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Autore: emotjon    24/02/2015    9 recensioni
Lui, tuono e tempesta.
Lei, emozione e disincanto.
Insieme, un accordo di corde e suoni, pelle e sensi. un melodia che vibra sulle corde del cuore.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Zayn Malik
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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2. Sinfonie ad occhi chiusi.


 
Le palpebre ancora socchiuse dalla stanchezza, la ragazza dai capelli ricci, gli occhi grigio-verde e il nome di una gitana si passò una mano dietro la nuca grattandone appena la pelle e cercando di tenere a freno l’istinto che le diceva di uccidere il proprio migliore amico seduta stante. Cercava di pensare al ritmo immaginario che stava tenendo col leggero battito di uno degli anelli che portava alle dita contro l’enorme bicchiere colmo di concentrato di caffeina che teneva in mano. Cercava di respirare a fondo per non mettersi a imprecare nel bel mezzo del corridoio affollato di prima mattina. Cercava di sfogare le energie fin troppo sveglie che le venivano versate contro la pelle e la tazza di caffè, per non venire alle mani con l’unico ragazzo che si prendeva la briga di svegliarla ogni mattina perché non perdesse le lezioni – fosse stato per lei, infatti, a quell’ora sarebbe ancora stata sotto le coperte fino al naso, con gli occhiali sul comodino e solo il proprio sonno profondo a farle compagnia.
Ma Michael non voleva saperne di smettere di parlare, gesticolandole di fronte in un modo che in quel momento avrebbe preferito non esistesse. In realtà avrebbe semplicemente preferito essere ancora a letto, con gli spartiti in (dis)ordine sulla scrivania e nessuna parola detta a voce troppo alta a fracassarle i timpani fin troppo sensibili. E Michael davvero non voleva saperne di smettere di parlare, così la ragazza fu costretta a sospirare e mettergli una mano sulla bocca senza troppi complimenti, facendolo ridacchiare – almeno però sarebbe stato in silenzio quanto bastava per farla riprendere dal troppo poco sonno di cui aveva goduto durante la notte.
«Puoi stare zitto almeno per il tempo che mi ci vuole per finire il caffè?». Ti supplico.
Allora il ragazzo sollevò finalmente le mani come per arrendersi, spingendola con un solo sguardo a liberarlo della sua mano sulla propria bocca. «Certo, dolcezza». Ma non disse altro, intimorito ma perlopiù divertito dallo sguardo decisamente assassino della migliore amica, che quella mattina avrebbe davvero voluto sbatterlo poco delicatamente contro il primo muro disponibile. Le rivolse un mezzo sorriso, mentre lei gli faceva la linguaccia e tratteneva un sorriso in risposta, nascondendolo nel bicchiere di carta dal quale prese un generoso sorso di caffè.
Aveva questo sorriso terribilmente contagioso, Michael. Un sorriso che compariva per la minima sciocchezza, un sorriso che rendeva allegri anche solo a scorgerlo da lontano. Un sorriso che per Esme era quasi come cantare, quasi come ossigeno e azoto e idrogeno. Un sorriso che riusciva a tirarla su quando crollava e la musica non riusciva a nascere, a montarle dentro, ad arrivarle al cuore. E aveva un paio di occhi che ricordavano il mare d’inverno, Michael; due occhi un po’ blu e un po’ grigi che le ragazze si incantavano a guardare estasiate, perché essi riuscivano a sorridere quasi quanto riuscivano a fare le sue labbra; due occhi che riuscivano a capirti, ad annuire, a dispiacersi, a stare male per te, a commuoversi… a cantare, perfino.
Il ragazzo le portò un braccio intorno alle spalle, in religioso silenzio quella volta, stringendosela un po’ più vicina come a dirle che tanto l’avrebbe sopportata e le avrebbe voluto bene anche se avesse minacciato di ucciderlo per la sua voce – troppo squillante di prima mattina – in tutte le lingue del mondo conosciute. Le strappò l’accenno di una risata, mentre continuava a bere caffè e continuavano a camminare per il corridoio diretti alla prima lezione della giornata, che onestamente Esme nemmeno ricordava quale fosse.
