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Autore: Helmyra    08/03/2015    2 recensioni
Credevo di aver impostato le mie giornate sullo studio, sulla morigeratezza ed ore ed ore passate a ripetere la stessa formula magica... intanto, una tempesta di cenere s’è appena abbattuta sulla mia vita.
E l’ha resa... ridicola.
___
Dorisa è l'ennesima dunmer che si ritrova a studiare magia al Collegio di Winterhold. Ad illuminare il grigiore della monotonia compare Sam, uno stregone che le offre un boccale di idromele e il futuro da lei desiderato. Purtroppo non può affatto immaginare che dietro il sorriso affabile dell'amico si nasconda Sanguine, per nulla disposto a lasciarsi sfuggire l'occasione di uno scherzo... e la sua nuova "ancella".
Genere: Avventura, Commedia, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Dovahkiin
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Daedric Maidens'
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Accese un fuoco nell’orticello ancora incolto, tra la stalla e la casa ancora da arredare. Aspettò che le fiamme acquisissero vigore, alimentate dall’olio che penetrava nelle crepe dei ciocchi di legna. Sbattè le palpebre, assonnata: sperava che nessuno si fosse accorto di lei.
Accanto al fuoco sonnecchiava il fedele segugio, dopo aver rosicchiato ciò che rimaneva di una coscia di montone.
“Accorri, principe della dissolutezza, io ti invoco.” Avrebbe preferito insultarlo, piuttosto che invitarlo a varcare il confine tra i due regni. “Ascolta la voce di chi reclama il tuo ardore, la tua persuasione, la tua... emh, sapienza?”
“Be’, hai qualcosa in contrario?” Ribatté una voce mielosa a lei nota. “Ci sono astuzie che s’apprendono solo in un bordello. Dovresti visitarne uno, mia cara, le signore della notte potrebbero prendersi una pausa ed insegnarti qualche segreto. Ne usciresti arricchita, anche se preferisco essere io il tuo maestro...”
“Ah. Eccoti.” Dorisa abbozzò la parodia di un inchino, di mala grazia. “Onorata, mio Signore...”
“Già, come no.” Gli orli della tunica leggera ondeggiavano sospinti dalla brezza di mare, e pareva insensibile al freddo pungente di quella notte senza neve. “Avanti, son tutto orecchi. Hai stabilito queste... prove, mia cara? Facciamola breve, comincio seriamente a stancarmi.”
“Padrone...” Esitò la dunmer, abbassando il capo e mettendosi a sedere su una pelle d’alce.
“Dov’è finita la nostra confidenza, dolcezza? Prima eri tanto premurosa, mi chiamavi zietto, Sanguine mio adora...”
Non ebbe il tempo di finire che il cane balzò in piedi, per avventarsi contro di lui. Era stato distratto da una buona cena, dal caldo invitante del fuoco, adesso era pronto a svolgere il suo compito e a colpire.
“Sanguine... via.” Intimò Dorisa.
“Ah, bocconcino. Osi prenderti gioco di me? Come se bastasse un ammasso di pelo a tenermi alla larga...”
“Sanguine... via. A cuccia.”
Il cane abbassò le orecchie, leccò la mano della padrona e sgattaiolò via, ubbidendo al comando.
“Sanguine...” Biascicò il principe daedrico, esterrefatto. “Hai dato il mio nome ad un cane!”
“Meriti di peggio.” Sbottò Dorisa, attizzando le fiamme con un rametto secco.
“Hai tutte le ragioni di questo mondo mortale per odiarmi a tal punto.” Spiegò lui, posando il capo cornuto sulle sue ginocchia. “E da mortale mi comporterò, solo per un giorno, se lo ritieni necessario.  Mi dimostrerò all’altezza. Sottovaluti le mie capacità solo perché non sono violento come Mehrunes Dagon, Boetiah e Molag Bal? Puah. Ad agitare un mazza ferrata e a giocare al tiro al bersaglio con un pugnale ci vuole poco. Hai visto, piuttosto, qual è il mio potere? Di fronte agli istinti, alle promesse dell’intimità, ogni resistenza è annichilita. Persino la tua amica bacchettona non ha esitato a gettarsi fra braccia di Vyndak, ho preso due piccioni con una fava. Ero stanco di sentire continui piagnistei su quanto fosse solo, triste, senza la donna giusta che lo riempisse di sdolcinatezze... per non parlare, appunto, di come l’abbia spuntata con te. Dimmi se non sono un genio.”
