partiti alla volta dell’India nel giro di un paio di giorni e aveva preparato una trappola per Michael. Non era sceso nei particolari davanti a Nyvie, ma le aveva chiesto di preparare le valigie mentre lui organizzava le ultime cose e prenotava l’albergo a Calcutta.

Da quando aveva saputo del viaggio, Nyvie non stava più nella pelle e aveva iniziato a parlare di sua madre e dei suoi fratellini, spiegandole i giochi che facevano, i posti che avevano visto della città e il mercato dei fiori dove voleva portarla.

Ora la bambina stava stesa a pancia in giù sul parquet mentre sfogliava un libro illustrato sugli animali del mondo.

– Voglio vedere anche questo! – esclamò mostrandole la foto di un ippopotamo.

Verity sorrise in risposta. Aveva visto un ippopotamo allo zoo e la mole dell’animale le aveva fatto impressione mentre avanzava verso la pozza d’acqua. Quel giorno si era portata dietro la Nikon che Alessio e i suoi amici le avevano regalato per il suo compleanno in sostituzione di quella vecchia a cui era affezionata, ma che non poteva più usare perché i rullini erano sempre più introvabili.

Scese dal letto, abbandonato la valigia e si sedette a gambe incrociate accanto a Nyvie. – Potremmo andare allo zoo se vederli se vuoi. Sai dove vivono?

La bambina scosse la testa facendo danzare le ciocche nere, ascoltandola con attenzione come faceva con Christian quando le insegnava qualcosa. Verity non era un’esperta di geografia, anzi se poteva la evitava come la peste, ma poteva trasmettere anche lei qualcosa a quella bambina. Le prese il libro dalle mani e sfogliò le figure con calma, mostrandole delle foto dell’Africa centrale. Mentre parlava sentiva dentro di sé l’eco di una voce del passato. Aveva la consapevolezza che quella bestia fosse vissuta in tempi remoti anche nella valle del Nilo, spingendosi fino a Tebe e nel delta. Non sapeva da dove arrivasse quella conoscenza, ma le diete una stretta allo stomaco e un atroce mal di testa che la costrinse ad allontanare il libro da sé.

– Scusa, – disse alzandosi per recuperare una bottiglia di acqua gelida dal frigorifero – credo che sia la stanchezza.

Incrociò gli occhi verdi di Nyvie, che risaltavano sotto i capelli neri e la pelle olivastra e le vennero le lacrime agli occhi senza che potesse impedirle. Le tempie pulsavano mentre si rendeva conto che aveva già conosciuto qualcuno con una fisionomia simile a Nyvie e il ricordo stava premendo in tutti gli angoli della mente per uscire. Capelli scuri e crespi e un paio di vividi occhi verdi. Cadde in ginocchio, soccorsa immediatamente dalla bambina che la guardava con apprensione.

– Stai male? – le chiese Nyvie.

Le parlava in modo semplice e diretto e i ruoli si invertirono: erano Nyvie che si stava occupando di lei con una maturità e una dolcezza che non si direbbe da una bambina di nove anni.

Strinse la piccola tra le braccia, un po’ per rassicurarla, un po’ per il bisogno di sentire qualcuno vicino e trovare un punto fermo nel mare di sentimenti che la stavano sommergendo. – Mi dispiace – mormorò. Non sapeva a chi lo stesse dicendo, se a Nyvie per averla spaventata o alla persona del ricordo che non riaffiorava. – Mi dispiace tanto.

– Non devi preoccupare. Va tutto bene.

Verity annuì asciugandosi le lacrime con il dorso della mano. Avrebbe voluto mettere la bambina a letto e cercare di darsi un contegno, invece non riusciva a muoversi paralizzata da alcuni sentimenti che riaffioravano sempre più forti senza riuscire ad associare un nome o un volto alla persona verso cui erano diretti.

Si ritrovò seduta con Nyvie in braccio mentre dava voce ai pensieri che non smettevano di tormentarla. – Una volta, molti anni fa, c’erano un ragazzo e una ragazza che si conoscevano fin da bambini. Erano cresciuti insieme perché il fratello maggiore della ragazza era il migliore amico del bambino.

