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Autore: GiuliaStark    02/01/2015    1 recensioni
Axel ed i suoi genitori si sono da poco trasferiti a Los Angeles in quella che chiamano tutti la Casa degli Omicidi. Nell'ultimo anno lei e la sua famiglia ne hanno passate tante ed ora è tempo di cercare di riaggiustare tutto ciò che si è spezzato. Axel però è una ragazza difficile, ne ha passate tante ma nonostante tutto nel profondo, sotto la dura scorza, è ancora una ragazza che sogna e spera. La casa però ha un oscuro passato. Succedono cose strane ed Axel anche se spaventata ne è inspiegabilmente incuriosita. Cosa accade lì che loro non sanno? Nel bel mezzo delle lotte che intraprende contro la sua famiglia e se stessa fa la conoscenza di Tate Langdon, un ragazzo che la incuriosisce dal primo istante. Ma chi è Tate in realtà? E perchè ogni volta che è in sua presenza si sente così strana? Axel sa che Tate le nasconde qualcosa ma nonostante tutto non riesce ad allontanarlo, dopotutto anche lei ha i suoi demoni. I due hanno un rapporto speciale, ma cosa rappresentano l'uno per l'altra? La salvezza o la distruzione?
Genere: Horror, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Tate Langdon, Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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Saaaalve!! Scusate il clamoroso ritardo ma ero un pò a corto di idee 😆 Comunque ecco qua un nuovo capitolo, spero vi piaccia e mi raccomando fatemi sapere cosa ne pensate!! Un bacione a tutti!!!



Incubi… era tutto ciò che mi terrorizzava. Ciò che mi teneva sveglia la notte fino ad orari improponibili con gli occhi sbarrati dal terrore, finché, verso l’alba, non crollavo esausta tra le braccia di Morfeo e l’altra notte non era stata diversa dal solito. Non ricordavo con precisione quando iniziai a soffrirne ma erano così frequenti che davano l’impressione di esserci sempre stati, come qualcosa che si nasconde per poi saltar fuori al momento giusto. Ciò che più odiavo era la sensazione che lasciavano: il vuoto. Ogni maledettissima mattina mi svegliavo con quella sensazione che mi opprimeva il petto; ormai era diventata una costante nella mia vita, quindi dopo un paio d’ore non ci facevo più caso ma sapevo che c’era, che non mi lasciava mai, come se fossi condannata a sentirmi così per chissà quanto tempo. Ad ogni risveglio ero sempre nelle stesse condizioni, anche se appena gli occhi si aprivano dimenticavo le immagini che la notte mi avevano dato tormento: ero madida di sudore, gli occhi sbarrati dai quali uscivano fiotti di lacrime e tremavo come una foglia. La parte più difficile era nascondere la paura. Mi teneva stretta nella sua morsa senza lasciarmi andare facendomi sentire impotente. Odiavo quella sensazione, per questo cercavo di nasconderla, perfino a me stessa, facendo finta di nulla, ma una parte di me sapeva; era ben consapevole che appena faceva buio questo terrore che tenevo a bada per tutto il giorno diventava indomabile e scalpitava per venir fuori perché era cosciente che il suo momento era arrivato. E lo odiavo. Odiavo essere impotente davanti a questo lato di me, odiavo non riuscire a controllare la paura, ma soprattutto odiavo combattere una guerra contro lo stesso fronte. Sicuramente era mattina, sentivo i caldi raggi provenienti dalla finestra arrivare fino al mio letto e scaldare la parte sinistra del mio volto; sempre ad occhi chiusi tirai un sospiro e mi girai di spalle evitando così la luce mentre mi passavo una mano tra i capelli. All’improvviso sentii una strana sensazione insinuarsi dentro di me, la sentivo a pelle che mi scorreva su tutto il corpo, ma non era fastidiosa, anzi, era come un sollievo, come se mi stesse curando dal male che per tutta la notte mi aveva tormentata. Il bordo del letto si incrinò contro il peso di qualcosa che vi si poggiava; ebbi un tuffo al cuore ma non aprii gli occhi, rimasi ferma, immobile cercando di capire chi fosse; poi una voce calda e dolce parlò:
- So che sei sveglia -
Spalancai definitivamente gli occhi. Il cuore iniziò a martellare e la mente ad offuscarsi sotto il peso delle domande. Riconobbi quella voce ma era impossibile, sicuramente stavo ancora dormendo; eppure mentre cercavo di autoconvincermi che fosse tutto frutto della mia immaginazione, una parte di me già aveva preso coscienza ed elaborato cosa era successo. Non mi voltai, rimasi di spalle, se era veramente tutto reale e non un sogno, non volevo che mi vedesse in questo stato:
- A quanto vedo ti piace intrufolarti nella mia camera – cercai di sembrare irritata.
- Beh mi avevi detto che oggi ci saremmo visti ma quando sono arrivato non c’eri – rispose; potevo sentire il sorriso sulle sue labbra mentre parlava.