Altre palpebre invece si erano chiuse a stento, quella notte. E mentre la ragazza riccia si riempiva di caffeina per svegliarsi, un ragazzo dalla carnagione caffelatte si scostava una ciocca di capelli umida di sudore dalla fronte, smettendo improvvisamente di suonare al sentire una delle pesanti porte di legno dell’auditorio cigolare nell’aprirsi.
Aveva cercato di chiudere gli occhi e abbandonarsi al sonno, la sera prima, ma non c’era stato verso che riuscisse a smettere di pensare a certe note, certi movimenti, certi capelli ricci e certi occhi dei quali aveva potuto solo immaginare il colore dato che – quando cantava – lei  lo teneva sempre nascosto, abbassando le palpebre ed escludendo tutto il resto. Aveva provato a smettere di pensarci o a smettere di immaginare una serie di note, che alla fine aveva dovuto scarabocchiare all’angolo di un quaderno perché non andassero perse. Aveva provato – davvero – a dormire, ma c’erano troppi pensieri a tenerlo sveglio, perché riuscisse a rilassarsi e ad abbandonarsi alle braccia di Morfeo.
Quindi si era legato i capelli alla meno peggio, si era passato una mano sugli occhi e aveva represso uno sbadiglio, prima di infilarsi una canottiera bucata sui pantaloncini da basket che usava per dormire, prima di recuperare il violoncello elettrico e l’amplificatore e portare tutto di sotto, nel teatro. Passando per i corridoi deserti col più lugubre dei silenzi a riempirgli le orecchie, interrotto solo dal proprio respiro assonnato e dal leggero cigolio delle ruote del piccolo carrello col quale trasportava la propria attrezzatura ovunque.
E si era semplicemente messo a suonare, allenandosi con la pedaliera e sperimentando nuovi accordi, nuove melodie, nuove note. Suonando per spegnere il cervello e smettere di pensare; suonando per isolarsi, fino a sentire il sudore colargli lungo la schiena, le gambe fargli male per la posizione in cui le costringeva suonando e le dita bruciare per il contatto con le corde e l’attrito con l’archetto che continuava a muoversi avanti e indietro e a picchiettare sulle corde quasi a caso, ma componendo la migliore delle melodie – violenta, cruda, nulla a che vedere col violoncello classico.
Si era semplicemente messo a suonare, passando la notte in bianco, ma senza pentirsene nemmeno per un istante.
Schiacciò quindi uno dei pedali dell’amplificatore per spegnerlo – distratto dalla porta che si apriva – prima di sollevare lo sguardo dallo strumento e dall’ultimo movimento che l’archetto che teneva tra le dita stava compiendo e incontrare un paio di occhi verde giada che lo osservavano divertiti e una massa confusa di capelli colorati di celeste – rasati sul lato destro e lunghissimi dalla parte opposta, strani e meravigliosi esattamente come la persona che li portava.
«Ero passata a svegliarti… e ti ho preso dei vestiti puliti, con la chiave di riserva», aggiunse la giovane avvicinandosi al palco e mostrando all’amico un borsone che doveva aver preso dalla sua camera al piano di sopra, camminando sul paio di scarpe alte che indossava come se stesse camminando a piedi nudi sulla sabbia – come fosse quindi la cosa più naturale del mondo. «E la notte è fatta per dormire, tesoro…», gli fece notare salendo i pochi scalini che li dividevano, posando il borsone sul parquet e scostandogli i capelli dalla fronte sudata per posarvisi un bacio leggerissimo, attenta a non sbavarsi il rossetto.