Nyvie la scrutò sottecchi, per poi sistemarsi meglio contro di lei. – Hanno un nome?

I pensieri di Verity vagarono nell’oscura confusione che c’era nella sua testa fino a trovare una risposta. – Lei si chiamava Emily e suo fratello maggiore Thomas, mentre lui... – una fitta più forte delle altre la costrinse a lasciar stare, avvertendola che se avesse scavato troppo avrebbe avvertito molto più dolore. – Lui non lo ricordo – mentì.

– Allora Christian – suggerì Nyvie animandosi di colpo. – Possiamo dare questo nome fino a che ricordi.

– Sì.

Chiamarlo Christian le suonava sbagliato, come una nota stonata in una melodia malinconica ma il vero nome continuava a sfuggirle. – Emily e... Christian si sposarono da giovani. Lei aveva appena quindici anni quando suo fratello maggiore, diventato capo villaggio da poco, intrecciò le loro mani davanti a tutti. Lui era diventato un uomo, uccidendo un cervo durante una battuta di caccia dimostrando così di essere in grado di prendersi cura di una famiglia. – Verity sorrise triste. Poteva rivivere tutti gli eventi, quasi tracciasse dei puntini per formare un disegno, ma non ricordava il viso, il nome o l’odore del ragazzo. La sua figura nella mente era fatta di puro fumo. – Ma lei sapeva bene che Christian – ogni volta che era costretta a pronunciarne il nome si sentiva male. Non era il suo, non era il nome che cercava, ma se non usava quello ci sarebbe stato il vuoto. – amava imparare. Non era portato per cose come la caccia, era curioso e intelligente. Emily adorava quel tratto del suo carattere. Avevano passato ore intere nei boschi con lui mentre si appostava per seguire gli animali o studiava le piante.

– Erano felici di stare insieme? – domandò Nyvie contro il suo petto.

– Sì. Emily si sentiva la donna più felice del mondo. Il giorno del suo matrimonio avrebbe giurato che il sole stesso stesse baciando le loro mani intrecciate. La loro vita era dura, ma erano felici. Christian aiutò Thomas a costruire un nuovo granaio e teneva il conto per il villaggio mentre Emily imparò da lui e dalla guaritrice del villaggio l’uso delle piante medicinali e si rese utile aiutando gli ammalati. Quando nacque la loro prima bambina niente poteva renderli più felici. Stavano insieme, e sapevano che erano fatti l’uno per l’altra, nati per trovarsi e amarsi.

Nyvie sbadigliò e si accoccolò meglio mentre Verity continuava a raccontare aneddoti sulla storia di Emily e di come lui, l’avesse sempre protetta o l’avesse afferrata quando era scivolata da una roccia in riva al fiume.

La bambina si addormentò prima che Verity potesse arrivare alla parte tragica di quella storia, quando Emily, sola in casa a parte i due bambini, aprì la porta a una persona che aveva sempre considerata amica e che poi la uccise. Il ricordo di quel momento si affievolì mentre riviveva sulla pelle il freddo del pugnale di Lucas e le urla dei bambini, poi il ricordo tornò forte ma da un’altra prospettiva. Vedeva il cadavere di Emily sul pavimento, riverso in una pozza di sangue e le sue mani infantili imbrattate fino ai polsi mentre la scuoteva, chiedendole implorante di muoversi.

La mente di Verity era alla deriva, come se fosse animata di vita propria e non riusciva fermarla. Quello che stava vivendo era il ricordo di Awena, la figlia di Emily. Aveva la consapevolezza di avere accanto il suo fratellino e di averlo incitato a correre per andare dallo zio Thomas e chiamare suo padre mentre Lucas, che aveva considerato come un secondo zio, fuggiva abbandonando dietro di sé Emily e il coltello imbrattato di sangue. Si sentì tirare indietro, mentre suo padre si chinava sul corpo della mamma e le ripuliva il viso con delicatezza, pregandola di tornare indietro e di non andare di nuovo dove lui non poteva seguirla.

– Perché sei fatto di fumo? – domandò Verity tra i singhiozzi. – Perché sei un’ombra e non ho il ricordo della tua voce? Se sei un fantasma, perché mi fai del male?

