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Autore: etc    26/01/2015    1 recensioni
Alessandro è un uomo in carriera, affascinante e attraente. Eppure una parte di sé è segnata da un evento della sua vita che non può scordare, un passato ingombrante, una condanna senza appello, fatto di dolore, senso di colpa e rimpianto. Un'infinità di rimpianto.
Per questo Alessandro si è creato un'esistenza di stenti, di precari, fragili equilibri, costantemente in bilico su un filo di sottile e affilato dolore, aggrappato a un passato che gli graffia le mani, ma che mai oserebbe abbandonare.
[Dal primo capitolo]
L'uomo dallo sguardo assente camminava a passo spedito, la valigetta in mano, la mente altrove. I pensieri sfrecciavano veloci, seguendo il ritmo dei passi affrettati di gente vestita in giacca e cravatta che si affrettava a superare i tornelli. [...]
L'uomo aveva lo sguardo assente perché pensava troppo. La sua mente assomigliava a una stazione, piena di pensieri che arrivavano senza preavviso e risfrecciavano via veloci come erano venuti, senza nemmeno dargli il tempo di afferrarli, ed era sempre stato così per 37 anni. Anzi, 38, dato che quello era il mattino del suo trentottesimo compleanno (o, come amava definirlo lui, il quinto anniversario dal suo 33° compleanno). Nonché suo primo giorno di scuola.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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LA SUA CLASSE

La scuola era molto grande e comprendeva scuola media e liceo classico, che lui stesso aveva frequentato da giovane. Non era cambiata affatto dal giorno più brutto. Ma entrarci di nuovo gli fece provare una sensazione del tutto differente. Si sentiva come intrappolato in una bolla, con ogni suono rimbombava tra le pareti di quello spazio invisibile stranamente amplificato e distorto. Eppure aveva l'impressione di non sentire veramente i rumori che aveva attorno; risuonavano nelle sue orecchie e premevano sui suoi timpani senza inviare alcun messaggio al cervello. Se qualcuno avesse urlato che l'edificio stesse andando a fuoco, le sue orecchie sarebbero state le prime a udirlo, e avrebbero gemuto sotto il peso di tutto quel suono; ma lui sarebbe rimasto lì, ascoltando un suono che il suo cervello pareva non riconoscere più.
Il pollice della mano sinistra si mise a far ruotare la fede attorno al suo anulare, senza nemmeno che lui se ne accorgesse.
Chiuse gli occhi e respirò profondamente: la vista gli divenne meno appannata e, incoraggiato, riprese la sua solita andatura decisa, dirigendosi al primo piano, verso la classe del 3° C, che era stata la sua, una volta. Salutò le due bidelle (che erano sedute e parlottavano tra loro) con un cenno della mano e un timido sorriso, e quelle sorrisero di rimando, arrossendo. Una di loro rimase imbambolata a fissarlo per troppo tempo, per essere giustificata con semplice curiosità.
Era un po' nervoso. Faceva uno strano effetto tornare proprio lì, ad insegnare, poi. Nel luogo dove aveva giurato di non tornare mai. Non ne ricordava nemmeno il motivo.

È perché sei debole. Lo sai.