Aveva il vizio di baciargli la fronte per fargli capire che era preoccupata per lui invece di dirlo, Sky. Glielo si leggeva negli occhi verdi e nel sopracciglio scuro leggermente inarcato, ma aveva anche la brutta abitudine di toccare le persone, Sky, anche solo sfiorarle, accarezzarle appena, sentirle in punta di dita o assaporarle delicatamente sulle labbra. Era una ragazza tutta tacchi alti, jeans aderentissimi – da far fatica ad allacciarli – e pancia scoperta per lasciar intravedere il piercing che le ornava l’ombelico; era il genere di persona che il ritmo lo sentiva dentro, che picchiettava le dita ovunque a creare qualcosa di nuovo o a suonare qualcosa che le piaceva abbastanza da rimanerle addosso a vita. E sorrideva poco, Sky, ma quando lo faceva era davvero una delle cose più belle che si potessero vedere.
«Troppi pensieri per riuscire a chiudere occhio, tesoro…», le fece il verso, senza riuscire a trattenere una mezza risata, anche se era una risata stanca e appena somigliante alla sua solita allegria e al suo solito entusiasmo. Si concesse uno dei suoi meravigliosi sorrisi solo quando la vide alzare gli occhi al cielo e la sentì sbuffare, con l’eco del suo respiro che si scontrava contro le pareti insonorizzate e tornava indietro come a farle un dispetto. «E poi, tu sei la prima che la notte fa altro, invece che dormire», aggiunse concedendosi una risata di quelle vere, che la fece borbottare qualcosa che detto con quel tono di voce nessuno sarebbe riuscito a capire.
«Se io fossi quella ragazza mi sarei già spaventata, comunque… sei uno stalker, cazzo!», lo prese in giro – con ancora quella mezza risata a risuonarle nelle orecchie – dandogli una spinta non proprio amichevole ad una spalla che dentro di sé lo fece ridere anche più forte ma che esteriormente gli fece solo mordere un labbro e inarcare il sopracciglio col piercing, divertito oltre ogni limite dalla reazione decisamente esagerata della migliore amica.
A lei aveva raccontato tutto, compreso il suo nuovo e appena sbocciato amore per la sala di registrazione dove quella ragazza di cui sapeva solo il nome e aveva memorizzato ogni dettaglio cantava tutte le sere, con le cuffie nere sui ricci, il microfono con gli strass blu e quella voce che sembrava provenire un po’ dal paradiso e un po’ dall’inferno, come fosse il centrifugato perfetto di angelo e demone e nemmeno ne fosse consapevole, Esme. A Sky Zayn aveva raccontato quanto gli piacesse entrare in sala e osservarla cantare, vedere le sue labbra muoversi ad articolare le parole e percepire le sue mani nell’aria intorno a lei come se le avesse addosso, a sfiorarlo nel più muto ma rumoroso dei sospiri.
A Sky l’aveva detto, ma lei si era limitata a ribattere che doveva essere sicuramente uscito di testa come mai era successo prima, se si limitava ad osservare una ragazza muoversi davanti ad un microfono e a sentirla cantare, invece di agire. Presentarsi. Almeno farsi vedere! La ragazza dai capelli celesti non gli aveva chiesto poi molto. Ma lui era come bloccato nella sua bolla di pensieri e note che continuavano a vorticargli intorno per poter anche solo pensare di darle ascolto.
«Devi sentirla cantare per capire».
E la ragazza scoppiò a ridere, con una mano a tenere ferma la tracolla sulla spalla e l’altra a tenersi lo stomaco per le troppe risate, troppo divertita dalla logica dell’amico. Devi sentirla cantare per capire. Andiamo! A Sky sembrava decisamente di essere in uno di quegli scadenti film romantici che finiva per guardare quando si ritrovava bloccata sul divano per il ciclo con una scorta di cioccolata e fazzoletti da far paura. Scoppiò a ridere, continuando a guardare Zayn che, nonostante il mezzo sorriso sulle labbra, era dannatamente serio.