Dorisa evitò i suoi occhi scuri, gli abissi di un oceano illuminati dai raggi tenui di Secunda. Era attratta da lui, pur essendo uno dei Daedra possedeva delle qualità desiderabili: senso dell’umorismo, ironia. Non si poneva limiti di giudizio, per lui non esisteva né il bene né il male, semplicemente un filo sottile ad unire due anime in vena di nuove sfide.
“Nel caso te lo stessi chiedendo, la risposta è sì, mia cara. Di solito scelgo un campione e lo incarico di svolgere un servizio in mia vece, ma gioco al burlone solo con le donne che amo.”
“Non mi impietosisci.” Sentenziò la dunmer, rimestando cenere e carbone.
“Oh, certo. Preferisci vendicarti, piuttosto”.
Detestava contemplare i lineamenti di Sam su quel volto demoniaco, ma il mago bretone era vissuto per una brevissima frazione di tempo, nell’arco dell’esistenza di Sanguine. Occhi umani e labbra carnose tornarono a tormentarla, aveva mantenuto la parola rinunciando ai suoi poteri.
“Ho dovuto spartire la collana per necessità, dovrai andare alla ricerca di quel che manca.” Spiegò. “Il rubino è finito nella stalla, sotto cumuli di fieno. La catena d’oro, invece, l’ho affidata in pegno alla vecchia Hulda, che mi ha venduto i mobili: dovrai convincerla a riaverla indietro. Una perla l’ho persa sul monte Anthor, l’altra... non ricordo. Di sicuro dove non potrai mai mettere le mani.”
“Mi alleggerisco il lavoro, allora!” Sanguine, tornato ad essere Sam, si congedò con una stretta di mano e un delicato schiocco sulle guance bluastre.
Perché lo trovava adorabile? In fin dei conti le aveva mentito solo a causa dello scherzo, nei suoi atteggiamenti e a parole era sincero. Non voleva ammettere a se stessa di essersi invaghita di un’entità che, poco tempo prima, avrebbe rifuggito. A Morrowind venerare i Daedra non era considerata una scelleratezza, soprattutto dopo il vuoto venutosi a creare dopo la morte di Sotha Sil ed Almalexia, la caduta di Vivec. La fine del Tribunale aveva risvegliato le paure e riesumato gli interrogativi su ciò che emanava sacralità divina.
In una pozza di lacrime affondavano le radici della speranza. Avrebbe ritrovato la forza per risorgere abbattendo poco a poco le barricate, rinunciando alle catene dei propri limiti. Astrazione, felicità, catarsi: si sarebbe impadronita di un corpo nuovo, di una nuova anima, bevendo a piene mani da una sorgente incontaminata, laddove le acque non ristagnavano per il sangue dei morti, cullando gli scheletri dei caduti.
Il sonno eterno, la prigione mentale di un individuo castigato dai propri demoni.
Questo demone, però, le stava offrendo un’occasione di riscatto.
Al di là del caos, prima di un nuovo inizio.
 
“Puah, che schifo. Salvare capra e cavoli è un lavoro sporco, ma questo è sicuramente peggio.”
La stalla versava in condizioni pietose, prima aveva dovuto spazzare via il fieno, poi liberare il pavimento dal cumulo di letame rimasto a marcire da giorni. In tutto questo, era stato intralciato dai fastidiosi inquilini, che si divertivano a rendere le cose più difficili gettandosi a capofitto tra i monticelli d’erba e continuando a disseminare il pavimento di escrementi.
“Via, via... da brave!” In un battito di mani avrebbe trasformato quel putiferio in una reggia, se fosse stato Sanguine. Invece, gli toccava ricorrere al lavoro manuale. Non poteva rischiare di far saltare tutto in aria e di bruciare le simpatiche bestiole. Doveva spalare, spalare ancora.
Persino pecore e mucche congiuravano contro di lui.
“Vi ha istruite bene, quella sfacciatella.” Per trovare il rubino era costretto a muoversi con una lentezza estenuante. Dopo esser riuscito a liberare i corridoi tra i recinti del bestiame, aveva scoperto suo malgrado che la gemma doveva esser finita sotto gli zoccoli dei maledetti ruminanti.