- Aspetta… - ripensai alle parole che aveva detto – Ma che ore sono? –
- Le undici passate, ho finito poco fa con tuo padre –
- E così hai pensato bene di venire qui? Se ti dovessero scoprire passeresti dei guai –
- Non c’è pericolo, tranquilla –
Ci fu un momento di silenzio. Potevo sentire il rumore del suo respiro, tutto taceva, sia fuori che dentro la casa come se il tempo si fosse fermato. Sentii nuovamente il peso sul bordo del letto muoversi, le molle del materasso cigolarono e pensai che forse se ne stava andando. Era meglio così, preferivo rimanere sola e probabilmente lui l’aveva capito; invece no. Il suo peso tornò a far incrinare il materasso, stavolta in un punto più vicino a me, mi irrigidii e trattenni il respiro. Cosa voleva fare? Rimasi lì ferma, immobile a fissare il muro, il cuore che già batteva all’impazzata aumentò ancora di più il suo battito; percepivo una certa incertezza da parte sua, poi parlò di nuovo:
- Perché non ti volti? – mi chiese con un sussurro, ma io non risposi. E cosa potevo dirgli? Di certo non la verità. Silenzio. Altro silenzio per circa cinque minuti, poi Tate sospirò – Axel, cosa è successo? –
- Tate, è meglio se vai, non vorrei che i miei salissero e ti trovassero qui –
- Tranquilla sono usciti entrambi, ora, cosa ti è successo? -
- Perché ti importa, neanche mi conosci! – esclamai nascondendo il volto nel cuscino.
- Perché sei diversa Axel, sei diversa da tutta la merda che abita questo mondo e l’ho capito dal primo momento che ti ho guardata negli occhi –
Qualcosa si smosse dentro di me. Nessuno mi aveva mai detto certe cose, soprattutto qualcuno che per me era un totale sconosciuto, eppure nonostante ciò quel senso di sicurezza che mi pervadeva ogni volta che lui era nei paraggi era reale e mi dava sollievo. Potevo fidarmi? Ci pensai un attimo e senza neanche indugio mi diedi una risposta: Si. Sentivo di potermi fidare di lui, sentivo che non mi avrebbe fatto del male e che mi avrebbe capita; fin da ieri avevo percepito un qualcosa di speciale che mi attraeva a lui e forse questa ne era la prova. Decisi di non farmi più domande per ora, ma bensì di seguire l’istinto e vedere dove mi avrebbe condotta.  Rilassai i muscoli e sospirai, poi lentamente cominciai a girarmi: i raggi del sole mi investirono nuovamente il volto e socchiusi gli occhi permettendogli così di abituarsi lentamente alla luce; Tate era seduto lì sul letto e mi guardava con un piccolo sorriso e quegli occhi colmi di… cos’era? Speranza? I capelli mossi e biondi gli ricadevano sulla fronte e gli occhi. Mi tirai su a sedere e poggiai la schiena alla spalliera del letto; sentivo il suo sguardo addosso, mi stava scrutando come se sapesse che c’era qualcosa che non andava e aveva ragione. Il terrore degli incubi era ancora lì insinuato dentro di me talmente in profondità che me lo sentivo strisciare nelle ossa e lui era come se riuscisse a vederlo; all’improvviso nei suoi occhi si posò un’ombra, si rabbuiò ed abbassò le spalle come se fosse improvvisamente triste. Si avvicinò ancora di più verso di me e prese una delle mie mani tra le sue:
- Che ti è successo? –
I suoi occhi erano piantati nei miei ma ogni tanto vagavano sul mio viso scrutandolo e leggendo sopra ogni emozione, aggrottò le sopracciglia cercando di individuare quale fosse la fonte del mio malessere; potevo immaginare in che stato fossi: le borse sotto gli occhi, il viso accaldato, le labbra pallide e le mani fredde. Un disastro. Una ragazza in balia di se stessa e dei suoi demoni, era così che apparivo la mattina:
- Ho avuto un incubo… - sussurrai.
- Mi dispiace… che tipo di incubo? –
- Non lo so, non ricordo – distolsi lo sguardo.
- Puoi parlare con me, sono l’unico di cui puoi fidarti Axel, e lo sai – si, lo sapevo.
- Accade ogni notte – spiegai – Incubi terribili dei quali al risveglio non ricordo molto. L’unica cosa che mi lasciano è il terrore che possano tornare – lo guardai negli occhi.
- Vieni con me –
Aveva un sorriso stampato sul volto e gli occhi che brillavano; io lo guardavo attonita, ed ora che gli era saltato in mente? Continuai a fissarlo, poi sorrisi ed annuii mentre lui si alzava dal letto tirandomi con se e quasi non caddi. Lui rise ed anche io. Scendemmo le scale, la mia mano ancora nella sua, fino ad arrivare al piano di sotto:
- Dove e stiamo andando? –
- In giardino – si voltò mentre lo diceva e mi fece l’occhiolino.
- In giardino? – ripetei confusa – Sul serio? -
- Oh, andiamo Axel, fidati! –
Aprì la porta principale ed una calda luce entrò nell’ingresso illuminandolo con una sfumatura dorata; questa casa mi stupiva ogni volta per la sua bellezza, era come se avesse un’anima, anzi due, quella notturna che nascondeva oscuri segreti e rumori misteriosi e quella diurna che era tranquilla, silenziosa e baciata dal sole. Uscimmo fuori ed una leggera brezza ci scompigliò i capelli. Era un sollievo quell’aria fresca, sia per il mio umore che per la pelle ancora leggermente imperlata di sudore; respirai a pieni polmoni e mi concentrai usando tutta la forza che avevo in corpo per scacciare definitivamente i demoni dell’incubo. Nel frattempo Tate continuava a camminare in direzione del grosso albero che c’era nel retro del giardino ed io, come se non potessi fare altro, lo seguii; ci sedemmo lì sotto con la schiena contro il tronco a guardare il cielo azzurro di Los Angeles. Visto da così tutto sembrava avere una luce migliore: non c’erano problemi familiari, non c’era indifferenza, non c’erano le mie paure, niente… solo la calma, solo un’altra giornata di sole:
- Ascolta il vento tra i rami, gli uccelli; senti il sole che ti riscalda, respira, libera la mente e non pensare più –
Disse quelle parole come una nenia, probabilmente era merito della sua voce calda, e dopo un po’ cominciai a sentire che era passato veramente il peggio. Mi sentivo nuova, come se mi fossi rigenerata, come se solo la sua compagnia mi aiutava. Perché questo ragazzo perlopiù sconosciuto aveva un tale effetto su di me? – Meglio? –
- Si… - sospirai con un sorriso.