«Io ti prenderei comunque per stalker», gli disse, sempre divertita e con un mezzo sorriso ad illuminarle appena il volto sotto le luci diffuse del teatro. E ancora rideva, con gli occhi che le brillavano di ironia, quando finalmente il moro si decise ad alzarsi e a liberarsi del violoncello posandolo contro la sedia appena abbandonata, prima di raggiungere la ragazza da dietro e sollevarla da terra tenendola per i fianchi e facendola ridere ancora, come solo lui era capace di farla ridere. «Sei tutto sudato, cazzo!», esclamò col respiro bloccato in gola e l’ennesima risata a formarlesi nei polmoni, mentre lui nonostante la stanchezza le rideva tra i capelli celesti e nell’orecchio mandandole un brivido lungo la schiena e rendendole le gambe molli.
Perché onestamente Zayn faceva quell’effetto a chiunque, e non era un segreto.
Faceva effetto alle ragazze della sua stessa orchestra, alle musiciste “alternative” come Sky, che suonava la batteria per il semplice motivo di avere un senso del ritmo troppo fuori dal comune per non sfruttarlo. Faceva effetto alle ragazze che si fermavano ad ascoltarlo suonare appena fuori dal teatro, coi brividi lungo la schiena e tutti quei sospiri che sfuggivano loro senza che riuscissero – o provassero – a fermarli. Faceva effetto a chi ne aveva solo sentito parlare e non l’aveva mai visto né sentito suonare. E faceva lo stesso effetto anche alle cantanti, per quanto Esme si ostinasse a dire il contrario e a negare l’evidenza.
Roxanne, ad esempio, aveva un debole innato per i musicisti – in particolar modo per i chitarristi, ma in fondo chiunque suonasse uno strumento, anche solo le nacchere, aveva la sua stima più profonda. Aveva il vizio di canticchiare ovunque si trovasse, lei, con quei capelli rossi troppo rossi per essere naturali e quegli occhi troppo scuri per poter distinguere l’iride dalla pupilla. Aveva la brutta abitudine di parlare a vanvera e di gesticolare e di sistemarsi la frangia anche quando non c’era alcun motivo di sistemarla perché era perfetta così com’era, lei. Aveva il vizio di ridere forte fregandosene delle espressioni o dei pensieri delle persone e aveva l’abitudine di fermarsi in fondo alle aule di musica quando gli altri facevano lezione, con le palpebre abbassate e le labbra schiuse che si muovevano canticchiando senza voce parole solo suonate.
Roxanne aveva un debole innato per un musicista in particolare. Le piaceva il suo modo di abbracciare la chitarra come se stesse abbracciando una ragazza, un’amante e un’amica tutto nello stesso istante. Le piaceva tenere gli occhi chiusi mentre lui suonava, qualsiasi cosa suonasse – anche se invece di cantare mugugnava, perché era comunque meraviglioso ascoltarlo e immaginare che quelle dita indurite dai piccoli calli provocati dalle corde dello strumento la sfiorassero, anche solo per sbaglio, o per gioco. Le piaceva salutarlo con gli occhi e arrossire, quando lui si accorgeva di lei ma continuava comunque a suonare, a mugugnare le parole e a sbuffare quando un accordo non gli riusciva, perché in fondo Niall non aveva il coraggio di stare a guardarla per più di una manciata di secondi senza avvampare – e ne sapeva perfettamente il motivo, ma tentava di ignorarlo, pur suonando la canzone dei Police che le dava il nome, con le palpebre che gli sfarfallavano fino ad abbassarsi e il cuore che gli batteva più forte del solito nel petto.
E Iris aveva i capelli biondo grano almeno quanto quelli di Roxanne erano tinti di rosso.