Nyvie mormorò qualcosa nel suo sonno innocente e allegro e Verity si costrinse a stare in silenzio premendosi forte il dorso della mano contro le labbra. Chiuse gli occhi e lasciò che le memorie terminassero di torturarla mentre Awena guardava suo padre il giorno del funerale. Era trattenuto a stento dai membri del villaggio per impedire che si gettasse nelle fiamme che consumavano il catafalco di Emily. Quando non rimase altro che cenere al vento di Emily, suo padre era accasciato a terra privo di forze a fissare le braci che avevano consumato il corpo. Su di esse aveva giurato che si sarebbe vendicato. Da quel giorno, Awena aveva visto suo padre sempre di meno, immerso com'era nei suoi propositi di vendetta, fino a sparire del tutto quando lei si era sposata.

Tornò in se stessa con Nyvie tra le braccia che dormiva tranquilla. La bambina era sempre così, metteva tutta se stessa nelle attività della giornata fino ad addormentarsi in pochi minuti.

Con gli occhi rossi, Verity si alzò piano e prese la piccola in braccio per portarla nella sua camera.

Aveva bisogno di stare da sola e riordinare le idee, inoltre, non voleva svegliare la bambina.

Incrociò Christian nel corridoio che si muoveva nella sua direzione con i soli pantaloni del pigiama addosso.

– Nyvie era con te? – sussurrò allungando le mani per togliergliela dalle braccia. – Ero passato per camera sua ad assicurarmi che fosse a letto.

C’era qualcosa di possessivo nel modo in cui gliela tolse. Anche se i toni erano gentili, gli occhi blu di Christian la fulminarono, come se Verity gli avesse sottratto qualcosa di prezioso.

– Stava sfogliando un libro in camera mia – rispose Verity cercando di non dare peso a quella sensazione. – Si è addormentata mentre gli raccontavo una storia.

Christian guardò prima il sonno sereno di Nyvie e poi gli occhi arrossati di Verity e la gelosia che lei aveva notato, sparì.

– Non hai una bella cera – le disse il ragazzo. – Metto a letto Nyvie e poi parliamo.

Verity lo seguì in silenzio, ancora persa nel ricordo che aveva rivissuto. Cos’era che le faceva più male? Aver appena sentito la propria morte o sapere che quel viso rimaneva un’ombra? Il suo poteva essere un sogno ad occhi aperta, una fantasticheria come quelle che aveva fatto nelle sonnacchiose domeniche pomeriggio dopo aver appena finito un libro o visto un film avvincente, eppure quei sentimenti non andavano via. Erano suoi, appartenevano a lei. Le batteva il cuore quando percepiva che un paio di braccia forti l’avevano stretta e una schiena larga l’aveva sostenuta e la sua mente deviava sempre verso Michael e quel sorriso aperto che un paio di volte era apparso sul suo viso. Conosceva nel profondo quel modo di sorridere, ma come provava a frugare nei suoi ricordi, quello spariva. Era come guardare qualcosa con la coda dell’occhio e poi voltarsi per mettere a fuoco e scoprire che era stato tutto un gioco di riflessi.

Studiò Christian mentre rimboccava il lenzuolo leggero a Nyvie e le dava un bacio sulla fronte per poi controllare che la zanzariera fosse ben chiusa. C’era ancora un mezzo sorriso sul volto del ragazzo nel momento in cui si era girato verso di lei e le aveva fatto cenno di precederlo fuori.

– Ti comporti come un padre nei suoi confronti – disse quando lui si chiuse la porta della camera di Nyvie alle spalle.

– È la persona più importante per me. Non hai idea di cosa farei pur di vederla sorridere.

Verity non voleva ammetterlo ad alta voce, ma c’era qualcosa di malsano nell’attaccamento che Christian aveva per Nyvie. Controllava sempre dove fosse, cosa stesse facendo e che nulla potesse turbare la sua pace. Quel comportamento le faceva paura. Quando era stata sopraffatta dal dolore Christian non aveva esitato due volte a immobilizzarla e metterla a tacere pur di evitare che Nyvie si preoccupasse per lei, ma nonostante quell'episodio l'avesse spaventata nel suo cuore sentiva dell’affetto nei confronti del ragazzo. Avevano condiviso un passato e ora che lo guardava in faccia vedeva che in Christian c’era Thomas, il fratello maggiore di Emily.