- Visto? Ne è valsa la pena fidarti! – sorrise con di nuovo quel barlume di follia nello sguardo che gli avevo visto il giorno prima.
- Grazie – annuii
- Sai qual è una cosa che adoro? – disse tutto ad un tratto; scossi la testa ed aspettai una risposta con ancora il sorriso stampato sul volto – Le foglie che cadono e il vento mentre le fa muovere in aria –
- Piace anche a me – il suo sorriso si allargò ancora di più.
- Quando arriverà l’autunno dovremmo guardarle assieme! – esclamò esaltandosi; quel ragazzo non faceva altro che mostrarmi varie sfaccettature di se stesso che continuavano ad aumentare il grande puzzle che stavo cercando di costruire su di lui.
- Non ti ho mai visto a scuola, come mai? -
- Perché non ci vado – rise mostrando le fossette – Preferisco studiare a casa –
- Ah… - rimasi stupita – E perché? –
- Perché ci andavo prima ma odiavo tutti – fece spallucce guardando a terra – Erano tutti degli stronzi pieni di se, non se ne salvava nessuno. Fidati di me, non farti amico nessuno di loro, stagli lontano, fidati –
- Ok… - risposi leggermente confusa.
Tate sorrise mentre mi guardava dritta negli occhi, ogni volta che lo faceva sembrava come se volesse leggermi dentro, come se bramasse di sapere le cose che celavo a chiunque. Era una sensazione strana ma al tempo stesso piacevole perché per la prima volta avevo trovato qualcuno a cui interessava di me e di come mi sentivo:
- Conosci la storia di questa casa? – mi chiese facendo un cenno verso di essa.
- In realtà no –
- Beh forse è meglio così, altrimenti avresti paura a vivere qui – mi guardò come se mi stesse sfidando.
- Mi stai provocando per caso? – domandai alzando un sopracciglio – Io non ho paura di questa casa –
- Sicura? – domandò mentre si apriva lentamente in un sorriso come se avesse già la vittoria in mano.
- Si –
- Bene allora non ti dispiacerà sapere che chi la costruì negli anni venti era un famigerato medico chirurgo che, pur di racimolare qualche soldo in più per far contenta la moglie, praticava illegalmente l’aborto. Un giorno una delle donne si lasciò sfuggire l’informazione con il fidanzato e questi si vendicò rapendo il figlio della coppia; giorni dopo la polizia bussò alla loro porta consegnando uno scatolone contenente dei barattoli con all’interno i pezzi del loro bambino. La moglie era fuori di sé per il dolore e dette la colpa al marito che, anche lui devastato, cercò di rimettere insieme i pezzi del figlio creando così un mostro che si dice viva ancora nello scantinato – terminò il racconto con un sorriso soddisfatto.
- Molto interessante, davvero, ma non ci sono prove che confermino questa storia –
- Non preoccuparti, ti accorgerai da sola che quella casa non è come tutte le altre – sorrise di nuovo.
- Ne parli come se tu la conoscessi alla perfezione – dissi incuriosita dal modo in cui il suo sguardo era cambiato quando aveva cominciato a parlare della casa, era cupo, molto più cupo.
- Nah! – ridacchiò - È solo che ci ero già stato qualche volta a trovare i vecchi proprietari – annuii.
- Com’è andata con mio padre? – decisi di cambiare discorso, parlare di quella casa e delle cose che vi erano successe nel corso degli anni mi mettevano a disagio.
- Oh, alla grande! – esclamò – Dice che può aiutarmi ad essere meno pazzo, forse anche a guarire del tutto – sorrise.
Meno pazzo? Era così che si definiva? Pazzo? Per me era tutt’altro, forse perché, anche se cercavo di evitare l’evidente, io lo capivo, riuscivo a comprendere i sottili messaggi sotto le righe durante i suoi discorsi. No, Tate non era pazzo e neanche io. Il mondo lo era. Questo maledetto posto era malato, saturo di putredine che camminava a piede libero ed infettava chiunque gli capitasse sotto mano. No, non eravamo pazzi, o asociali, ma solo fuori dal comune, diversi dal resto degli individui; chi poteva dire con certezza che eravamo noi i pazzi e non gli altri? Chi poteva mettere nero su bianco che quelli sbagliati eravamo noi? Solo perché non trovavamo il nostro posto nel mondo dovevamo sentirci inadeguati, per la società era così. O ti adegui e segui le regole o vieni considerato uno squilibrato. Non avevo dubbi che perfino mio padre la pensasse così su di me visto che già in passato, d’accordo con mia madre, aveva cercato di psicanalizzarmi, senza successo, alla fine ritennero più facile definirmi leggermente instabile e chiudere lì la questione come se fossi io il fallimento e non il loro modo di fare i genitori. Si erano liberati del problema così… senza pensarci due volte e senza rimorsi, solo delusione perché non ero la loro figlia perfetta ma solo un giocattolo rotto:
- Mi dispiace per prima, non volevo che mi vedessi così – abbassai lo sguardo e mi passai una mano tra i capelli, anche se sapevo che non c’era bisogno di chiedergli scusa lo feci lo stesso. In un certo senso mi sentivo in debito con lui.
- Ehi, no – si staccò dal tronco e prese nuovamente la mia mano, poi si avvicinò ancora; i suoi occhi erano come due calamite – Non chiedermi scusa, non devi, ti prometto che ci sarò ogni volta che avrai bisogno di me –
- E come saprai quando accadrà? – domandai con un sussurro.
