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Autore: allonsy_sk    05/02/2015    3 recensioni
Trovata. MH
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Dettagli a seguire. MH
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Trovata, femminile. Se si trattasse di Mary difficilmente Sherlock avrebbe interrotto le effusioni che lui stesso ha preteso. Gliel'avrebbe detto domani, con calma e a mente fresca. Anche perché c'è un solo motivo per cui Mary potrebbe essere ritrovata, e anche quello non sarebbe stato un argomento da tirare fuori a quest'ora. Lo stesso Mycroft avrebbe evitato di comunicarlo fino al mattino.
Ma se non è Mary...
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Come Home'
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2 – Allegretto quasi minuetto – La mattina dopo

 

Per quanto a Mycroft Holmes possa spiacere l'intervento diretto sul campo, ci sono faccende che ne giustificano la sgradevole necessità.

Andare a recuperare Sherlock in Serbia, quella volta, per esempio, o fare da riluttante tramite agli sporadici contatti tra Sherlock e John durante le successive separazioni.

O restare seduto per tutto il pomeriggio e tutta la notte nella saletta d'attesa di una clinica tanto privata da essere quasi un'associazione segreta.

D'altra parte, deus ex machina è il suo secondo nome, e le macchinazioni non sempre hanno completo successo se progettate interamente dietro ad una scrivania.

In questo caso non c'è precisamente un suo disegno, quanto il completamento di una lunga ricerca. Lunga, difficile, faticosa e delicata visto l'oggetto stesso del cercare. Il suo intervento personale è pertanto imprescindibile, perché si tratta di una missione alquanto personale e delicata.

Fortunatamente, Mycroft Holmes non ha mai sofferto la noia. Se provvisto di libri e riviste in quantità sufficiente, e qualche volta anche privo di tali svaghi, è stato capace di lasciar scorrere infiniti viaggi in treno e pigre vacanze estive da ragazzo, infinite riunioni e colloqui e interviste e interrogatori molto più spiacevoli da adulto. Con una mente come la sua non è difficile distinguere due tracciati diversi, percorrere quello più aderente al proprio dovere con attenzione, pur lasciando l'altra traccia libera di svagarsi secondo il proprio piacere.

Se poi il blocchetto di periodici vecchiotti in sala d'aspetto – certe cose non cambiano a seconda del pregio di un'istituzione – e il libro in formato tascabile infilato nella tasca della giacca non fossero abbastanza, Anthea gli ha fornito un costante, inesorabile resoconto di tutte le faccende rimaste in sospeso in ufficio, insieme al bollettino medico della bambina.

Se non avesse chiuso gli occhi in un punto imprecisato della prima mattinata, potrebbe giurare di non aver trascorso più di pochi secondi senza il trillo degli sms di Anthea. È sicuro che la donna dorma, di tanto in tanto, è certo anche di averla sorpresa nell'atto una o due volte durante il loro sodalizio lavorativo, ma questa notte non ne sarebbe una prova.

Ad essere totalmente sincero, per una volta non ha processi mentali da sprecare per qualsiasi importante manovra politica o di intelligence rimasta in sospeso a causa della sua assenza.

Ha trascorso parti considerevoli degli ultimi cinque anni abbondanti alla ricerca della bambina. Certo, non è mai stata la sua unica missione, ma il fatto che sia un genio del multitasking non implica una minore attenzione o una minore importanza di una o dell'altra.

Non ha mai desiderato una famiglia, nel senso più tradizionale del termine. Si è sempre ritenuto perfetto nella propria intoccabile, inattaccabile solitudine della quale a stento Sherlock riesce a scalfire la superficie. I suoi genitori non sono che luci lontane e sfocate nella nebbia, parole troppo leggere per essere pronunciate con forza. Sono innocui e noiosi, e nonostante il suo cuore sia inerte ai palpiti più gentili che pure sembrano aver coinvolto – no, travolto – Sherlock (è sempre stato sentimentale, anche se ha fatto di tutto per negarlo), non può disprezzarli.

