Prologo
La
stazione di polizia era immersa nel silenzio. Di tanto in tanto si sentiva una
porta aprirsi e qualche passo, ma nulla di più. Le lancette dell’orologio, si
muovevano senza emettere un suono e con una lentezza esasperante.
Vergo,
capo della polizia e amico di vecchia data di suo padre, leggeva concentrato il
suo giornale, senza alzare gli occhi su di lei.
Di
solito, era una persona molto gentile e amichevole, soprattutto con lei.
Ma
quella sera, tutto l’affetto che provava nei suoi confronti sembrava essere
svanito.
Quando
l’agente Smoker era entrato nella centrale e aveva spiegato cosa avessero fatto
lei e i suoi amici, Vergo aveva scosso la testa, sussurrandole che quella volta
non se la sarebbe cavata tanto facilmente.
E
dire che per una volta la colpa non era affatto sua. Era l’unica persona a non
avere alcuna responsabilità, eppure era l’unica a trovarsi alla centrale. E non
era servito a nulla fare i nomi e narrare l’accaduto diecimila volte: i suoi
amici erano riusciti a fuggire, mentre la sua corsa si era fermata a causa di
una storta alla caviglia.
Sicuramente,
quella sarebbe stata la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso: i suoi
genitori l’avevano già avvertita più volte ed era certa di aver sentito sua
madre urlare la parola “collegio” mentre parlava con Vergo al telefono.
In
poche parole, era fottuta.
La
porta d’ingresso si aprì per l’ennesima volta, mettendo fine all’agonia di
quell’attesa. Si sarebbe aspettata di vedere suo padre o sua madre, magari
entrambi furenti per essere stati disturbati nel cuore della notte.
Di
certo, non avrebbe mai creduto di vedere suo zio entrare nella centrale, con la
sua camminata rilassata e un’espressione di totale indifferenza sul volto, come
se la sua presenza avesse il solo scopo di fare un saluto al capo della
polizia.
In
un primo momento si rivolse solo a lui, chiedendogli informazioni sull’accaduto
e sulle conseguenze che ci sarebbero state. Infine, dopo averlo salutato con
una pacca sulla spalla, si girò verso la nipote, facendole cenno di seguirlo.
Si
alzò, iniziando a zoppicare verso l’uscita e accettando volentieri l’appoggio
offertole dall’uomo.
“Che
hai fatto alla caviglia?” s’informò. La sua voce era dura, ma non nascondeva
una nota di preoccupazione.
“Ho
preso una storta mentre correvo” rispose, con una smorfia.
“Sui
tacchi? Complimenti, proprio una genialata. E per fortuna che non sono scarpe
molto alte! Vuoi andare in ospedale?”
“No,
ci avevo già messo il ghiaccio, penso di riuscire a cavarmela con una pomata e
una fasciatura”
“Come
vuoi. Se dovesse peggiorare ci andiamo domani mattina” disse, mentre l’aiutava
a salire in auto.
Per
un po’ tra i due calò il silenzio, la tipica pausa ad effetto che lui le
concedeva per riordinare le idee e raccontare l’accaduto, per poi decidere se
aiutarla e in che modo.
“Eravamo
usciti dal locale, perché gli altri stavano per iniziare una rissa. Stavamo
tornando in centro, dove avevamo lasciato la macchina e siamo passati davanti
ad un negozio. Stelly sapeva che era il negozio di Killer ed è corso in
macchina a prendere la mazza da baseball. Gli avevo detto di non farlo, ma lui
e i ragazzi non mi hanno ascoltato e hanno cominciato a sfasciare le vetrine.
Poi è suonato l’allarme e stavamo per scappare, ma io mi sono fatta male e
Smoker era nei paraggi. I ragazzi se la sono filata e io sono rimasta lì da
sola” spiegò, tenendo gli occhi fissi sul volto dell’uomo.
“Ma
perché eri con loro? Non eri uscita con Sady-chan?”
“Sì,
ma se n’è andata con un tipo che ha conosciuto. Così ho visto i ragazzi e ho chiesto
loro un passaggio”
Lui
sospirò, arrabbiato: “Avresti potuto chiamare i tuoi genitori, oppure me! Sai
che quei ragazzi non sono una compagnia affidabile!”
“All’una
di notte? Papà mi avrebbe uccisa!” esclamò, arrabbiata.
“Perché,
credi che non lo farà appena torni a casa? Annabelle, devi iniziare a pensare a
quello che fai! Se ci avessi chiamati, ora non ti troveresti in questo casino!
E non è tanto per le conseguenze del gesto, quanto per quello che succederà con
tuo padre!”
“Quali
saranno le conseguenze?” chiese preoccupata.
“Nessuna
denuncia a tuo carico, le telecamere hanno ripreso tutto”
“Ma
allora Vergo…”
“Vergo
ti salva sempre insabbiando tutto quanto, ma oggi ha deciso di non farlo”
“Proprio
stavolta che non ho commesso nessun crimine? Bella idea davvero!” affermò
sarcastica.
“Ha
agito così perché devi prenderti le responsabilità delle tue azioni e smettere
di frequentare cattive compagnie. E io penso che abbia ragione”
“Cosa?
Credevo che almeno tu fossi dalla mia parte!” si lamentò, sentendo di essere
pericolosamente vicina alle lacrime: se nemmeno zio Cora era disposto ad
aiutarla, era veramente la fine.
“Annie…
io sono dalla tua parte. Ma l’hai combinata davvero grossa e non te la caverai
con due settimane di punizione”
Una
volta giunti davanti alla porta di casa, Annabelle scese dall’auto sbattendo la
portiera. Salì le scale che dal seminterrato conducevano al piano terra,
cercando di andare veloce nonostante il dolore alla caviglia. Ignorando i
richiami di suo zio, si recò in cucina per recuperare un po’ di ghiaccio dal
freezer.
“Ti
serve una mano?” chiese l’uomo, addolcendo il tono della voce.
“Mi
arrangio” replicò arrabbiata.
Quando
si voltò per recarsi nella sua stanza, trovò suo padre appoggiato alla porta,
intento a sorseggiare un liquido ambrato direttamente dalla bottiglia.
Si
avvicinò al fratello e alla figlia, stanco e furioso. Nessuna parola era
necessaria, Annabelle lo sapeva: anzi, se solo avesse osato pronunciare una
sillaba, avrebbe dato vita ad una discussione che sarebbe potuta andare avanti
fino all’alba.
Quindi
senza degnarlo di uno sguardo lasciò la stanza, diretta in camera sua, dove, ne
era certa, avrebbe trascorso la notte più brutta e angosciante della sua vita.