Iris amava ballare tutta la notte, con le braccia lanciate verso il cielo, il sudore che le scivolava giù per la schiena scoperta, le luci stroboscopiche che le confondevano e le offuscavano la vista e la musica troppo alta che le entrava dentro e le faceva cantare a squarciagola quelle parole che avrebbe voluto essere capace di scrivere lei. Aveva questi capelli color grano portati a caschetto che alla luce sembravano raggi di sole, il nome di un fiore ancora sbocciato a stento e un paio di occhi che senza troppi giri di parole erano azzurri – azzurri e basta.
Aveva una voce assurda, Iris, ed era una di quelle ragazze che finivi per notare per forza da quanto era bella quando scoppiava a ridere, ma avresti potuto dire che quello fosse il suo unico pregio. Almeno finché non la si sentiva cantare, allora cambiava tutto, e anche il cuore più freddo e gelido si sarebbe sciolto di fronte a tanta forza e tanta dolcezza; perché sentirla cantare era splendido almeno quanto guardarla negli occhi e vederci il mare o ritrovarsi a sorridere davanti alla nascita di un arcobaleno nel cielo. E anche Iris aveva un debole per un musicisti, e non era un segreto che riuscisse a scoppiare in lacrime per una sonata per pianoforte, come non era un segreto la sua fissazione per le loro mani, le loro dita, la loro pelle.
C’era un pianista in particolare, alla Royal Academy of Music, che la mandava fuori di testa. C’erano i suoi occhi verdi, i suoi capelli mossi terribilmente lunghi, le sue labbra rosse, le fossette che comparivano quando scoppiava a sorridere. C’era lui, tutto dinoccolato e tutto storto, che la salutava nei corridoi da sempre e che oltre al suo nome e alla sua voce straordinaria sapeva tutto. C’erano le sue camicie sempre mezze sbottonate e i suoi tatuaggi e quella ragazza dai capelli celesti che lo baciava sempre sulla guancia quando si separavano per le lezioni – e Iris non credeva stessero insieme, o forse ci sperava e basta – e il ragazzo cui la sua amica Roxanne moriva dietro che lo seguiva ovunque, o quel violoncellista taciturno che sorrideva a stento ma che la bionda sapeva essere il suo migliore amico.
C’era un pianista in particolare, alla Royal Academy of Music, che Iris non riusciva a smettere di guardare anche se solo da lontano, ormai. C’era quel pianista, con le sue dita affusolate e tutti quegli anelli e quella voce che le mancava tanto da star male. C’erano vecchi ricordi, vecchi dolori, occhi verde prato che la guardavano come se tra di loro non fosse mai successo nulla – né nel bene né nel male. C’erano però quei mezzi sorrisi che non riuscivano ad evitare di lanciarsi quando si incrociavano nei corridoi, o le porte che Harry apriva per farla passare.
Nonostante tutto, sembrava non riuscissero a fare a meno di quelle piccolezze.
Nonostante tutto, nonostante continuasse a dire il contrario, Esme non era riuscita a trattenersi dal diventare parte del branco di galline che qualche giorno prima avevano sospirato al passaggio di Zayn. Non completamente parte della massa, si era però fatta corrompere da Roxanne, che quella mattina a lezione di solfeggio le aveva riso in faccia, quando le aveva detto che non sapeva nemmeno che volto avesse, quel violoncellista di cui tutti parlavano così tanto. Si era fatta convincere dall’amica, almeno ad ascoltarlo, almeno a farsi un’idea, perché se era lui il ragazzo che la andava a “spiare” mentre registrava per l’album era suo dovere comportarsi allo stesso modo, secondo la rossa. Non completamente parte della massa, quindi, la ragazza si era seduta a terra con la schiena posata contro la parete esterna del teatro, gli occhi chiusi e una mano a picchiettare nervosamente sulla coscia in attesa che lui iniziasse a suonare.
Non aveva dovuto aspettare tanto.
