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Autore: malpensandoti    26/01/2015    4 recensioni
E non m’interessa se le gambe sul tavolo non posso metterle che tanto alla fine s’intrecciano sempre e solo con le tue.
Genere: Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ho finito questa storia nel settembre del 2013, leggendo la data è veramente tanto ma tanto tempo fa!
è solo una sciocchezza, scritta per il gusto della prima persona e delle cose nuove, ma in quel momento mi piaceva molto, adesso un po' meno, come è giusto che sia :)
spero che vi sia piaciuta quanto a me era piaciuta scriverla!
vi mando un bacione grandissimo e grazie di cuore!
a presto :)

 





random words 

 
 
 


Siamo troppo forti o troppo codardi e sono tredici giorni che ho mal di schiena.
Louis scoppia a ridere ogni mattina, forse per le mie gambe un po’ troppo lunghe che sbucano dal suo divano blu, beve il suo caffè seduto sul bracciolo della poltrona e dice: “Non credevo fossi così idiota, altrimenti avrei preso un divano più grande”
Mi fa piacere vederlo così rilassato nonostante tutto, ogni tanto sospira come per rimproverarmi ma opta ormai per il silenzio.
Esattamente come me.
Al negozio faccio il turno pomeridiano, più che altro mi assicuro di consegnare il numero di scarpe richiesto e non sbagliare la taglia delle magliette che mi vengono chieste.
Ieri mi sono sbagliato, ho preso la metro per tornare a casa, nell’appartamento mio e di Kalia. A metà strada sono scoppiato a ridere da solo, un ragazzo di colore mi ha guardato male e la signora seduta affianco a me si è spostata leggermente, a disagio.
Sono sceso a Wembley e ho sospirato.
L’abitudine, mi sono detto.
Mi sono abituato come un cane che ritorna dal suo padrone, un gatto che trova sempre la via di casa. E l’ho immaginata mentre cucinava per me, dopo una lezione all’università o un esame importante.
Il forno caldo, le luci soffuse per l’atmosfera, la radio accesa e i suoi capelli legati, io che le stringo i fianchi un po’ troppo forte per istinto e per paura e lei che sorride. Il mio dito dentro al sugo, “Altro sale” e un altro bacio.
L’abituarmi alle piccole cose, al suo telefono lento, i messaggi che non arrivano, i quadri astratti quanto noi.
Il tempo di una sigaretta, la connessione ad internet della vicina che non ha la password, Kalia che s’infila sotto le coperte piano per non svegliarmi e non sa che non sono mai riuscito a dormire se non riesco a sentirla.
Ti. Prego. Vieni. Qui.
Afferro il telefono lasciato sul tavolo della cucina, Louis sta già sorridendo mentre chiude il frigorifero.
M’infilo il cappotto all’ingresso, le scarpe e la sciarpa, digito sul cellulare, apro la porta ed esco.
Sto arrivando”
 
 
 
 
 
 
Kalia non ha pregiudizi, è buona con chi se lo merita, e ogni tanto pure con me.
Mi apre il portone d’ingresso appena suono e io non ho avuto il tempo e il coraggio di alzare gli occhi verso la nostra finestra per vedere se mi stava aspettando.
Faccio le rampe di scale saltando troppi gradini, mi aggrappo al corrimano e arrivo sul pianerottolo col fiatone.
Lei è davanti alla porta, vestita con la sua divisa da studio, i capelli slegati e le labbra rigide.
Riprendo fiato, mi passo la lingua sui denti e la sciarpa inizia a farmi caldo: “Ciao”
Ciao, di nuovo.
Non riesco a dormire, non mi piace il buio, ho paura, come stai, vieni qui.
Dico solo ciao.
Tu spalanchi la porta, “Hey” mormori e i tuoi occhi azzurri fissano il tappetino sotto i miei piedi. Mi fai entrare, i mobili esattamente dove li ho lasciati.
Tolgo la giacca e la sciarpa e penso: “Sono a casa”.
Inizi a morderti il labbro inferiore e a sospirare più pesantemente, le tue dita si muovono appena.
Tredici giorni sono abbastanza. Io ho avuto una sola notte per adattarmi al tuo corpo e alle tue mani.
Tredici giorni sono trecentododici ore, diciottomila settecentoventi minuti e più di un milione di secondi. Capisci?
Capisci che in mezzo a tutto questo tempo, ho ancora i segni, i tuoi segni? Che ho dormito con altri odori, altri cuscini e altri rumore, e non mi sono ancora abituato?
Alle assenze non ci si abitua, me lo hai detto tu.
Io non parlo, mi guardo intorno, controllo che non ci sia qualcun altro appiccicato a queste mura. Questa casa è mia, tu sei mia.
Riesco a vederti sorridere anche con la coda dell’occhio, sei davanti a me in salotto. Incroci le braccia e sospiri.
“Odio quando stai in silenzio. È snervante”
Ora sorrido un po’ anche io, la tua voce ha un non so che di confortevole.
Ti guardo di nuovo, sei così bella che ho paura di romperti.
Sei paziente, aspetti le mie scuse perché non ti dico le cose, io che sono lusingato segretamente dalla tua gelosia.
“Mi sei mancata” ammetto, ed entrambi sappiamo quanto sia difficile.
Annuisci: “Lo so – certo che lo sai – Altrimenti non saresti qui”
“E mi dispiace – continuo – Non sono bravo con le parole e quelle stronzate lì”
Tu schiocchi la lingua al mio tono confuso: “Non si tratta di questo. Si tratta di…di noi, Harry. Non voglio stare male come un cane o tirarti fuori le parole di bocca perché parlare ti costa fatica. Voglio solo… - sospiri ancora, e sembri stanca il doppio. Chissà se hai dormito queste notti – Voglio solo sapere a cosa pensi”
“Lo sai”
A te.
Tu sorridi ancora, fai un passo avanti. C’incontriamo a metà strada, sei ancora arrabbiata?
“Sì, è vero – osservi le mie occhiaie, hai lo sguardo vagamente orgoglioso. Passi le mani sul mio maglione verde, parli piano – So anche che mi ami, ma è sempre bello sentirtelo dire”
Ora sorrido anch’io, ricurvo le spalle per proteggermi e proteggerci, afferro i tuoi fianchi e sfioro le tue labbra con le mie.
“Ho dormito poco” dico solo.
Tre parole come ha detto Louis, tre parole come io ti amo.
Te lo fai bastare, mi baci.
Le tue mani sulla mia schiena.
Ti prego, vieni qui.

 


 
  
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