- Lo sentirò –
Le sue parole mi colpirono. Il cuore perse un battito ed io non potevo fare a meno che perdermi nei suoi profondi occhi marroni, talmente bui che ti disorientavano. C’era qualcosa in lui, nel suo essere, che ammettevo mi spaventasse un po’; le cose che diceva, i gesti, come se sapesse cosa fare al momento giusto, come se sapesse di cosa io avevo bisogno in quel momento. Da dove veniva questo ragazzo? Perché sembrava conoscermi meglio di me stessa? Mentre lo guardavo ancora negli occhi sentii un rumore di pneumatici: i miei erano tornati. Mi voltai di scatto verso la strada e li vidi uscire dall’auto con alcune buste in mano; mi alzai di scatto lasciando la mano di Tate, avevo paura di ciò che avrebbero detto se lo avessero visto perché sicuramente mi avrebbero proibito di frequentarlo ed io non volevo:
- Diamine Tate, se ti vedono è la fine! –
- Non possono impedirmi di vederti – rispose con una piccola risata.
- Si che possono fidati, e lo faranno – mi voltai e lo guardai negli occhi.
- Che ci fa lui ancora qui! –
Calò il gelo. Non avevo sentito i passi di mio padre avvicinarsi mentre discutevo con Tate; non sapevo cosa fare, era come se fossi interamente paralizzata dalla sorpresa ma al tempo stesso furiosa per essere sempre trattata da irresponsabile, come se non fossi in grado di badare a me stessa. Decisi di voltarmi e fronteggiarlo, lui non poteva decidere per me lo aveva fatto troppe volte nel corso della mia vita ed ora ero stanca, stanca di lui, anzi, di loro e della loro falsità:
- Stavamo parlando –
Incrociai le braccia come per sfidarlo e lui indurì ancora di più lo sguardo mentre mia madre, pochi passi più indietro, mi guardava confusa e disorientata. Mio padre guardò Tate con astio ed una certa paura. Cosa aveva contro di lui? Ai miei occhi era, per la maggiore, un ragazzo molto solo:
- Ti avevo detto di andare subito via dopo la seduta – disse duramente.
- Ha ragione, non se la prendi con sua figlia è colpa mia, volevo solo salutarla – rispose Tate facendo qualche passo in avanti.
- Va subito via – disse a denti stretti mentre cercava di mantenere la calma.
- Ma papà… - non mi fece neanche finire di parlare.
- Sta zitta Axel! –
Cercai di trattenere l’urlo di frustrazione che mi era salito su per la gola con tutte le mie forze; Tate si voltò a guardarmi e mi sorrise, poi andò via mentre salutava cortesemente mio padre. Ero fuori di me. Sentivo la rabbia crescere man mano e non sapevo se sarei riuscita a non darle sfogo, così guardai mio padre per un ultima volta ed entrai in casa a passo spedito; sapevo perfettamente che la faccenda non era finita lì e che presto ci sarebbe stata una furiosa lite ma per ora non volevo neanche guardarlo in faccia, così entrai in casa e mi diressi a passo spedito verso la mia camera sbattendomi la porta alle spalle. Non passò molto tempo che già entrambi i miei genitori entrarono nella mia stanza con un’espressione contraria sul volto, soprattutto quella di mio padre:
- Devi stare lontano da quel ragazzo –
- E perché dovrei? – chiesi con tono accusatorio mentre mi alzavo dal letto mettendomi in piedi davanti a loro.
- Perché non è un ragazzo affidabile! –
- Lo diciamo per te tesoro – aggiunse mia madre.
- Ma per favore… - risi di quelle bugie, non ero niente per loro – Quando mai vi è importato di me! – esclamai – Vi siete mai chiesti perché a New York è andata così? –
- Questo è un altro discorso… - sussurrò mia madre guardando altrove.
- Oh si, certo! Ignoriamo i fatti -
- Axel smettila! – urlò mio padre fuori di se lasciandomi momentaneamente disorientata – Tu starai lontana da quel ragazzo, fine della storia! –
- Perché dovrei?! Eh? Perché è diverso dagli altri? Perché è un ragazzo tormentato? –
- No, perché non è un ragazzo di cui ci si può fidare! – sopirò e cercò di clamarsi, poi si avvicinò un po’ a me e continuò – Axel, devi capire che Tate è mentalmente instabile –
Sicuramente non si rese conto di ciò che disse o forse non si ricordò proprio. Lo guardai negli occhi e vi trovai solo rifiuto nei confronti di un ragazzo che non aveva fatto nulla di male e l’unica colpa che aveva era quella di essere solo:
- Beh secondo la tua diagnosi di qualche anno fa anche io sono instabile, ricordi? – lo sfidai – Anzi, lo pensavate entrambi -
- Non è la stessa cosa – non sapevano dove andare a parare, li avevo colti nel segno.
