[Storia nominata agli Oscar EFPiani 2016 nella categoria "Migliore attrice non protagonista" (voce narrante). Quarta
classificata al contest “Le notti bianche di San Pietroburgo” indetto da Primavere rouge sul
forum di EFP e vincitrice dei premi "Best
place: Miglior ambientazione" e "Best Tear: Storia più commovente" nel contest “Tragic and Epic Love” indetto da Jo_gio17
sullo stesso forum.]
Note:
Mi rendo conto di aver inserito parecchie note a piè di pagina nel corso della
storia, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti geografici. Ciò è dovuto al
fatto che per rendere al meglio l’ambientazione, tanti dettagli della città di
San Pietroburgo vengono dati per scontati durante la storia, affinché il testo
non sia appesantito da spiegazioni continue. Eppure io stessa, per scrivere di
questa città, ho dovuto fare diverse ricerche su aspetti tutt’altro che scontati,
così, per fornire le dovute spiegazioni al lettore senza appesantire la
lettura, ho utilizzato le note.
La mietitrice
di San Pietroburgo
PROLOGO
Quella notte di metà
febbraio, l'inverno regalò a San Pietroburgo i fiocchi di neve più delicati
della stagione. Volteggiavano in balia del vento fino a posarsi sulla cattedrale
di san Pietro e Paolo, coronando di bianco l’angelo dorato sulla sua sommità.
Le strade ghiacciate serpeggiavano tra gli edifici come cicatrici argentate sul
volto pallido della città, attraversandola da parte a parte.
Vera Volkov[1],
sulla sua utilitaria blu zaffiro, aveva senza dubbio sottovalutato lo strato di
ghiaccio sull'asfalto o sopravvalutato le proprie abilità alla guida, perché
aveva perso il controllo del veicolo, finendo con la macchina acciambellata
attorno a un semaforo in un letale abbraccio di metallo accartocciato.
Seguendo un istinto più
antico di qualunque civiltà, più intimo di qualsiasi riflessione umana, mi
avvicinai a lei come le tante persone che si trovavano nei pressi del luogo
dell'incidente, desiderose di aiutare la poveretta o curiose di sapere cosa
stesse accadendo.
Nessuna di quelle
intenzioni era anche la mia. Seguivo semplicemente un percorso stabilito dalla
mia natura, che mi attirava irrimediabilmente verso di lei, attraverso la folla
che la accerchiava accalcandosi attorno al mezzo, fino ad appannare i vetri
posteriori dell’automobile con il calore del loro fiato.
Vera Volkov non era
ancora morta e non sembrava voler morire.
Pareva invece una
ragazza desiderosa di vivere, che aveva ancora tanto da scoprire, tanto da
ricevere, tanto da dare.
E, incredibilmente, io desiderai
che non morisse.
Guardai il suo corpo
compresso tra i rottami della macchina, la gabbia toracica schiacciata dal
volante, la testa china contro il parabrezza in frantumi, e sentii i soccorsi
che arrivavano a sirene spiegate, pronti a salvare la vita a una creatura
fragile ma preziosa come solo un essere umano poteva essere.
Fu in quel momento che
decisi che Vera Volkov non sarebbe morta quella sera: avrebbe vissuto almeno un
altro po' e io l'avrei osservata mentre lo faceva.
Una volta un uomo
saggio aveva detto che una persona viva è sempre meglio di una persona morta[2].
Aveva ragione. I vivi possono ancora morire, mentre i morti non possono tornare
a vivere.
[1] In russo, il
cognome Volkov attribuito a una donna dovrebbe diventare Volkova, ma ho
preferito lasciarlo così com’era perché lo ritenevo più adatto a un testo in
italiano, in modo che fosse anche più semplice associarla alla sua famiglia,
quella dei Volkov.
[2] “Un uomo vivo è meglio di qualsiasi uomo
morto, ma nessun uomo vivo o morto è molto migliore di qualsiasi altro uomo
vivo o morto”, è una citazione tratta da “L’urlo e il furore” di William
Faulkner.