“L’odio è reciproco, sappiatelo.” Era riuscito a calmare pecore e capre, recalcitranti a subire l’invasione, con un semplice incantesimo. Con sommo disgusto, e indossando un paio di guanti da contadino, rastrellava la sporcizia con le dita. Ogni volta che ripeteva l’operazione, ne usciva sempre più nauseato.
“Spero che nessuna di voi abbia ingoiato la pietra, altrimenti sarò costretto a squartarvi il ventre, una per una.” Con passo baldanzoso, il principe daedrico scansò i recinti più piccoli, per dirigersi verso quello al lato opposto dell’entrata, dove l’attendeva il signore della stalla.
Il toro si mostrò mansueto e disinteressato fino a quando Sam violò i suoi spazi: attese che la staccionata fosse aperta, prima di montare alla carica.
“Bello, non ti conviene. Ho testa e corna più dure delle tue!” Lo vide all’angolo del recinto, dietro una pila di sterco. Non ci pensò due volte: storcendo il naso allungò il braccio per raccogliere il rubino oltre l’immonda sozzura e scappò via, sbattendo le porte di quell’inferno muggente e serrandole con una sbarra di legno.
“Non mi venissero a dire che la vita bucolica mette allegria, preferisco fare il bagno in un fiume di lava, piuttosto.”
Andò a pulire la gemma alla vasca pubblica, dove le lavandaie sciacquavano i panni e i bambini erano mandati a prender l’acqua. Al suo passaggio, uomini e donne si ritraevano nauseati.
Erano le voci di paese, comunque, a diffondersi più in fretta del lezzo: in men che non si dica, le abitanti di Winterhold sgombrarono la fontana e si ritirarono nei cortili, per risparmiare al puzzolente straniero un’ulteriore umiliazione.
Non che gli dispiacesse, in fin dei conti... sebbene un carovaniere Khajiit sembrasse un signore, a confronto.
Bussò alla porta della casa a due piani, ma nessuno venne ad aprirgli. All’interno trovò Dorisa, indaffarata a spostare la mobilia prima di sistemare libri e vestiti.
“Ho bisogno di lavarmi.” Sbottò, oltrepassando la soglia.
“Non qui, non ora. Chiedi ad Hulda, è lei che ha ancora la tinozza.”
Cominciava seriamente a dubitare di poter sopravvivere a quel pandemonio, senza la regalità di un principe Daedra. Percorse di nuovo le strade di Winterhold, attorno a lui passi affrettati, sguardi di compatimento.
I colpi risuonarono più forti di quanto intendesse. Ci mancava solo che scardinasse via la porta, dopo aver passato l’intera notte e l’alba di un nuovo giorno a combattere contro gli animali nella stalla.
“Chi è?” Gracchiò una voce dietro le tavole di legno.
“Sono il promesso sposo di Dorisa.” Dichiarò Sam, senza pudore. “Vengo a prendere le sue cose.”
“Ah, bene bene!” Si ritrovò di fronte un’anziana donna, coi capelli raccolti in un fazzoletto di lana e le fattezze del viso alterate da una biliosità perenne. “Allora, sei venuto a risolvere anche il mio... problema.”
“Cosa vi angustia a tal punto, signora?” Domandò, con falsa gentilezza.
“Vedi, la tua amichetta aveva promesso di aiutarmi a riordinare casa, dopo aver portato via quello che le interessava,” ghignò, alludendo a qualche accordo lasciato in sospeso,  “gli scaffali strabordano di stoviglie e libri, nel corso degli anni ho accumulato tante, troppe cose. Metto in vendita la roba inutile, tra le varie cianfrusaglie. Quando sarò morta di certo non potrò portarmela nella tomba.”
“Non penso faccia la differenza, siccome vivete sepolta viva in questo ciarpame...”
“Cos’hai detto?” Tuonò la vecchia.
“Niente, parlavo tra me e me.”
Hulda era gelosa della sua polvere, delle stanze popolate da mobili, utensili e lenzuola che si era divertita a collezionare. Ovviamente, non permise a Sam di venirle incontro, prima di un bagno.