- Ah no? – la rabbia crebbe ancora e tornai ad essere sarcastica – È stato facile per te farmi quella diagnosi liquidando così il problema, dirmi che non sono completamente normale! Ma hai pensato mai a come l’avessi presa? –
Non aspettai neanche una risposta da parte loro che subito uscii dalla stanza e scesi le scale fino ad arrivare al seminterrato. Da quando ci eravamo trasferiti ero scesa poche volte quaggiù, ogni volta mi sentivo strana, come se fossi osservata o seguita, non sapevo come spiegare quella strana sensazione ma c’era ed io non riuscivo a mandarla via. Nonostante tutto però questo posto mi faceva sentire protetta, nascosta e a mio agio con me stessa; era una grande stanza sempre nella penombra colma di vecchi oggetti che i precedenti proprietari avevano abbandonato lì, l’aria qui sotto era umida e ti entrava dentro facendoti rabbrividire. La cosa che più mi piaceva era il silenzio. Era come se tutti i rumori della casa e del mondo fuori, qui non fossero ben accetti, come se si trovasse in un universo parallelo nascosto agli altri. Il silenzio mi piaceva ma dovevo ammettere che era assordante. Delle volte aveva perfino la meglio su di me. Sembrava che in esso ci fossero mille grida mute e disperate che sentivo infestare la mia testa portandomi a lottare contro di esse e contro me stessa per non cadere nell’oblio. Non sapevo quanto tempo ero rimasta lì sotto rannicchiata con le gambe strette al petto, ma per tutto quel tempo avevo sentito lo sguardo di qualcuno, o qualcosa, posarsi su di me e non lasciarmi mai; la sensazione di bruciante disagio mi invadeva tutto il corpo facendo crescere in me un leggero terrore, ma nonostante tutto non riuscivo ad alzarmi e scappar via, ero come immobilizzata, incatenata lì, curiosa di saperne di più su questa casa che aveva visto tante tragedie. All’improvviso sentii un rumore ed alzai di scatto la testa, non ero sicura se quello che vidi era frutto della paura o era reale, fatto sta che nel buio ci fu un movimento come se qualcosa vi passasse nel mezzo, poi un luccichio di uno sguardo famelico il tutto nel giro di qualche secondo. Ripresi controllo del mio corpo alzandomi di scatto e risalendo le scale di corsa con ancora la bruciante sensazione di essere osservata; quando arrivai in cima mi scontrai con qualcuno ed istintivamente lanciai un piccolo urlo stridulo:
- Axel, cosa è successo? – era mia madre.
- Niente, mi hai spaventata – riposi con il fiato corto.
- Perché eri lì sotto? –
- Volevo starmene un po’ da sola – evitavo il suo sguardo.
- Tesoro, sicura di star bene? –
- Si, mamma – calcai sulla parola con leggero astio – Sto bene –
- La cena è quasi pronta –
- Ok… -
Quella sera cenammo in silenzio, mio padre e mia madre tirarono nuovamente giù il velo dell’indifferenza recitando così la parte della famiglia felice ignorando i problemi che invece ci stavano sommergendo. Quando finii di mangiare mi alzai da tavola senza dire niente e mi diressi nella mia stanza, chiudendomi la porta alle spalle e restando poggiata contro di essa per qualche minuto mentre cercavo di rimettere insieme i pezzi di me stessa. Era stata una giornata cominciata male che poteva terminare bene, ma che invece finì ancora peggio; sospirai pesantemente e mi staccai dalla porta, poi nonostante la paura che mi cresceva dentro per via degli incubi mi cambiai e mi infilai nel letto. Non so quanto tempo dopo mi addormentai ma fu in seguito ad una sensazione di sicurezza che pian piano cominciò a scorrermi addosso, la stessa sensazione che avevo quando ero con Tate. La mattina dopo mi svegliai consapevole che gli incubi non erano venuti a farmi visita, era la prima volta che accadeva da non sapevo nemmeno io quando e ciò mi rendeva felice, felice come non ero mai stata. Scesi a fare colazione ed in cucina trovai mia madre già pronta per uscire mentre parlava con Moira, la cosa che mi fece fermare dietro l’angolo ed ascoltare di nascosto fu sentire il mio nome:
- Non so Moira, sono molto preoccupata per lei… è così strana e distante –
- Non si preoccupi signora, la ragazza è giovane, è confusa sono cose tipiche della sua età. Non si ricorda com’era lei da adolescente? –
- Si – ridacchiò mia madre – Ero proprio come lei: solitaria a volte, socievole altre, sempre arrabbiata con il mondo; ma ora la situazione mi sta sfuggendo di mano, non capisco più quale dei suoi comportamenti sia normale e quale no. Axel è una ragazza particolare, fuori dal comune e sicuramente ha qualche problema di cui non vuole parlare ed io non so che fare –
- Mi permette un consiglio signora? –
- Ma certamente –
- La lasci stare, quando sarà pronta a parlarle verrà a cercarla, vedrà, nel frattempo le dia un po’ più di fiducia –
Non aspettai la risposta di mia madre, mi bastò ascoltare le sue parole precedenti per accertarmi che non mi aveva mai conosciuto come invece lei affermava; entrai in cucina ed accennai un flebile saluto, poi presi la mia tazza di thè e la cominciai a bere con calma, mia madre non disse più nulla finché non si alzò ed uscì; io non avevo intenzione di parlare almeno non ora e non con lei. Quando finii la colazione salutai Moira e mentre stavo per uscire vidi mio padre scendere le scale: mi limitai a guardarlo con profonda delusione e prima che potesse dire qualsiasi cosa aprii la porta d’ingresso per poi chiudermela alle spalle. Iniziai a camminare verso la scuola, l’aria della mattina mi aiutava a schiarirmi le idee recandomi sollievo da una mente troppo affollata. A quest’ora il quartiere dove abitavamo non era molto frequentato, Los Angeles non era ancora sveglia, troppo stanca dalla notte precedente passata a mantenere vive tutte le sue luci