Gli accarezzò una guancia mentre i tratti di quello che era stato suo fratello si confusero con Christian. – Thomas?

Le sorrise con dolcezza mentre le toglieva la mano dal volto. Aveva anche lui gli occhi lucidi. – Sono passati più di millecinquecento anni. Non sono più tuo fratello, Emily.

Aveva parlato direttamente alla memoria della ragazza che prima era riaffiorata nella mente di Verity. La sentì agitarsi come se Emily fosse ancora viva, come se i suoi pensieri, sentimenti ed emozioni non fossero mai morti ma fossero lì, in attesa di tornare alla luce.

– Sorellina, – mormorò Christian appoggiando la fronte contro la sua – mi sei mancata. Ogni giorno dalla tua morte. Ogni respiro e ogni minuto che ho vissuto dopo. – Era Christian e allo stesso Thomas che le parlavano e lei rispondeva come Verity e come Emily a quelle parole.

Come aveva fatto a non vedere quello che un tempo era stato suo fratello dietro il volto di Christian?

Le diete un bacio sulla guancia, uno di quelli dolci e tristi che Christian riservava a Nyvie, asciugandole una lacrima. – Volevo che ti ricordassi di me, cosa fossi stato per te, Verity. Le memorie stanno vivendo dentro di te ma non lasciare che ti dominino.

Appoggiò un’ultima volta le labbra contro la sua fronte rispondendo al richiamo di due fratelli troppo a lungo separati dal tempo e dalla morte ed entrambi chiusero gli occhi concedendo un ultimo minuto a Thomas ed Emily per dirsi addio.

Quando incrociò di nuovo il suo sguardo, Verity vedeva solo Christian in quegli occhi blu. – Cos’era quello? – domandò asciugandosi il viso.

– L’eco di un bisogno – rispose Christian. – Sentimenti e memorie che vivono dentro di noi. Stai recuperando la memoria delle tue vita passate con il passare dei giorni. Alcune personalità più forti si fanno vive anche mentre sei sveglia. In presenza di persone che per noi hanno significato qualcosa alcune vite passate emergono in tutta la loro forza  prendendo possesso di noi.

Mentre glielo spiegava Christian si morse il labbro inferiore e Verity colse qualcosa in quel gesto.

– Cosa mi stai nascondendo?

– Cosa non capisco, vorrai dire. La prima volta che ti ho vista ho capito quasi subito chi tu fossi. Quando ti scansai la canottiera e vidi il marchio sul tuo cuore non aveva provato nulla. Sapevo che eri stata Emily. Razionalmente parlando lo sapevo, ma solo stasera ho avvertito Thomas farsi avanti e riconoscere sua sorella.

– Significa che prima di vedere Thomas in te, tu non avevi percepito Emily?

Christian alzò le spalle. – L’avevo vista nei sogni. Sapevo chi era e conoscevo l’affetto che Thomas aveva provato per lei, ma non ne ero stato turbato come stasera. Non ero mai stato emotivamente coinvolto dai ricordi mentre ero sveglio. – meditò sulle sue stesse parole mentre la sospingeva verso il corridoio da cui erano arrivati. – Cosa hai provato vedendo Dubois la prima volta?

Al ricordo del modo in cui si era comportato al negozio, Verity si infuriò. – Li mortacci sua! Se avessi potuto, lo avrei picchiato. Un maleducato! Un arrogante! Uno schifoso, lurido bastardo.

– Credo che tu abbia reso chiaro il concetto. – Christian rise e anche a Verity scappò una risata per quell’uscita. Le mancava il dialetto di Roma, quella parlata un po’ burbera ma solare che la faceva sentire sempre a casa.

– Penso, – disse Christian stiracchiandosi – che per provare ciò che abbiamo vissuto prima ci debba essere una reciproca riconoscenza. Tu non hai riconosciuto Dubois e me a Parigi, vero?