“La tinozza è in cantina, ha scelto bene quella sbruffoncella... il migliore abete, verniciato a modo per durare! Non esiste più la manodopera di un tempo, hai notato quant’è scadente il legno usato oggigiorno?”
Sam annuiva in silenzio, e una parte di sé rimpiangeva amaramente l’infelice impresa. Non era per nulla divertente.
Mentre si spogliava sotto il portico, nel giardino retrostante, aveva notato l’ombra di Hulda che sbirciava di tanto in tanto, scostando i lembi delle tende ricamate. Se avesse sollevato la questione, avrebbe giustificato le indesiderate attenzioni con la solita scusa del lavoratore a cottimo da sorvegliare in ogni momento della giornata, affinché rigasse dritto.
L’arzilla signora tirò fuori l’ardore anche nelle faccende di casa: gli ordinò di raschiar via l’umidità dalle pareti e di passare l’intonaco laddove s’era scrostato.  Sam fissò alcuni quadri al muro e riparò quelli con le cornici cadenti; s’arrampicò su una scala per otturare i buchi del tetto; tagliò l’erba del giardino e seguì le indicazioni dell’indisponente padrona nel riordinare la dispensa.
Quando si ritenne soddisfatta, passò in rassegna il risultato di mezza giornata di lavoro con occhi sognanti: Sam la seguiva, torcendo il panno di lino come avrebbe voluto fare col suo collo.
“Dorisa mi ha chiesto di ritirare un gioiello,” azzardò, in un ultimo sorriso accondiscendente, “penso che i patti siano stati rispettati.”
“Oh, certo! Che sbadata, quasi dimenticavo...” La vecchia Hulda tirò fuori la catena d’oro, e Sam fu lesto a strappargliela di mano. “Torna quando vuoi. C’è sempre tanto lavoro da fare, e mi raccomando, la tinozza! È triste separarmene; dopotutto, poteva esserti utile per un bel bagno ristoratore, in previsione delle pulizie di primavera”.
Finse di non aver recepito il messaggio, salutò educatamente e s’allontanò trascinando l’amaro bottino.
Bussò ancora alla porta di Dorisa, stavolta senza riguardo. Venne ad aprire, indossando solo la camicia di cotone e delle braghe di camoscio.
“Sei crudele,” fu l’unico pensiero sensato che riuscì a formulare nell’ira, “tieni la tua vasca! Non ho mai infierito sui miei schiavi, è stata una giornata da incubo...”
“Getti la spugna, allora?” Si muoveva qui e lì come una danzatrice. Sam strinse i pugni, Sanguine stava avendo la meglio: l’avrebbe resa meno baldanzosa con una giusta punizione. Nuda, legata e completamente alla sua mercé.
“Vado a prendere la perla,” sibilò, scaraventando sul tavolo un piccolo astuccio. “ecco il resto. Mi sono piegato al gioco.”
E aveva rispettato le regole: Dorisa cedé all’isteria, il volto si deformò in una smorfia di disappunto. Non poteva lasciare che Sanguine avesse la meglio su di lei, seppur mortale. Si era premurata di inscenare, e di render più gravose, le stesse condizioni dello scherzo.  Il drago sarebbe stato meno comprensivo.
Non vincerai. Pensava, indossando l’armatura in fretta e furia. Ti distanzierò, arriverò sul monte Anthor per vanificare la scalata e recuperare la perla. Un mortale avrebbe impiegato giorni a svolgere quelle incombenze, cosa ti spinge ad insistere?
Aveva scorto la delusione, l’arrendevolezza nei suoi occhi. Solo una finzione, un principe dei Daedra non sarebbe mai stato capace di provare sentimenti così umani.
A meno che non fosse stata lei stessa a negarli.
 
Giunse sulla montagna mentre la bruma della sera soccombeva alla quiete mendace della notte. I resti del macabro sacrificio giacevano scomposti, la neve accoglieva le ossa dei caduti come una madre che stillava lacrime di sangue. Percorse il perimetro del santuario in rovina e si diresse verso le macerie della torre, ultimo lascito delle razze mortali e baluardo sicuro.
Sanguine avrebbe soggiogato la belva, costringendola ad inchinarsi di fronte a lui. Sam, invece, impugnava l’arma e barcollava, coi nervi a fior di pelle e le vene che pulsavano come stelle gemelle.