per alzarsi così presto; adoravo camminare, in qualche modo riusciva a rilassarmi, cosa che negli ultimi giorni non riuscivo a fare spesso. Ad ogni passo mi sentivo sempre più libera come se potessi andare ovunque solo se l’avessi voluto, ma mano a mano mi avvicinavo alla scuola il peso nel petto ricominciava a crescere ricordandomi quanto odiassi quel posto ed ogni persona che c’era al suo interno. Il più delle volte mi domandavo come tanta gente così falsa potesse ritrovarsi tutta nello stesso posto, ma poi, nei giorni in cui mi sentivo particolarmente comprensiva, pensavo che dopotutto la falsità era una forma di difesa come un’altra: una specie di scudo che si usava per prevenire che la gente usasse la tua stessa arma nei tuoi confronti. E chi poteva giudicarli? Di certo non io. Arrivai a scuola in anticipo ma già c’era un po’ di gente, dato che avevo tempo trovai un posto isolato e fuori dagli sguardi altrui, poi presi le sigarette e ne accesi una; non fumavo molto, solo nei momenti in cui volevo perdermi nei miei pensieri e dimenticarmi del mondo e questo era decisamente uno di quei momenti. Non mi importava se il piccolo oggetto che tenevo tra le dita un giorno, lontano o meno, mi avrebbe uccisa, prima o poi sarei dovuta morire anche io, quindi che differenza faceva il modo in cui accadeva? Ormai anche se respiravo ancora mi sentivo morta, morta dentro, e questo nessuno avrebbe potuto cambiarlo:
- Vedo che qualcun altro ha scoperto questo posto –
Non avevo sentito arrivare nessuno, eppure qualcuno alle mie spalle aveva parlato, una voce sconosciuta che mi aveva fatto venire un brivido lungo la schiena; mi voltai e vidi un ragazzo alto con i capelli mossi e castani, gli occhi verdi ed interamente vestito di nero:
- Non sapevo fosse tuo, me ne vado subito – cominciai a raccogliere la mia borsa ma il ragazzo si avvicinò e si sedette accanto a me.
- Non ti ho detto di andare via – mi voltai a guardarlo – Me ne offrì una – disse indicando con un cenno della testa il pacchetto che avevo in mano, io senza dirgli niente glielo porsi e lui ne prese una – Ti ringrazio – se la mise tra le labbra, poi l’accese – Qual è il tuo nome? -
- Axel –
- Piacere mio, io sono Ryan –
- Sei nuovo anche tu, vero? – domandai con un leggero sorriso.
- Come hai fatto a capirlo? – ridacchiò mentre dalle labbra gli uscivano dei leggeri sbuffi di fumo.
- Non ti ho mai visto in giro – alzai le spalle.
- Tu sei di qui? –
- No, mi sono trasferita qui qualche settimana fa da New York, tu da dove vieni? – chiesi mentre aspiravo altro fumo dalla sigaretta.
- Anche io da New York – sorrise ed io ricambiai.
- È piccolo il mondo delle volte -
- Già… - mi sorrise – Come mai sei qui tutta sola? –
- Perché non mi piacciono le persone che ci sono qui, si credono di essere tutte migliori di chiunque altro ma invece sono solo tante facce anonime –
- Già, l’ho notato – sorrise amaramente guardando a terra – Ti lanciano solo merda addosso –
- Esatto – annuii – Delle volte mi piacerebbe andar via, lontano, magari in un posto isolato dove non sia costretta a fingere di essermi adattata a questo schifo –
- Non è affatto male come idea, sai? –
- Ti ringrazio -
- E non è che c’è spazio anche per me nel tuo piano? – domandò inarcando le sopracciglia e sorridendo.
- Per ora no, senza offesa ma non ti conosco ancora – presi la mia borsa e mi alzai mentre lui rimase ancora lì a fissarmi incuriosito.
- Allora rimedierò a questa mancanza –
- Vedremo Ryan, vedremo – sorrisi e mi incamminai verso l’entrata.
La giornata passò lentamente come al solito tra le parole noiose degli insegnanti e la mia poca voglia di far parte del mondo in quel momento della giornata. Il mio pensiero volò inconsapevolmente verso Ryan, fino ad ora era l’unico in quella scuola che la pensasse come me, forse per la prima volta avrei trovato un amico e non sarei stata più sola in questa giungla. Quando giunse l’ora di uscita presi le mie cose e mi diressi verso il corridoio gremito di studenti che spingevano per passare, raggiunsi l’armadietto e lo aprii per fare il cambio dei libri quando ad un tratto sentii qualcuno bussarmi sulla spalla e mi voltai:
- Cosa vuoi Max? –
- Ciao anche a te raggio di sole! – ridacchiò – Stavo pensando a quale fortuna avevi a vivere in una casa così famosa –
- Se vuoi puoi trasferirti lì – mi voltai e chiusi l’armadietto di scatto mentre stavo per perdere la pazienza.
- Non così in fretta raggio di sole! – mi sbarrò la strada e sogghignò – Perché non ti fermi un po’ con noi? I miei amici ci aspettano fuori –
- No, grazie non mi va – cercai di oltrepassarlo ma mi bloccò nuovamente, iniziavo a perdere la pazienza.
- Su, andiamo, sai che ho scoperto cosa ti è successo nella vecchia scuola? Non vorrai che tutti lo vengano a sapere – sorrise nuovamente con quel ghigno malefico.
Era impossibile che sapesse, nessuno, a parte il preside ne era a conoscenza nell’istituto. Allora perché Max appariva così sicuro di se? Strinsi le mani a pugno per la rabbia ed iniziai a tremare:
- Non ti credo, stai dicendo solo un mucchio di stronzate! Ed ora lasciami andare –
Per l’ennesima volta cercai di oltrepassarlo, ma mi prese per un braccio impedendomi di andare oltre; aveva una presa d’acciaio e cominciava a farmi davvero male, tutti quelli nel corridoio sembravano non essere interessati:
- Mi pare che ti abbia detto di lasciarla andare – Ryan…
- E tu chi sei? –
- Quello che ti spaccherà la faccia se non fai come dico! –
La sua voce era ferma e roca che spaventò anche me, Max lasciò andare la presa poi mi guardò con disprezzo e se ne andò lasciandomi lì con la paura che avesse veramente scoperto tutto:
- Stai bene? – mi domandò Ryan.