Forse è quell'anniversario così tondo e definitivo che penzola sulla sua testa con l'aria di una sentenza – cinquanta, cinquanta, cinquanta – ad averlo finalmente indebolito, o forse è stata l'aria perfetta del viaggio in Italia, un anno fa. Pareti e tende bianche su un cielo color lapislazzuli e laggiù un mare che parla di Grecia e riluce di gioielli.

No, no, il bel sorriso pieno e soave di Anna Hiddlesworth non ha niente a che vedere con- con nulla. Con niente.

Ma cinque anni trascorsi a cercare la bambina hanno avuto lo stesso effetto che la continua caccia ad un criminale dai modi particolarmente efferati ha sull'inseguitore. L'attenzione si trasforma involontariamente in curiosità, e senza per forza virare nell'ossessione patologica, si sviluppa quasi in una specie di affetto riluttante.

La bambina non gli è nulla, non sono imparentati da legami di sangue, non è neanche figlia biologica di John Watson e semmai la sua combinazione genetica andrebbe temuta, ma c'è poco da fare. È comunque sua nipote, e averla cercata con tanta insistenza l'ha reso appena appena meno riluttante ai propri doveri di zio e, per il momento, custode.

Per qualche motivo questa notte non si sarebbe fidato di nessuno al mondo per tenerla d'occhio. Non che gli manchi la sorveglianza vera e propria. L'edificio è costellato di telecamere, lo staff è controllato e certificato, e Anthea è stazionata in una poltroncina in camera della bimba.

“Non sembra avere paura di niente, capo, ma viste le circostanze è meglio che ci sia una donna con lei, se per te va bene,” ha detto Anthea ancora il pomeriggio prima, e Mycroft ha dovuto riconoscere il buonsenso dell'affermazione e, ancora di più, la fermezza della donna dietro l'apparente richiesta di permesso.

Un bambino è un bambino, anche se dotato di una mente geniale, e la piccola Watson non fa differenza.

Anthea compare in sala d'aspetto poco prima delle sette, cellulare stretto tra le dita e aria efficiente ancorché leggermente arruffata. Mycroft suppone di avere un aspetto simile e non commenta, né a parole, né con l'espressione.

“È sveglia e ha insistito per lavarsi e vestirsi da sola e senza assistenza,” annuncia Anthea, senza riuscire a trattenere un pizzico di divertimento che trapela nelle sue parole e le fa brillare gli occhi. “Dopo colazione è tutta tua, capo.”

“Voglio soltanto parlarle, Anthea, non farle il terzo grado.”

Anthea non risponde, non lo guarda neanche, ma gli scocca un sorriso indiretto e professionale che nasconde una sottile vena di ironia, e lascia la stanza.

Mycroft approfitta della sua uscita per alzarsi e stirarsi un po', darsi una sommaria rinfrescata e controllare alcuni documenti urgenti – non tutto può attendere che gli passi questo attacco di sentimentalismo inopportuno - raddrizzandosi poi la cravatta e il colletto della camicia nello specchio vicino all'ingresso.

“È ora di andare in guerra,” si dice piano, senza sapere quante volte suo fratello ha pronunciato quelle stesse parole, e non di fronte a un pericolo mortale o ad una situazione potenzialmente letale. Oh, no, la guerra non è costituita dal pericolo, dal crimine o dalla morte. La guerra è avere a che fare con le persone, e con i sentimenti che quelle persone portano con sé o suscitano. Contro i sentimenti è quasi impossibile creare una facciata del tutto impermeabile, e per quanto la cosa sia assurda, Mycroft ha l'assoluta certezza di essere debole nei confronti di una bambina di soli sei anni.

Trova la piccola Watson seduta composta su di una poltroncina in quella che è chiaramente un'area per bambini. Ci sono libri e giocattoli colorati sparsi ovunque sul tappeto morbido che copre la maggior parte del pavimento, ma la bambina siede senza gingillarsi e legge un libro che chiaramente non proviene dalla sezione infantile dell'esigua biblioteca.