All’improvviso apparve una fiamma, un fantasma; fendeva la nebbia azzurrina e si dirigeva verso di lui.
Era Dorisa: brandiva una torcia, lo colpì con un tagliente sdegno.
“Credevi che me ne sarei stata a casa con le mani in mano, a vederti cantare vittoria?” Ruggì, mentre la luce soffusa accarezzava il corpo formoso, i fianchi sinuosi e il volto ovale, dalle guance delicate.
“Dorisa... non sono venuto a sfidarti o a vederti morire. Fatti da parte, o andiamo via da qui.”
“Hm. A quanto pare, senza le corna non vali molto. Avevo ragione.”
Rinunciando ai poteri di Daedra aveva perso la facoltà di anticipare le sue mosse, di carpire le sue emozioni. La dunmer si chinò avanti, piegandosi ad arco, quasi era affondata nella neve: la terra tremava, pezzi di roccia crollavano dalla sommità delle rovine, il cielo si era eclissato dietro una membrana squamosa.
Sorse dal fogliame, dai picchi rugosi incrostati di muschio. Spalancò le ali ed emise il suo grido di battaglia, per castigare chiunque avesse osato violare il nido.
“Dimmi dov’è la perla.” Sbraitò Sam.
“No.”
“Dimmi...” Non terminò la frase: Dorisa si era gettata contro la fiera, tempestandola di gemme infuocate. Sam digrignò i denti, maledì l’elfa e la sua testardaggine.
Il drago le vomitò addosso una tempesta di ghiaccio: si difendeva con uno scudo magico, che assorbiva parte dell’energia spirituale dell’incantesimo. Ben presto si sarebbe ritrovata a riparare presso la torre, nella speranza di recuperare tempo e terreno.
Sfoderò la spada daedrica, privo di qualsiasi altra cognizione, se non quella di adamante ed oricalco in un moto involontario. Aggirò la creatura alata e la colpì alle spalle: alla vista del sangue denso che gli bagnava il torace fu invogliato ad insistere.
“Sei solo un mortale, cosa pensi di fare?” Dorisa lo osservava da lontano, mentre sfogava tutto il suo rancore. Con una scrollata d’ali il drago lo gettò a terra, ma Sam fu lesto a balzare in piedi e a studiare un nuovo attacco, attirandolo verso di sé.
S’aggrappò alla coda lunga, dentata: risalì fino in groppa e prese a stordirlo con una raffica di scariche elettriche. Il drago subì l’affronto fino a quando non riuscì ad afferrarlo per il busto e a scaraventarlo via. Sam cadde di schiena e si rialzò lentamente, zoppicando.
Perché aveva deciso di rimanere, di aiutarla a recuperare le forze quando avrebbe potuto abbandonare il campo e divertirsi ad assistere alla sua disfatta? Perché la stava difendendo?
La creatura gli aveva graffiato il petto e la spalla, riducendo la tunica a brandelli. Berché il mago opponesse resistenza, parando i colpi con la spada e servendosi delle lame di ghiaccio per fiaccare l’avversario, era arrivato allo stremo delle forze. E rinunciava a riprendere la sua forma immortale, solo per rispettare il patto. Quello stupido patto...
“È colpa mia. È solo colpa mia...” Dorisa evocò un pugnale immateriale e, cogliendo l’attimo opportuno, lo colpì al fianco. Le membra ferite crepitarono sotto il fendente incantato, e il drago ricambiò con uno sguardo feroce e una zampata, infilzando gli artigli oltre le lamine d’acciaio lucido.
L’elfa urlò, in preda ad una sofferenza insopportabile, per poco non le aveva staccato un braccio: con la spalla e la mano destra ormai inutilizzabili, avrebbe dovuto contare solo sugli incantesimi... e la forza di volontà.
“Ti odio... e odio me stessa, oltre ogni altra cosa al mondo!”
Sgomento, sensi di colpa, passioni represse e bandite da ogni forma di ripensamento. Uno scatto, poi un altro, senza ponderare quale organo lacerare, per il puro gusto della vendetta. Era stata lei a disturbare la creatura, ad aizzarla contro il Bretone. Lei, a nascondere la perla nella torre in rovina, dentro un baule malandato. E a lei spettava porre rimedio.