- Si ti ringrazio – risposi mentre mi riscuotevo pian piano dall’intorpidimento legato al viscido terrore che era comparso dentro di me.
- Che voleva quel tizio? –
- Niente – mentii.
- Non sembrava niente – insistette mentre aggrottava le sopracciglia e mi guardava preoccupato.
- Non sono cose che ti riguardano ed ora scusami ma devo tornare a casa –
Mi voltai e mi incamminai verso il cancello. Forse avevo esagerato, dopotutto lui si era comportato bene con me, ma al momento ero troppo impegnata a pensare ad altro: e se Max fosse riuscito a scoprire perché mi avevano cacciato dall’altra scuola? Sicuramente lo avrebbe detto a tutti e poco importava che io dessi la mia versione o meno, nessuno mi avrebbe ascoltata. Cercai di non pensarci ed alla fine decisi di aspettare, magari era solo un colpo basso per intimorirmi, si, doveva trattarsi di quello. Quando giunsi davanti casa mia mi sentii leggermente sollevata, entrai e mi beai della pace che regnava lì dentro; mia madre era ancora al lavoro mentre mio padre era sicuramente chiuso nel suo studio. Andai da lui e trovai le porte accostate e da dentro delle voci parlare, bussai ed aspettai:
- Avanti - aprii una delle porte e mi affacciai: era nel mezzo di una seduta e sapevo anche con chi. Tate era seduto di spalle e fissava davanti a se, credevo che dopo l’episodio di ieri mio padre si fosse rifiutato di aiutarlo ma fui contenta che non l’aveva fatto, forse avrebbe potuto aiutarlo come non sapeva fare con me - Axel ti serve qualcosa? – domandò.
- No, ero solo passata per avvertirti che ero tornata –
- Bene, ci vediamo quando ho finito. Per oggi ho altri due appuntamenti –
- Si, non preoccuparti, almeno aiuterai qualcuno che ne ha veramente bisogno – gli lanciai una frecciatina e richiusi la porta.
Passarono all’incirca venti minuti da quando ero salita in camera e nel frattempo l’unica cosa che avevo voglia di fare era rimanere sdraiata sul letto a fissare il soffitto; Tate non mi aveva salutata e capii anche il perché, la sua era una bella idea ma non sarebbe servita a rendere mio padre meno sospettoso anche se io sperai di si. Passarono altri dieci o quindici minuti quando sentii bussare al vetro della finestra, incuriosita mi voltai e vidi Tate in bilico sulla soglia che mi faceva segno di aprire; sbarrai gli occhi e corsi ad aprire il vetro, lui entrò con tranquillità come se fosse passato dalla porta principale mentre io non riuscivo a smettere di guardarlo con preoccupazione e stupore:
- Tu sei fuori di testa! – esclamai mentre richiudevo la finestra.
- Lo so – ridacchiò.
- Tate, non è divertente! – mi voltai verso di lui.
- Oh, andiamo! Un po’ lo è stato, ammettilo – sorrise.
- No! Ti saresti potuto fare veramente male! –
- Ti preoccupi per me ora? – domandò avvicinandosi lentamente verso di me.
- Lasciamo stare – sospirai e mi passai una mano nei capelli – Comunque, pensavo che mio padre dopo ieri non ti avesse voluto più in cura –
- In realtà era così, poi gli ho promesso che non mi sarei più avvicinato a te e si è convinto – fece spallucce.
- Noto con piacere che mantieni le tue promesse – dissi con sarcasmo.
- Come se non fossi contenta di vedermi – si avvicinò ancora convinto delle sue parole e con un sorriso smagliante; amavo e odiavo questa caratteristica nelle persone.
- Dov’è ora mio padre? Perché non hai mai paura di essere sorpreso? –
- Sta ricevendo un altro paziente e non ho paura perché non ho niente da perdere –
- Ok… - risposi poco convinta.
- Com’è andata oggi a scuola? –
- Non mi lamento – feci spallucce – C’è un nuovo ragazzo però –
- Ah si? –
La sua espressione cambiò radicalmente, ora sembrava più attento ed interessato alla conversazione; aveva uno strano sguardo con un luccichio negli occhi che non gli avevo mai visto prima. Continuava a guardarmi come se stesse cercando di comunicarmi qualcosa; la sua mente vagava all’impazzata, potevo notarlo dalla sua espressione concentrata; cos’era che ora lo turbava? :
- Si… - risposi alla sua domanda con cautela, poi continuai – Si chiama Ryan e non è male come persona –
- Axel non devi fidarti, non devi fidarti di nessuno te l’avevo detto – disse quasi implorandomi.
- Tate lui è diverso, è il primo dentro quella scuola a pensarla come me –
- No, no, no… - scosse la testa – Non devi cadere nella sua trappola! –
- Tate, ma che… - sussurrai.
Dovevo ammettere che mi stavo preoccupando. Sembrava che il panico e la paura si fossero impadroniti di lui; si guardava attorno con gli occhi sbarrati e le mani chiuse a pugno, era come se stesse pensando a qualcosa ma doveva farlo in fretta. Che gli prendeva? Era per qualcosa che avevo detto? Forse si trattava di Ryan, si, era quello il problema, ma perché? :
- Ti porterà via da me! – disse in tono disperato.