Si diresse con maggior decisione verso la classe. Cercò di lisciarsi i capelli spettinati prima di entrare, ma senza alcun risultato. La porta dell'aula era aperta, e da fuori arrivavano le voci e le risate dei ragazzi all'interno, che si mescolavano al vociare delle bidelle e ai tiin provenienti dalle macchinette del caffè in funzione.
Rivolse una rapida occhiata ai suoi vestiti per controllare i lacci delle scarpe non si fossero sciolti, o che i suoi pantaloni non si fossero sgualciti, e poi entrò.
Non appena ebbe varcato la soglia, vide una palla bianca sfrecciare verso di lui alla sua sinistra. Si piegò rapidamente in basso, schivandola per un pelo, e poi si voltò a destra, guardando un grosso foglio accartocciato che era caduto dritto nel cestino accanto alla porta, con tanta forza, da aver fatto barcollare il cestino stesso.
Il vocìo cessò all'istante. Il professore si voltò verso i ragazzi, che avevano tutti gli occhi fissi su di lui, e, squadrandoli uno ad uno, disse con voce potente, che nemmeno lui si aspettava: "Chi è stato?".
Nessuno rispose. Tutti erano immobili, alcuni intimoriti, altri incantati e sorpresi dal suo fascino.
Dopo alcuni secondi di silenzio, il professore avanzò lentamente di tre passi, posò la valigetta sulla sua sedia, si tolse il cappotto, lo appoggiò accanto alla valigetta e si tirò su le maniche della maglietta, poi fece il giro della cattedra e, quando vi fu davanti, vi si sedette sopra.
"Allora, chi è stato?" ripetè.
I ragazzi si scambiarono alcuni sguardi intimoriti. Alla fine un ragazzo che era rimasto parallizzato in piedi sulla sua sedia, all'ultimo banco, alzò la mano tremante, deglutendo vistosamente.
"Come ti chiami?"
"Peter."
Dopo averlo squadrato con fare minaccioso per qualche istante, il professore abbandonò quell'espressione accigliata che non gli apparteneva e disse: "Bel tiro, Peter".
Si alzò di scatto e si posizionò in piedi accanto alla sua sedia, sistemando il cappotto sullo schinale della sedia, davanti ai ragazzi che lo fissavano sorpresi.
Alzò gli occhi e poi rise. "Che vi aspettavate una punizione?"
I ragazzi si rilassarono.
"Mi chiamo Alessandro Renga, e sarò il vostro professore di lettere e filosofia".
Brusìo generale.
"Qualcosa non vi è chiaro?"
Un ragazzo piuttosto carino, con i capelli castani con il ciuffo e con l'aria da gradasso, seduto all'ultimo banco vicino alla finestra, disse: "Voglio dire… ma a che ti serve studià filosofia… cioè… adesso ci sta la scienza, no?"
"Chiudi quella bocca, Marco." disse freddamente una ragazza con i capelli raccolti in un chignon disordinato e un largo maglione di lana, seduta al banco davanti a quello del ragazzo.
Il professore la fissò per qualche istante e sorrise. Aveva un'aria familiare.
"Oh, senti" rispose il ragazzo con un sorriso velato "È inutile che mi tratti così solo perché t'attizzo".
"Hmpf", sospirò lei vagamente seccata.
Il professore si avvicinò alla finestra. "A cosa ti serve studiare filosofia, dici? Be'… Essenzialmente… non ti serve a un cazzo."
I ragazzi fecero una faccia strana.
"Vedi, la filosofia, come la letteratura, o l'arte in generale, non è una di quelle cose che ti serve. Se andrai a lavorare come medico, nessuno ti chiederà mai il pensiero di Nietsche o di Kant, e nemmeno se farai il programmatore, o l'attore, o lo scrittore. La scienza, di quella sì che avrai bisogno. Ma anche senza fare alcun lavoro, ne avrai bisogno continuamente, a cominciare dai compiti più comuni e quotidiani. La scienza risolve ormai ogni interrogativo."
Tacque per un attimo, osservando le espressioni dei ragazzi, incuriositi dalle sue parole.
"Ma non riuscirà mai a porre una nuova domanda. Non troverai mai una macchina in grado di farlo. E dove termina la scienza, inizia la filosofia. Solo il cervello umano può porre nuovi interrogativi e incitare al progresso. La matematica, la medicina, la meccanica… tutte lodevoli discipline che ci permettono la sopravvivenza… ma l'arte, la filosofia, il pensiero… è ciò che ci dà la voglia di continuare a vivere".
I ragazzi lo ascoltavano senza fiatare, e regnò il silenzio anche quando il professore ebbe finito di parlare.
"Prima che qualcun'altro mi chieda a cosa serve studiare l'italiano," riprese dopo una pausa "be'… vi serve a evitare di scrivere quelle frasi copiate male da tumblr quando postate i vostri selfie fatti al cesso su Facebook."
I ragazzi risero. Dopodiché furono molto più a loro agio.
Il suo fascino aveva colpito ancora una volta. Oltretutto gli adolescenti non sembravano affatto disprezzare il suo look selvaggio al contrario della maggior parte degli adulti: anzi, ne parevano attratti. Le ragazze gli rivolgevano le prime domande che venivano loro in testa, con voce stranamente acuta, e giocando continuamente con i propri capelli.
Lui, un po' ingenuo, pareva quasi non accorgersi di questi dettagli.
"Quanti anni ha?"
"Dove vive?"
"Da quanto lavora come professore?"
"Perché non è venuto ad insegnarci prima?"
Lui rispondeva educatamente a tutte sorridendo.
"Professore!" disse ad un tratto una ragazza dai capelli neri legati una stretta treccia "giusto per sapere… ma lei è sposato?"
Il sorriso gli si gelò sul viso improvvisamente. Si prese qualche momento prima di rispondere, sentendosi tutti gli occhi puntati addosso, e aprì bocca solo dopo aver deglutito.
"No…" rispose lui abbassando gli occhi e mostrando un sorriso tirato.
"E sta con qualcuno?" continuò la ragazza incuriosita.
"Veramente no…"
"Oh" disse la ragazza, sorpresa. "E ha figli?"
"Nemmeno…"
Suguì una breve pausa, durante la quale il professore si riprese, e tagliò corto con le domande, non senza disappunto di alcune ragazze.
"Bene." disse con il suo tono abituale "adesso voglio che prendiate un foglio e una penna e scriviate qualcosa."
I ragazzi aspettarono in attesa di una spiegazione che non arrivò.
"Che cosa dobbiamo scrivere?" chiesero allora.
"Qualsiasi cosa" rispose lui come fosse la cosa più ovvia del mondo. "Potete raccontarmi di voi. O potete scrivermi della vecchietta che avete visto cadere sull'autobus l'altro giorno. Qualsiasi cosa andrà bene. Basta che ci mettiate un po' di voi stessi".
"Quanto tempo abbiamo?"
"Direi venti minuti".
"Venti minuti e dobbiamo scrivere qualcosa che parli in qualche modo di noi? Non mi basterebbe una vita intera per parlare di me" disse la ragazza con lo chignon disordinato e il maglione largo.
Lui le si avvicinò lentamente, e poi, inaspettatamente, sorrise.
"Sapevo che mi avresti risposto così".
   
 
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