La bambina alza lo sguardo su di lui quando entra e si avvicina, appoggiando la valigetta accanto ad un'altra poltrona, e lasciando sul bracciolo un mazzetto di documenti.
È questa la sua prima impressione della piccola Watson, il suo sguardo chiarissimo e curioso su di lui, come se fosse in grado di leggerlo con una sola occhiata. Il gesto, evidentemente connaturato ma non più inconsapevole, gli fa subito venire in mente Sherlock alla stessa età, con la stessa luce incuriosita e attenta negli occhi e un atteggiamento troppo adulto e intelligente per i pochi anni di vita.

“Buongiorno,” le dice, un po' troppo formale. La bambina inclina leggermente la testa di lato in un cenno di saluto, sbatte le palpebre, gli augura il buongiorno con tono chiaro e tranquillo. Tornerebbe al suo libro, ma è curiosa e prosegue a esaminarlo a piacimento.

Mycroft si siede.

“Come ti chiami? Mi diresti il tuo nome completo?”

“Wilhelmina Jean Watson. Puoi chiamarmi Billie,” annuncia, e il suo tono non è molto diverso da quello di Sherlock, più di trent'anni fa, quando ha rifiutato una volta per tutte di essere chiamato 'William' dai nonni paterni, da sempre più inclini ad un nome semplice e tradizionale.

“Tu sei Mycroft Holmes, vero?”

Capacità di lettura molto avanzate, senza dubbio, pensa Mycroft sentendo il proprio sopracciglio innalzarsi di sua spontanea volontà. Billie ha letto sottosopra uno dei documenti appoggiati sul bracciolo della poltrona. Li rivolta a faccia in giù senza perdere un battito e senza perdere il contatto visivo con la bambina.

“Corretto. Quanti anni hai?”

“Sei e quattro mesi. C'è un'enciclopedia qui? Oppure posso usare il tuo telefono? Devo fare una ricerca.”

“Che ricerca?”

“Capitale della Corea del Nord, non me la ricordo.”

Ah. I documenti a faccia in giù – proprio quelli super segreti sulle elezioni in Nord Corea – spariscono prima di subito nella valigetta, appoggiata per maggiore sicurezza dall'altro lato della poltrona.

“Sei mai stata a scuola?”

A questa domanda l'aplomb perfetto di Billie si incrina, lasciando lo spazio alla smorfia disgustata e spontanea di una bambina.

“Un po', quando eravamo in Arizona. Non mi piaceva. Erano stupidi e mi prendevano in giro per l'accento. Allora ho imparato a parlare come loro. Vuoi sentire il mio accento americano?”

“Un'altra volta. Dove hai vissuto? Te lo ricordi?”

Billie annuisce e chiude il libro – è “Un Americano alla Corte del Re Artù” senza orecchie né segnalibri e una copertina che non tradisce l'edizione adattata per l'infanzia – e inizia a contare sulle dita.

“Negli Stati Uniti... Arizona, vicino a Manzanar. Lo sai che Manzanar si chiama così perché c'erano dei frutteti? Era pieno di mele, ma dopo è diventato un deserto.Poi anche a Los Angeles. Poi in Russia, poi in Irlanda. Prima di Manzanar non mi ricordo.”

“Ascoltami... Billie,” prosegue Mycroft con cautela. Secondo tutte le analisi e le valutazioni a cui è stata sottoposta, la bambina è perfettamente sana, nel corpo e nella mente. Non sembra sotto shock, non sembra aver mai assunto droghe, è di costituzione e peso normali, pur essendo un po' piccola di altezza per l'età. Compensa comunque la taglia ridotta con la straordinaria percettività e il livello di cultura personale. Legge come un'adulta e sembrerebbe essere in grado di parlare almeno due lingue con notevole scioltezza.

Sul piano della pura e semplice sicurezza di tutte le persone coinvolte, la bambina non aveva indosso chip o congegni di nessun tipo, niente che facesse pensare a rivelatori di posizione, microspie, esplosivi.