La bestia la intrappolò tra le sue grinfie, inamovibile; poi sbalzò l’elfa oscura verso una sporgenza rocciosa, in un’ultima, gloriosa resistenza.
Sam riprese i sensi, soccorso dall’alleata Vaermina. In un battito di ciglia, la signora dei sogni gli indicò una stele tra le sterpaglie, poco distante da lui: la futura eroina, il Sangue di Drago, giaceva contro una lastra di pietra in una posa scomposta; un rivolo di sangue caldo le umettava il volto mischiandosi alla massa di capelli neri.
Sarai tu a decidere, dolcezza, non appena ti risveglierai. Accoglimi o rinchiudimi per sempre nell’Oblivion, mia pudica ancella!
Disegnò dei simboli daedrici nel vuoto, creando attorno a sé un campo di forza: si dissolsero in globi di luce, in fiamme argentate che gli entrarono in corpo, risanando le ferite.
La sua pelle divenne lava solidificata, gli occhi scuri rivaleggiavano con le profondità della terra.
Sanguine si ergeva fiero, oltre il cerchio magico. Pregustava il sapore di carne e sangue sulla lama, sensibile all’unica seduzione in grado di saziare la sua fame: il piacere nel dolore, la sottomissione nella violenza.
L’empio dragone indietreggiò, superato in astuzia. Si agitava furente, affondava le fauci nel metallo daedrico e ruggiva invano, tenendo alla larga il combattente oscuro con le uniche armi in grado di prolungargli l’esistenza.
Una gabbia acuminata gli infilzò le squame, esalò l’ultimo respiro implorando pietà: supplicò il principe di non prendere la sua anima, di favorire l’ascesa verso l’infinito.
“Non sarò io ad accordarti il permesso.” Sentenziò Sanguine, gettando la spada su una poltiglia di viscere ed acqua.
Fu quindi dolore, perdizione, infelicità eterna: udì l’ultimo singhiozzo della belva e un ticchettio di maglie, temendo che fosse tardi, troppo tardi per strapparla al volere di Arkay.
Invece, le braccia della dunmer furono scosse da uno spasmo, la bocca si spalancò ingoiando l’aura impalpabile che inceneriva il drago. Lo accolse con lei: semmai avessero raggiunto la redenzione, sarebbe stata appannaggio di entrambi.
Lungi, però, dall’essere al sicuro con lui: le insinuò la lingua nerastra tra le labbra; indugiò in quel contatto profondo, appagante, mentre era ancora addormentata. Non il sangue di drago, ma quello di Dorisa ai lati della bocca... gli provocava una fitta lancinante di piacere.
“Finalmente avremo tutto il tempo del Mundus, mia cara...” Sussurrò, caricandosela sulle spalle e cercando di non farle del male. L’orizzonte si tingeva dei colori della luce, giallo grano, verde intenso come le foglie umide appena nate. Tuttavia, in quel ciclico rinnovamento di voci e clamori, nell’incessante mutamento mortale, Sanguine piantava il seme dell’imprevisto.
 
La ridda di visioni, la cacofonia di voci, richiami ed invocazioni, cessò quando aprì gli occhi dopo un lungo sonno. Non immaginava quanto tempo fosse rimasta lì, sul morbido materasso e nella sua nuova abitazione. Qualcuno, mentre era addormentata, aveva montato le tende e lucidato il calderone in rame. Ogni cosa era a suo posto, o almeno, era stata sistemata assecondando i suoi desideri. Accanto al letto trovò un bicchiere di latte tiepido e dei biscotti: ne addentò uno, era vagamente stantio. Chissà da quanto tempo erano lì.
Provò ad alzarsi e ad allungare una gamba, ma fu costretta a muoversi adagio: era letteralmente bardata in una serie di fasciature che le coprivano il petto e il braccio sinistro. Per giunta, era stata lavata, coperta con una camicia da notte e messa a riposo. Pian piano si palesarono i ricordi perduti, raffiorando a galla. Dorisa scese le scale, appoggiandosi al corrimano, e raggiunse l’accogliente calore del caminetto.
“Sam... Sam, sei qui?”