Verity scosse la testa e fissò il petto nudo di Christian. C’erano delle parole nere tatuate seguendo la linea delle costole come lei avrebbe fatto con le righe di un quaderno. Non riconosceva l’alfabeto, anche se c’era qualcosa di familiare in esso, lo aveva già visto a Roma e al Louvre. – E quello? – domandò curiosa.

– Non riesci a seguire il filo di un discorso serio? – rispose Christian guardandosi il petto.

– Mai stata capace. Anche a Roma dicevano sempre che saltavo di palo in frasca. Ale per esempio... – si bloccò con il dolore forte come una staffilata pensando al suo ragazzo e dovette trattenere la mano per impedire che corresse al collo a cercare l’anello.

Christian si accorse di quel movimento involontario e le prese la mano, sostenendola con la propria. – Il tatuaggio che ho addosso è il giuramento di Ippocrate scritto in greco antico. – le spiegò con dolcezza assecondando il suo bisogno di cambiare argomento. – Quelle che vedi più marcate sono quelle che mi piacciono di più, che mi ricordano chi dovrei essere. – Chiuse gli occhi e iniziò a recitare: Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio; mi asterrò dal recar danno e offesa. Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo. Ciò che io possa vedere o sentire durante il mio esercizio o anche fuori dell'esercizio sulla vita degli uomini tacerò ciò che non è necessario sia divulgato, ritenendo come un segreto cose simili. E a me, dunque, che adempio un tale giuramento e non lo calpesto, sia concesso di godere della vita e dell'arte, onorato degli uomini tutti per sempre; mi accada il contrario se lo violo e se spergiuro. – inspirò forte, riprendendo fiato e aprì gli occhi con la luce della determinazione negli occhi. – Che mi accada il contrario se lo violo e se spergiuro. – ripeté sottovoce.

– È bello. – disse Verity osservando le linee nere. Piccole frasi, scritte in una lingua che non capiva ma che avevano tanta forza al loro interno. – Le hai mai pronunciate?

– I medici fanno un giuramento una volta laureati, ma queste le ho pronunciate il giorno che Nyvie mi ha salvato. Il giuramento dei medici non aveva avuto alcun valore per me fino a quel momento. Pronunciando il giuramento di Ippocrate per conto mio, con solo Dio a essermi testimone, ho deciso di ricominciare da capo ed essere un nuovo medico.

Verity non sapeva cosa dire. Christian l’aveva impressionata. Si sentiva piccola sotto il suo sguardo. Era questo che intendeva Mikelich quando le aveva detto che Christian aveva bisogno di dimostrare qualcosa? Mostrare a se stesso e agli altri che era cambiato facendo gesti estremi come quel tatuaggio e i regali che le faceva?

Percorse le parole nere con due dita seguendo le linee delle costole che sentiva sotto i muscoli del ragazzo, che si irrigidirono al suo tocco. – Sei coraggioso.

– Per un tatuaggio?

– Per ciò che rappresenta questo tatuaggio. Hai avuto il coraggio di cambiare. Non devi fare regali costosi per dimostrare di non essere più quello di allora, quando ti prendi cura degli altri la gente lo nota.

Christian coprì la mano di Verity con la sua. – Tu lo hai visto?

Annuì. – Quando ti prendi cura di Nyvie, quando mi hai accolto nella tua casa trattandomi come un’ospite e non una prigioniera, quando mi hai protetto da te stesso. Non hai bisogno di fare regali costosi per mostrare che sei una brava persona, lo sei. Sono i gesti istintivi che fai a parlare per te.

Gli occhi blu di Christian si oscurarono e le dita si chiusero sulle sue con forza, facendole male, ma prima che la protesta lasciasse le sue labbra la presa si rilassò e il ragazzo le sorrise. – Mi dispiace.

Lo guardò senza capire, se non fosse per il dolore pulsante che aveva la mano, avrebbe giurato di aver solo immaginato l’ombra che era passata negli occhi del ragazzo. La stessa ombra che aveva visto quando lui l’aveva spinta via nel suo studio, ordinandole di allontanarsi. – Mi passerà presto. – mormorò massaggiandosi le dita. – Hai solo stretto un po’ troppo.