Si girò a guardarmi e vidi che la disperazione non era solo nella sua voce ma anche stampata sul suo volto, gli occhi si erano arrossati segno che stava per piangere, poi si voltò nuovamente e cominciò a fissare un punto impreciso sul pavimento; vederlo così mi provocava delle strane emozioni ma al tempo stesso non poteva proibirmi di farmi nuove amicizie, di costruirmi una nuova vita e magari di sentirmi un po’ più felice. No, non poteva. Lui non era nessuno per impedirmelo:
- Tate, smettila! – alzò nuovamente lo sguardo su di me; nei suoi occhi c’era tanta rabbia ed altrettanta paura. Mi avvicinai e gli presi il volto tra le mani e lo guardai con fermezza – Perché fai così? -
- Axel, non fidarti! Ti farà del male, perché non lo vuoi capire! –
- No, non succederà, oggi mi ha perfino difesa da uno dei bulli della scuola – sospirai
Scosse nuovamente la testa, poi tolse le mie mani dal suo volto per stringerle tra le sue; teneva la testa bassa mentre giocherellava con le mie dita, sembrava che si fosse calmato un po’ e lo sperai con tutta me stessa perché iniziai veramente a spaventarmi. Capivo perfettamente che Tate era un ragazzo solo e che non si trovava bene con gli altri, ma questa paura che potessero portarmi via da lui, da una persona che conoscevo a malapena, era assurda:
- Solo io posso proteggerti… - disse con un sussurro mentre catturava nuovamente il mio sguardo nel suo – Nessuno è in grado di farlo – una lacrima gli scese lungo la guancia ed involontariamente qualcosa si incrinò dentro di me.
- Allora torna a scuola - Sussurrai - Se sei così sicuro che Ryan possa farmi del male torna per proteggermi –
- Non posso…  - scosse la testa e strinse di più le mie mani – Non sai quanto lo vorrei –
- Perché non puoi?! Diamine Tate, non mi dici nulla su di te e pensi che io possa fidarmi! – mi liberai dalla sua stretta e la disperazione nei suoi occhi aumentò.
- Mi dispiace Axel ma non sei ancora pronta per sapere –
- Sapere cosa? – non ci stavo capendo più nulla, forse mio padre aveva ragione stavolta, Tate era pericoloso – Lo sai che ti dico? Non mi interessa – scrollai le spalle e scossi la testa – Mi dici di non fidarmi degli altri quando non so nulla su di te, dici che sono in pericolo ma non hai il coraggio di venir fuori a difendermi. Le tue sono solo parole… -
- No, Axel, ti prego credimi! –
Stavo per voltarmi dandogli le spalle ma lui me lo impedì bloccandomi per un braccio; lo guardai dritto negli occhi e, come ogni maledetta volta che lo facevo, mi persi lì dentro mentre cercavo di capire cosa lo tormentasse a tal punto da renderlo così disperato. Non lo conoscevo eppure mi preoccupavo, avevo paura che ciò che lo tormentava, qualsiasi cosa fosse, potesse prendere il controllo su di lui e sovrastarlo e non era una cosa piacevole visto che era successo anche a me:
- Adesso è meglio che vai – presi la sua mano e la tolsi dal mio braccio, quel gesto sembrò ferirlo ancora di più.
- Non mandarmi via – gli tremò la voce mentre lo disse – Tu hai bisogno di me –
- Basta Tate, tu non sai nulla su di me, non sai di cosa ho bisogno, non lo so nemmeno io! – dissi esasperata – Tu hai bisogno di aiuto ma non da me, mio padre avrà anche i suoi difetti ma il suo lavoro lo sa fare, lui può aiutarti, non io, devi capirlo! Da me non riceverai niente, niente di buono almeno, dato che sono la prima ad essere difettosa! Io non… –
La frase rimase in sospeso. Tate mi prese la testa tra le mani e si avvicinò colmando così la distanza tra di noi poi accadde tutto nel giro di pochi secondi senza che io me ne rendessi conto: le sue labbra erano sulle mie e si muovevano dolcemente ma al tempo stesso con disperazione, come se avesse un forte bisogno di sentire e appartenere a qualcosa. Rimasi immobilizzata da quel gesto inaspettato, non sapevo cosa fare e come muovermi, sembrava tutto così surreale che non mi sarei stupita se fosse stato un sogno. Ma non lo era. Tate era veramente qui e mi stava baciando con tutta la disperazione che serbava dentro di se da chissà quanto tempo. Era come se il tempo si fosse fermato e niente avesse più importanza, avere le sue labbra fresche e morbide contro le mie era una sensazione impagabile ma al tempo stesso sapevo che era sbagliato; Tate aveva bisogno di aiuto ed io, per quanto mi fossi affezionata a lui in questo poco tempo, non potevo darglielo. Mi staccai bruscamente da ed indietreggiai, lui cercò di afferrarmi nuovamente ma gli sfuggii; mi guardava con sguardo perso e ferito e diamine se non avrei voluto stringerlo a me ma non potevo, non ora almeno. Avevo bisogno di tempo per capire, era successo tutto così in fretta… e poi avrei dovuto parlare con mio padre e pregarlo di aiutare Tate meglio che poteva:
- Ti prego, va via… -
Dissi quelle parole con un nodo alla gola e le lacrime agli occhi, Tate annuì impercettibilmente e distolse lo sguardo puntandolo a terra, era stravolto e molto triste. Nonostante gli avessi detto di andare via qualcosa dentro di me sapeva che quella non era l’ultima volta che ci saremmo visti e avremmo parlato e dopotutto, anche se sapevo era sbagliato, non vedevo l’ora.

 

 

 

 

 

  
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