Qualche minuto nel silenzio più totale, prima che il primo movimento del tema di Mission le arrivasse attutito alle orecchie e le vibrasse contro la schiena attraverso la parete. Un motivo familiare, terribilmente. Una serie di suoni che le fecero muovere le dita nell’aria con un mezzo sorriso sulle labbra, mentre rannicchiava le ginocchia al petto come per proteggersi da quel suono straziante e allontanare il brivido che le stava attraversando la schiena in un lampo, rapido e inaspettato come un fulmine a ciel sereno. Una serie di brividi che riuscirono a sorprenderla come non succedeva da tempo o come forse non era mai successo davvero, non in quel modo.
Quel ragazzo sapeva davvero suonare. Sapeva davvero addomesticare le note e muovere le emozioni, non erano solo chiacchiere. Sapeva davvero esprimere qualcosa e far venire i brividi e rendere le gambe molli – non solo per il suo bel faccino, a quanto pareva. Erano suoni forti. Emozionanti in ogni loro minima parte. Violenti. Dettati da quello che sentiva lui… e sentiva davvero tanto, a giudicare dalla reazione della ragazza. Lui sentiva come lei. Lei sentiva il suo sforzo, il suo amore per la musica, la sua tristezza nascosta ma non troppo, il suo senso di libertà – quello lo sentiva sulla pelle quasi come stesse cantando, e non solo ascoltando lui suonare.
Suonava divinamente – bisogna ammetterlo – ed Esme aveva davvero sempre creduto di essere l’unica a poter sentir così, come Zayn pensava che nessuno potesse percepire il suo modo di sentire la musica. Lei l’aveva appena capito ed era appena stata travolta da quelle note come da un fiume in piena, ma lui non lo sapeva e forse non l’avrebbe mai saputo. Suonava divinamente, ed Esme era appena finita nella stessa bolla che la avvolgeva quando cantava e le cuffie la isolavano dal resto lasciandola sola con la propria voce; niente che non fossero i propri momenti in sala di registrazione riusciva a farla sentire in quel modo, nient’altro riusciva a farle venire i brividi e nient’altro riusciva a farla commuovere.
Zayn c’era appena riuscito, tanto che Esme fu costretta ad alzarsi velocemente dal pavimento e a percorrere in fretta il corridoio semi deserto fino ad una delle aule che a quell’ora sapeva con certezza essere vuote. Zayn era appena riuscita a farla crollare con poche note ascoltate da dietro una parete, tanto da lasciarsi scivolare contro la porta e stringersi le mani tra loro per evitare che tremassero, senza troppo successo. Zayn l’aveva appena fatta a pezzi, e ora lottava per rimettersi insieme almeno quanto bastava per non farsi vedere in quello stato da chi l’avesse vista camminare a testa bassa fino in sala.
Avrebbe messo tutta quell’emozione in quel che cantava, quella sera.
E, anche quella sera, Zayn l’avrebbe ascoltata tirar fuori tutto. Ma lei non lo sapeva e forse non l’avrebbe mai saputo.
Andavano avanti in quel modo da giorni che avevano fatto in fretta a diventare settimane.
Lui continuava a fermarsi in sala di registrazione, nella penombra e attento a non farsi vedere; continuava ad ascoltarla, ad osservarla, a registrare ogni particolare delle sue dita smaltate frettolosamente strette intorno al microfono o dei riccioli ribelli che le ricadevano sulla fronte mentre con un respiro più profondo in preparazione ad una nota più lunga i suoi denti giocherellavano col piercing al labbro; continuava ad immaginare le note che avrebbe potuto suonare per lei; continuava ad immaginarla ad occhi chiusi e labbra socchiuse mentre si lasciava andare completamente alla musica. Lui continuava a passare notti insonni e continuava a suonare alla ricerca di una perfezione che iniziava a sospettare non esistesse – non intrinseca in se stesso, almeno. Lui continuava a sentire la musica come aveva sempre fatto, o forse anche qualcosa in più del solito, anche se non capiva come potesse accadere.
Lui, sospettava fosse merito di Esme.