“Tu vuoi parlarmi della mamma,” risponde la bambina, alzando lo sguardo chiarissimo e limpido.

“Proprio così.”

La bimba fa spallucce.

“Io lo so cosa è successo. Io so tutto,” dice Billie, con una tranquillità che non può essere del tutto vera o sana. Mycroft prende nota, va seguita da uno specialista, anche solo a scopo preventivo.

“Però con me era buona e ora mi manca. Almeno posso andare da papà, adesso?”

Oh, questo non se l'aspettava.

“Cosa sai di tuo padre?”

In maniera del tutto inaspettata, Billie si illumina tutta con un sorriso che finalmente dimostra quanto è piccola e indifesa, niente più di una bambina.

“La mamma mi ha raccontato un sacco di cose su di lui. Mi ha mostrato le foto. Mi ha detto che è buono e che mi vuole bene.”

“Cos'altro ti ha detto?”

Un proiettile nel mezzo del torace non depone proprio a favore di lodi sperticate, soprattutto quando quel proiettile era destinato ad un rivale troppo pericoloso e intelligente per ridursi ad essere soltanto un complice perfetto. Oh, in un'altra vita, senza John Watson a fare da involontario fulcro, Mary e Sherlock avrebbero potuto condividere la più folle e malata delle amicizie, e farlo come pari grado. Mary può aver detto qualsiasi cosa a Billie, ma ipotizzare odio cieco e maldicenza non rende giustizia alla sua furbizia e alla sua lungimiranza.

No, no.

“Ha detto che forse avrò due papà, non soltanto uno. Ma ha detto che devo chiederlo a te. E se mi dici di sì, devo leggere una lettera che mi ha lasciato.”

Una pausa.

“L'ho già letta. Ho aperto la busta con il vapore e poi l'ho richiusa. Forse la mamma se n'era accorta,” prosegue la bambina, senza una traccia di senso di colpa ma con un senso di urgenza. Ha fretta di arrivare alla fine del discorso e Mycroft, suo malgrado, si sente incuriosito a sua volta, e colpito dal modo in cui Mary ha predisposto tutto con cura e precisione. Probabilmente immaginava che, prima o poi, il suo passato l'avrebbe raggiunta, e ha progettato il miglior futuro possibile per sua figlia. Notevole, deve riconoscerlo.

“Cosa diceva?”

Billie sorride di nuovo, giocherellando con il grosso libro ancora stretto tra le mani.

“Non ti sei sorpreso quando ho detto 'due papà', quindi vuol dire che è come diceva lei, vero?”

“Posso vedere la lettera, Billie?” domanda Mycroft, senza confermare né smentire. La bambina annuisce, estrae quello che è piuttosto un grosso plico un po' spiegazzato dallo zainetto colorato appoggiato ai suoi piedi e glielo porge.

“Dopo posso andare, vero? Qui è noioso,” prosegue Billie, con una smorfia degna di Sherlock, ma Mycroft non le presta molta attenzione.

La 'lettera' di Mary a sua figlia è una via di mezzo tra un fascicolo confidenziale su Sherlock e la lettera di un fan ad una celebrità, con tanto di pregevoli foto allegate.

L'ultima volta che Billie ha visto John o Sherlock è stato quando era troppo piccola per ricordarlo, ma grazie a sua madre possiede un dettagliato dossier su entrambi, e ne è già perdutamente infatuata.

“Dopo pranzo partiamo per Londra, ti porto a casa,” annuncia Mycroft, restituendole il fascicolo.

A Billie sfugge un'acuta esclamazione di gioia che culmina in uno slancio affettuoso e in un minuscolo bacio sulla guancia di Mycroft.

Che strano, il lieve e affettuoso contatto è sufficiente a far deviare di nuovo i suoi pensieri verso un cielo troppo azzurro e case troppo bianche e... Billie sta ridendo, sventolandogli qualcosa sotto il naso con aria soddisfatta, persino maliziosa.

Santo cielo, la marmocchia gli ha rubato il portafogli.

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