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Autore: K u r a m a    03/02/2015    0 recensioni
E' necessario aver letto "When Falls the night".
La storia parla di Shade, di alcuni frammenti della sua vita che nella long non sono stati approfonditi.
Quella era la giornata di un bambino qualunque, una Domenica passata in famiglia tra il calore e il riso, tra gli scherzi, il solletico e i pasticci in cucina.
Era una giornata di primavera, la città come sempre era tinta dalle sue innumerevoli luci, tutto era rumore, la quiete non esisteva.
Il suono dei pneumatici sull'asfalto, il suono lontano delle sirene che sottostavano alla legge dell'effetto Doppler, il rumore dei piatti che sbattevano negli appartamenti accanto e la melodia triste del sax che veniva suonato nell'edificio di fronte.
Tutto era normale, perfetto per quel bambino biondo di otto anni che sedeva a tavola e mangiava le sue patatine fritte intinte nel ketchup piccante, sporcandosi la bocca che gli veniva puntualmente ripulita da sua madre, mentre suo padre mangiava tranquillo e annuiva al concitato racconto di suo figlio che stava riassumendo tutta la sua piccola giornata.
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het, Shonen-ai
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Sangue che non muore, amore che va anche oltre la morte.'
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Come le margherite nei campi, come i girasoli che cercano il sole.

 

Erano passate ormai settimane da quel giorno, ma gli incubi non si erano mai fermati; si ripetevano ogni notte, sempre su se stessi, riavvolgendosi e correndo, come se nella sua testa fosse stata immessa una pellicola cinematografica che era destinata a ripetersi ancora e ancora, all’infinito.

Si svegliava tremando, raggomitolandosi su se stesso, all’interno di quelle ruvide coperte, unica cosa che gli era stata data una volta entrato in quell’edificio e che doveva tenersi stretta.

Jace gli aveva assicurato che si sarebbe trovato bene, ma a quanto pare aveva mentito o forse non sapeva cosa accadesse davvero all’interno di quella struttura; quanto la vita lì dentro fosse dura, tanto da ricevere solo una volta al giorno un pezzo di pane, da non poter dormire serenamente la notte senza la costante paura che qualcuno dei ragazzi più grandi potesse irrompere in una delle celle dei più piccoli e derubarli totalmente dei loro pochi averi.

Là dentro l’unica regola che vigeva era anche la più dura: quella della sopravvivenza; mangiare o essere mangiati.

Shade si era svegliato presto la mattina, aveva piegato per bene la sua coperta ruvida e poi era uscito da quella che non si poteva chiamare esattamente stanza, ma a cui non trovava un vero nome, facendo attenzione a non calpestare i bambini suoi coetanei che dormivano a terra.

Il sole non era ancora sorto, ma aveva imparato che a quell’ora del giorno (qualunque essa fosse, poiché non avendo alcun orologio non poteva determinarla) nessuno era di ronda dei corridoi; infatti, gli adulti erano tutti impegnati a dormire o a cucinare quello strano brodo che gli servivano la mattina in una misera scodella di terracotta sbeccata.

A Shade quell’atmosfera ricordava molto quella del libro di Oliver Twist, di Dickens, il libro preferito di suo padre.

A quel pensiero gli si strinse il cuore, mentre cercava di ricacciare indietro le lacrime e i ricordi. Doveva continuare a vivere, a camminare ed andare avanti; non poteva vivere per sempre nel passato, anche se si sentiva in colpa per essere sopravvissuto a loro.

Fu con quei pensieri troppo maturi per un bambino di soli otto anni, che giunse in un angolo deserto dell’orfanotrofio; un po’ decadente, marcio e pericoloso che sembrava dovesse crollare da un momento all’altro.

A tutti era stato proibito andare lì, ma Shade gradiva quel fragile luogo pieno di muschio e un po’ di edera rampicante che si era stabilita sui muri pieni di spifferi e leggermente crollati insieme alle travi marce di legno che si erano riversate a terra. Il biondo lì si sentiva al sicuro e, inoltre, sapeva che era anche il luogo perfetto per nascondere le sue cose perché quel piccolo angolo abbandonato faceva paura a tutti; a tutti tranne che a lui, che vedeva quel luogo come lo specchio della sua anima.

Era fragile, abbandonato e solo al mondo, trascurato; eppure, lì cresceva vita e anche dentro di lui vi era un seme che voleva sbocciare, un giorno, ma doveva solo aspettare che il sole colpisse la sua arida terra e che la pioggia lo baciasse con le sue gocce trasparenti e limpide, per aiutarlo a dar vita a quel fiore che nemmeno lui riusciva a comprendere di che colore potesse essere, ma sapeva che c’era e che lo aveva piantato la sua mamma e tutto ciò era abbastanza per lui. Lo avrebbe protetto a tutti i costi quel seme.