Lei continuava a sedersi contro la parete del teatro con un mezzo sorriso sulle labbra e le dita a picchiettare sulla coscia destra; continuava ad ascoltarlo e ad immaginarlo suonare, a registrare nella propria mente ogni nota e ogni particolare che le arrivasse alle orecchie, senza vederlo, senza bisogno di farlo. Continuava ad immaginarlo suonare per lei. Continuava ad immaginarlo coi capelli scompigliati, il sudore sulla fronte, le ciglia che gli si sfarfallavano fino ad abbassarsi completamente e le labbra che buttavano fuori l’aria in interminabili sospiri che sapeva le avrebbero fatto venire la pelle d’oca se li avesse sentiti addosso, mentre si lasciava andare completamente alla musica. Lei continuava a sentire gli occhi pizzicarle e lottava contro se stessa per non piangere quando una nota più intensa le arrivava addosso e rischiava di farla crollare. E continuava a cantare come se non avesse altra opportunità per sfogarsi, lei. Continuava a sentire la musica come aveva sempre fatto o forse anche qualcosa di più, e anche se capiva perché le accadesse, forse non l’avrebbe mai ammesso.
Lei, sapeva fosse merito di Zayn.
E Zayn… lui avrebbe solo voluto riuscire a tenere la bocca chiusa per non rovinare tutto come sempre. Avrebbe solo voluto essere un ragazzo diverso, con un rapporto diverso coi propri genitori. Avrebbe voluto avere genitori diversi, che magari avessero capito le sue aspirazioni, i suoi desideri, la sua passione per i tatuaggi e per il violoncello elettrico. Avrebbe voluto che non finissero per urlargli contro ogni volta che si presentava a casa – per andare a trovare la sorella minore, non per altro – e quando gli chiedevano come andasse lui rispondeva che aveva sempre qualche serata da fare, anche se non era come volevano che andasse loro.
Avrebbe voluto evitare di litigare davanti alla sorella. Avrebbe voluto evitare di farla spaventare, piangere, nascondersi in cameretta e non scendere nemmeno per salutarlo. Avrebbe voluto far sentire ai suoi cos’era per lui quello strumento, anche se era diverso e alternativo e a loro non era mai andato a genio. Avrebbe voluto smettere di arrabbiarsi e di stringere i pugni e di urlare, perché in fondo non portava a nulla se non a farlo scappare e a non sapere come sfogarsi, come annullare la rabbia, come trattenere le lacrime.
Avrebbe voluto che provassero a capire, perché non poteva andare avanti così.
Non poteva continuare ad arrabbiarsi, ad urlare, a spaventare tutti e non risolvere niente. Non poteva tenersi tutto dentro. Non poteva più andare avanti in quel modo, facendo finta che il problema non esistesse. E non poteva credere di non averci pensato prima, quando rientrando in accademia si diresse direttamente in teatro, col violoncello elettrico in spalla e l’amplificatore subito dietro, trascinato sul solito carrellino.
Aveva troppa rabbia nelle iridi per farsi fermare e troppa instabilità nelle dita che gli tremavano, strette intorno alla cinghia della custodia dello strumento. Era visibilmente scosso, evidentemente, perché le due ragazze che lo videro arrivare trafelato dalle porte principali del teatro non si opposero nemmeno più di tanto, quando lui chiese loro di lasciargli il teatro. Le aveva interrotte nel loro duetto, in cui le voci della rossa e della bionda si fondevano in modo quasi irreale.
E di norma Zayn non avrebbe interrotto un altro artista, ma il teatro gli serviva, e gli serviva in quel momento, o sarebbe scoppiato. Di norma le avrebbe lasciate finire, le avrebbe anche applaudite con un mezzo sorriso solo per vederle arrossire e magari ridacchiare passandosi una mano tra i capelli. Di norma avrebbe lasciato correre, avrebbe aspettato o avrebbe pensato ad un altro modo per sfogare il nervosismo, ma in quel caso rischiava di prendere a pugni qualcosa o qualcuno, ed era l’unica cosa che avrebbe voluto fare.