Sperava che lui la correggesse e le spiegasse cosa gli stesse passando per la testa, invece non aggiunse nulla che potesse chiarire gli sbalzi di umore che aveva negli ultimi giorni. – Vieni, – le disse facendole cenno di seguirlo – ti accompagno in camera tua. Hai fatto i bagagli?

– Sono in alto mare. Non ho idea di cosa metterci dentro a parte lo spazzolino e il dentifricio.

Avrebbe voluto indagare oltre su ciò che gli stava succedendo, ma il ragazzo non aveva voglia di parlarne e Verity non voleva insistere oltre. Conosceva i sentimenti di chi era spinto al limite da domande troppo personali. La sensazione di essere sotto una lente di ingrandimento, sempre osservato, soppesato e giudicato.

Se Christian non era pronto a parlarne, lei non avrebbe insistito.

Si affidò all’esperienza sul clima indiano di Chris per selezionare i vestiti e le scarpe, mentre lei sistemava con cura gli effetti personali che si era portata da Parigi. Poteva rinunciare al vestiario, alle lenzuola comode che aveva imparato ad apprezzare e al bagno personale senza voltarsi indietro due volte, ma non poteva lasciare alla villa il suo prezioso album di foto e i suoi libri preferiti. Quando li mise dentro con delicatezza, facendo attenzione che le pagine non si rovinassero e le sovracopertine non avessero pieghe, Christian si accorse della loro presenza.

– Harry Potter? – domandò con un sorriso un po’ canzonario.

Da brava Potterhead dovette resistere all’impulso di abbracciare i libri come se fossero i suoi figli primogeniti. Verity aveva ventidue anni ed era cresciuta con Harry attendendo con ansia l’uscita del libro successivo ed era fermamente convinta che il gufo con la sua lettera per Hogwarts si fosse perso. Quando lo aveva detto ad Alessio lui aveva primo riso, poi era impallidito sotto il suo sguardo furioso. Harry era stato un compagno fedele che l’aveva accompagnata nei momenti più soli e malinconici della sua vita, perfino Ale aveva dovuto arrendersi di fronte all’amore che lei provava per quei libri.

– Problemi? – replicò sul piede di guerra.

– Nessuno. Li ho anche io. Sono in camera mia.

Verity lo guardò guardinga, non del tutto sicura che fosse serio. La gente che parlava di Harry Potter solo perché aveva visto i film era ovunque. – Che casa?

– Se potessi scegliere andrei a Corvonero, ma non ho idea di dove mi metterebbe il Cappello Parlante. Chissà che canzone canterebbe prima che la McGranitt ci chiami per mettercelo in testa? Ci hai pensato?

Per poco non lo abbracciò. Alessio non aveva letto i libri, aveva visto i film con lei ma non aveva mai aperto nemmeno una pagina della serie.

Solo a gennaio di qualche anno prima, in concomitanza dell’uscita dell’ultimo libro, Alessio l’aveva accompagnata in libreria e anziché prendere il settimo volume, le aveva preso il cofanetto con tutti i libri. Aveva pianto quando lui aveva appoggiato sulla cassa l’edizione speciale con il motto di Hogwarts sotto le sovracopertine. Aveva capito quanto lui la conoscesse e l’amasse nonostante lei si comportasse come una matta nei momenti più impensati e stesse sveglia ore e ore a incoraggiare Harry in piena notte, incitandolo a non arrendersi.

Si sedette a bordo letto accarezzando il titolo dei libri. – Non potrei separarmi da loro. Avevo iniziato a leggerli prendendoli in prestito in biblioteca. Quando uscì il quinto c’era una fila di prenotazioni lunghissima per poterli leggere. Dopo una settimana che lo avevo, la bibliotecaria mi chiamò per chiedermi se potevo riportarlo non appena lo finivo perché c’erano un sacco di ragazzi che lo chiedevano. Fu Ale a regalarmi tutti e sette i libri. – disse con gli occhi lucidi. Era un periodo che non faceva altro che piangere e iniziava a vergognarsi di essere tanto debole da non riuscire a sostenere una conversazione senza finire in lacrime. – Non avevo mai preso in considerazione di possederli tutti. Leggere è un hobby costoso e quindi...

– A te piace leggere? – chiese Christian sedendosi accanto a lei.