Si avvicinò lì dove una volta doveva esserci una finestra, ma dove le imposte erano crollate ed era rimasta solo una un’incavatura di mattoni; un po’ come la finestra delle grotte di Catullo, dove il poeta aveva scritto i “mille basia” e dove i suoi genitori lo avevano portato una volta solo qualche anno prima.

Era rimasto incantato da quel lago blu, che sembrava non finire mai; per non parlare dei cigni e delle oche che nuotavano intorno alla riva e del gelato buonissimo che aveva assaggiato!

Singhiozzò appena e si stropicciò un occhio con la sua piccola mano, mentre ricordava i sorrisi di mamma e papà, che lo aiutavano a spezzare i pane da dare a quei volatili, oppure mentre gli facevano fare l’altalena in quel grande giardino immerso nel sole.

Gli mancavano tanto; avrebbe voluto riaverli accanto a lui, ma non importava quanto pregasse; ormai lo aveva capito, non sarebbero mai tornati.

-Perché piangi? – chiese una voce dolce, pulita, melodica di bambina, mentre all’improvviso un odore dolciastro di giglio si spanse nell’aria.

Shade si asciugò alla svelta gli occhi con la manica della sua maglietta e si voltò, sfoggiando un radioso e forzato sorriso.

-Non stavo piangendo. – rispose e poi osservò attentamente il suo interlocutore; aveva lunghi capelli rossi e ondulati, dello stesso colore del fuoco; tante piccole lentiggini più o meno accennate erano sparse su quel delicato viso candido, mentre la sua bocca era di un tenue color della pesca.

Non l’aveva mai vista, ma non appena vide quel timido sorriso spuntarle si sentì rassicurato, quasi come a casa; era gentile, come quello della sua mamma.

-Come ti chiami? – chiese questa, con le mani dietro la schiena e avanzando di qualche passo, senza far rumore e così elegantemente da sembrare che stesse danzando.

-Shade. – rispose, mentre lei si abbassava appena e portava il suo viso più vicino a quello del bambino, guardandolo curioso, mentre le labbra si erano assottigliate, prima di sbocciare in un altro gentile e tenero sorriso.

-Io sono Margaret. – trillò felice, tornando in posizione eretta e tendendogli la mano. Shade timidamente la strinse e poi si sentì avvolto in un piccolo bozzo di calore delicato. Da quanto tempo nessuno lo abbracciava? Gli erano sembrati anni, o forse secoli.

Il suo viso venne immediatamente solleticato da quei fili scarlatti, ma chiari come il colore delle carote; forse di un tenue ramato e si sentì come sdraiato in un campo di margherite e come un girasole alla ricerca del sole; si sentì leggero e allo stesso tempo udì una serratura aprirsi.

Ed eccole le lacrime trattenute, eccolo il dolore che aveva cercato di nascondere con i suoi bellissimi sorrisi che erano ineguagliabili, radiosi come stelle fredde che brillavano nel cielo, lontane, ma così luminose da essere più visibili in quel manto scuro che celava un mondo infinito e pieno di misteri che dovevano essere solo accolti e accarezzati dolcemente da qualcuno.

La bambina sorrise, mentre faceva passare le sue dita sottili tra quei morbidi capelli che all’epoca sapevano di muschio, miele e una punta di zenzero.

Restarono abbracciati per attimi interi, rinchiusi in quel bozzolo fatto di margherite e lacrime, mentre il sole iniziava a colorare il cielo dei suoi colori, in un attimo fuggente che non sarebbe durato mai più di qualche secondo.

Fu proprio in quel momento, quello dell’alba che Shade si distaccò e si asciugò gli occhi. Non voleva più piangere o farsi vedere debole, ma era grato a Margaret per avergli ricordato cosa fosse il calore; le accarezzò quindi il viso e le baciò innocentemente una guancia.

Quando si scostò sorrideva, la tristezza non se ne era andata, c’era ancora, ma era stata resa più dolce da quel pianto silenzioso e liberatorio che gli aveva sanato per qualche minuto l’anima.

Margaret sorrise di rimando, mentre anche lei posava un bacio su una di quelle morbide guance leggermente arrossate per l’imbarazzo; era la prima volta che il bambino riceveva un bacio da qualcuno che non fosse sua madre.

-Lo sai che il tuo sorriso è bellissimo? – squittì lei, trascinandolo poi alla finestra ed indicando il sole –E’ bello come l’alba! -.

Shade si fece leggermente ancora più rosso. –Grazie. – mormorò appena prima di posare i suoi occhi su quel paesaggio quasi incantato.

   
 
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