«Vi lascio le mie due ore di domani, Iris…», disse loro provando ad accennare un sorriso, che però era troppo tirato per sembrare vero.
La bionda si mordicchiò appena un labbro, vedendolo in quello stato, ma poi annuì con un sorriso leggermente preoccupato e un’occhiata che però lui fece finta di non vedere, prima di prendere Roxanne sottobraccio e trascinarla via senza nemmeno spiegarle cosa stesse succedendo, perché lei poteva solo immaginarlo lontanamente, dal poco che le aveva raccontato Harry quando stavano insieme, troppo tempo prima perché potesse ancora avere importanza – o forse no.
E il ragazzo rivolse loro un sorriso sollevato, anche se minuscolo e poco visibile, prima di sistemare la strumentazione e attaccare il violoncello all’amplificatore. Seduto sulla solita sedia presa dietro le quinte, iniziò a suonare come se fosse l’ultima volta, mentre le due ragazze che aveva appena cacciato malamente dalle loro prove camminavano per il corridoio alla ricerca della loro migliore amica, quella che stava scaricando il proprio dolore sul microfono come il musicista dal quale si erano appena allontanate stava facendo col violoncello.
«Che ci fate voi…?». Esme si interruppe all’improvviso e a metà frase, quando liberandosi delle cuffie il sorriso che le era appena spuntato al vedere le amiche le scomparve di dosso nel giro di pochissimi secondi, sostituito da un brivido lungo la schiena più potente del solito al sentire una serie di note fin troppo riconoscibili arrivarle alle orecchie, lontane ma con la potenza di un uragano. «Pensavo foste in teatro…», riprovò in un sussurro, ma fermata di nuovo da tutta quella rabbia che anche se distante le si riversò addosso facendola per un attimo smettere di respirare.
«Eravamo in teatro, infatti… ma il tuo violoncellista tenebroso sembrava incazzato».
«Parecchio tenebroso, incazzato e sexy», aggiunse la rossa con l’accenno di una risata che di conseguenza portò Esme a mordersi un labbro anche più forte del solito e a reprimere l’accenno di un sorriso, al sentir parlare di lui. Le due ragazze si sedettero sui due sgabelli liberi ai lati della mora, ma non fecero in tempo a dire altro che lei era già scesa dal proprio con una mano tra i ricci, il labbro ancora stretto tra i denti e la borsa già a tracolla prima che si accorgesse di averla presa in mano. «Dove stai andando?». Ma Roxanne stava già ridendo, quando dopo averglielo chiesto Esme si era limitata a leccarsi il labbro e fare spallucce, come se quei pochi gesti apparentemente insignificanti in realtà spiegassero tutto.
Quasi non le sentì scoppiare a ridere, mentre le salutava con un “ciao” appena sussurrato e usciva dalla sala di registrazione senza pensare, come se i piedi le si muovessero da soli, vivi di vita propria e determinati a conoscere finalmente l’oggetto del proprio desiderio e la causa di tanto entusiasmo e dolore insieme. Percorse tutto il corridoio con un mezzo sorriso ad incresparle le labbra e qualche parola della canzone che lui stava suonando poco distante a prendere forma e venire alla luce quasi senza che lei lo volesse.
Quasi non si accorse di trattenere il fiato.
E quasi non si accorse di spingere sulla pesante porta di legno per aprirla.
Quasi non se ne accorse, perché i suoi piedi l’avevano già fatta entrare nel teatro. Quasi non se ne rese conto, che era già dentro, con la musica altissima e violentissima che le arrivava addosso quasi a volerle far male fino ad ucciderla e Zayn poco lontano, tanto concentrato sul proprio strumento e la propria musica rabbiosa da non accorgersi di lei.



 
   
 
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