– Buffo, vero? – disse asciugandosi gli occhi. – Ho iniziato con una copia dell’Isola del tesoro in offerta. Me l’aveva presa mamma appena trasferite a Roma, pensava che leggendo in italiano avrei imparato in fretta la lingua. E aveva ragione.

Christian le passò una mano intorno alle spalle. – Ti manca tua madre?

– Se dicessi di no, sarei una pessima figlia? Mia madre beveva e si rovinava la vita, spesso arrivavamo a fine mese con una scatoletta di tonno da dividere perché spendeva tutto in alcol. Sono andata via appena ho potuto e l’ho lasciata da sola per poter avere una vita mia. Non ho rimpianto nemmeno una volta di essermene andata nonostante fosse mia madre. – guardò gli oggetti nella valigia spalancata, persa. – Ciò che vedi è quello che possiedo. Quello che mi ha regalato il ragazzo che amo e quello che ho ottenuto con le mie forze. Ciò che mi manca è la mia vita a Roma, la mia routine, la mia doccia con le manopole invertite e un piccolo scaffale con quattro libri in croce. Era un vita perfetta perché ero felice. – singhiozzò tirando su con il naso. – Ero felice nell’alzarmi la mattina e andare a fare un giro al mercato con una vecchia macchina fotografica. Ero felice quando servivo cappuccini e pulivo i pavimenti del bar. Avevo tutto ciò di cui avevo bisogno.

Con dolcezza, Christian prese il vecchio album che Verity aveva messo in borsa e iniziò a sfogliarlo. – Questo che posto è?

– Una veduta di Roma dalla terrazza del Pincio. Vedi quella? È la cupola di San Pietro. Non so nemmeno perché l’ho fatta, potevo andare alla terrazza ogni volta che volevo e vedere il panorama. Mi piaceva la luce che c’era quel giorno e il vento freddo che scuoteva gli alberi. – parlare l’aiutava a calmarsi. Non sapeva perché fosse scoppiata in quel modo, se era a causa della tensione degli ultimi giorni o degli incubi che non la lasciavano in pace. Passò alla foto successiva con un sorriso triste in volto. – Il Giardino del Lago e il Tempietto di Esculapio a Villa Borghese. Aveva appena finito di piovere e avevo evitato il diluvio per pura fortuna. Non avevo nemmeno l’ombrello quel giorno.

Christian le indicò la foto di una donna con dei fiori in mano e a Verity sfuggì una risata. – Non so perché l’ho fatta. Eravamo fuori dal Mercato dei Fiori di via Trionfale e lei era lì, con quel mazzo di fiori in mano che aspettava l’autobus. Aveva un’aria così serena in mezzo al caos che è Roma che le ho fatto una foto. Mi immagino, non so, che abbia voluto decorare un vaso che le era stato regalato o boh, semplicemente che le piacessero e che li avesse comprati. Questa qui sotto, – disse indicando una coppia di turisti che prendevano un caffè sulle poltroncine esterne di un bar – l’ho scattata in piazza Navona. Era estate e come al solito la città era assediata di turisti da tutto il mondo. Mi facevano ridere perché guardavano le fontane della piazza e indicavano le cartine che tenevano in mano, così gliel’ho fatta. Questa invece l’ho scattata subito dopo. – proseguì indicando un bambino che fissava a bocca aperta una vetrina. – All’angolo di piazza Navona c’è un negozio di giocattoli. Avevano in vetrina il peluche di una tigre a grandezza naturale, credo di essere rimasta a bocca aperta anche io in quel momento. Era stupenda.

Tra le braccia di Christian si sentiva meglio e riusciva a parlare di tutti quei piccoli momenti che aveva catturato nella quotidianità di Roma. La gente assiepata sui marciapiedi in attesa del momento ideale per attraversare in mezzo al traffico. Amici e colleghi con un supplì e un trancio di pizza in mano. Le lunga coda che girava dietro l’Arco di Trionfo per visitare il Colosseo e i desideri affidati alle monete sul fondo di Fontana di Trevi.

– Via Appia Antica. – disse mostrandogli la foto della strada lastricata e circondata da pini marittimi. – Era una domenica, o un festivo, non ricordo ed eravamo andati a fare un giro perché avevo dei giorni di ferie. Ho bloccato tutti pur di fare questa foto.

– Non ti piace far mettere in posa la gente?

– Lo trovo ridicolo. La gente che è pensierosa o fa qualcosa è affascinante. Il paesaggio è affascinante. È un momento che non ricapiterà più, una cosa immortalata nel tempo. Domani quella gente farà altre cose e quel paesaggio sarà diverso. Non grandi cose, magari cambierà il gioco di luci o ci saranno le nuvole o sarà appassito un fiore e sbocciato un altro. Non mi piace fotografare la gente in posa, è una cosa costruita e la sento finta.

– E questa? – domandò Christian indicando la foto di un ragazzo con la sciarpa della Roma attorno al collo mentre esultava. Lo aveva immortalato nell’attimo in cui saltava in piedi, rovesciando la sedia e urlava per la felicità. Negli ultimi minuti della partita aveva tirato fuori la sua fedele Nikon e l’aveva regolata in base alla luce del locale pur di immortalarlo. La gioia dipinta sul suo volto scaldò il cuore di Verity. – Che storia c’è dietro questa foto?

– La Roma aveva appena vinto una partita. È stata scattata al bar dove lavoravo. I ragazzi che vedi sullo sfondo sono gli amici di Ale e lui è...lui è...Alessio. – si sforzò di dire con un filo di voce. – Il ragazzo della foto è lui.

– Mi dispiace, non...

Scosse la testa e chiuse l’album con un gesto secco. – Meglio che vada a dormire. Finirò domani. Grazie dei consigli.

– Verity...

Non aveva più voglia di ascoltarlo né di parlare di sé e della sua Roma. Ciò che aveva vissuto, ascoltato e respirato Christian non poteva capirlo e ora era stanca di parlare. – Buonanotte. – mormorò invitandolo ad andarsene. – Ci vediamo domani mattina per colazione.

– Buonanotte, Verity. – disse andando via.

Rimasta sola, aprì di nuovo l’album alla pagina dove l’aveva chiusa e fissò la foto. Quella era l’unica foto che avesse mai preparato in vita sua, l’unica per cui aveva tenuto la macchina fotografica pronta in attesa del momento giusto.

Strinse l’album di foto al petto, pensando al momento in cui Ale le aveva chiesto di andare a vivere insieme e le serate passate a guardare quelle stesse foto e a ridere, mentre lui la prendeva in giro per le sue manie. Le aveva fatto promettere di non fotografarlo mai mentre andava in giro in mutante per casa o si faceva la barba. Sorrise appena, pesando a quando fosse stato facile fargli quella promessa con l’idea di vederlo ogni mattina appena sveglia.

Quella che ora stava fissando era l’unica foto che possedesse di Ale. Forse, si disse, avrebbe dovuto farne di più quando ne aveva avuto l’occasione, che si stesse sbarbando o meno.

Prima di andare a dormire diede un'occhiata veloce al suo vecchio cellulare. Aveva ricevuto un messaggio.

Solo alcuni vecchi amici che aveva a Roma le scrivevano di tanto in tanto e lei rispondeva a fatica perché le ricordavano Ale. Il numero non le diceva nulla, a parte il prefisso internazionale francese. Lo cancellò senza pensarci due volte convinta che avessero sbagliato numero e fissò in silenzio il soffitto aspettando che il sonno la prendesse.

Il telefono vibrò di nuovo e il numero di prima scorreva sotto l'icona del messaggio in entrata.

 

Sono Zoe. Ho approfittato di un'offerta per cambiare numero.

Come stai? :)

 

Verity sorrise. Sì, era da Zoe approfittare della migliore offerta possibile sul mercato. Scrisse una breve risposta, rimanendo sul vago e la inviò. Un minuto dopo il telefono si illuminò di nuovo portando con se una risposta che le strappò involontariamente un sorriso. Non capiva perché, ma quella sera Zoe la stava capendo e aveva trovato con poche parole il modo di farla ridere.

Chiuse gli occhi, grata per quello scambio che le aveva risollevato l'umore.

  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: khyhan