Trasalì, al fischio del vento tra le imposte. Dalle strade di Winterhold proveniva un distante cicaleccio: la vita era lì, tutta all’esterno. In quel momento la casa parve vuota, spettrale.
“Sam... Sanguine? Avanti, non farmi altri scherzi... su, vieni fuori!”
Il silenzio fu accompagnato da un gelido presentimento. L’impertinente collana luccicava contro le venature pallide del noce. Regale, splendente, completa in ogni sua parte.
“Ti prego, non giocare con me...” Pigolò Dorisa, con gli occhi umidi. “Dico sul serio... vieni fuori. Oh, possibile che tu l’abbia fatto? Ti prego...”
Afferrò al volo il mantello, appeso a un grosso chiodo che sporgeva dal muro. Cadde su di lei come le nubi dello Jerall, e si precipitò in strada, sbattendo la porta. Una voce maschile canticchiava il motivetto di una vecchia ballata guerresca.
“Zio... Zietto! Non lasciarmi sola. Dove sei?”
“Ah, finalmente sei sveglia. Che succede?”
Sam stava tagliando la legna da ardere. Aveva trascinato un grosso ceppo nell’orto e sistemato i ciocchi già pronti lungo le mura esterne della casa. Non poteva ignorare che si stesse dando da fare.
“Ti... ti stavo cercando.” Biascicò, affannata.
“Sì... hai dormito per tre giorni,” sorrise il bretone, conficcando l’ascia nel terreno incolto, “nel frattempo, ho pensato di renderti il resto più semplice. Be’... di alleggerirti il lavoro”.
Era la seconda volta che parlava di faccende quotidiane in quei termini. Dorisa abbozzò una risata sommessa, ma presto cominciò a tossire.
“Entra in casa.” Commentò l’altro, secco.
“Hai aggiustato la collana e l’hai lasciata sulla cassettiera. Dimmi la verità, hai capito dov’era nascosta la seconda perla perché le circostanze volgevano a tuo favore. È stato un caso... fortuito.”
“Naah. Avevo già intuito quale fosse il posto in cui non mi era concesso mettere le mani. Non offenderti, come Sangue di Drago sei abbastanza prevedibile.”
Incrociò gli occhi castani del mago, leggermente bistrati di giallo attorno alla pupilla. Seguì gli ordini e il padrone di casa davanti al focolare, come un cucciolo desideroso d’attenzioni sottostava ai comandi e gli si accoccolava in seno.
“Mi hai salvato la vita, mi hai guarita,” smozzicò quelle parole mentre affondava il naso tra le pieghe della tunica di Sam, “se non avessi acquisito il tuo reale aspetto, molto probabilmente sarei morta. Avresti potuto avere la mia anima, perché non l’hai fatto?”
“Preferisco possedere anche il tuo corpo.” Sogghignò, stringendola a sé.
“Vuoi farlo... adesso?”
“Non sono uno schiavista, al contrario di una certa dunmer.” Ammiccò, trascinandola a terra con sé, sul tappeto. “Devi rimetterti in sesto, discernere. Meditare se accettare la Rosa, accettare me. Molti principi daedrici ti faranno la corte, sono solo uno fra quelli. Anche se... io intendo farlo letteralmente.”
“Ho capito solo una cosa...” Sussurrò Dorisa, posandogli un dito sulle labbra. “Ti voglio bene, per ciò che sei. Umano, imperfetto, teatrale e fuori luogo. Qualunque sia il progetto, lo porterò avanti. Caro zio Sanguine, io... sono cotta a puntino.”
Erano secoli che non accadeva in quel modo. Secoli, che non si concedeva il lusso di una Sposa.
Secoli, da quando non veniva interrotto sul più bello.
“Dorisa, cara. Ti ho vista in giardino! Ho portato qualcosa per te.”
Il Sanguine canino abbaiava e faceva le feste alla nuova arrivata, mentre percorreva il vialetto del giardino.
“È Hulda, sarà venuta a farmi visita.”
“Vado io.” Proruppe Sam, levandosi nervoso. Quando socchiuse la porta, l’anziana signora si era sciolta in un breve inchino e mille convenevoli.
“Vi porto la crostata di more, e ho provveduto a scaldare un po’ di erbe per una tisana rinvigorente. Sai, è buona anche fredda... quindi, se prima volete consumare il pranzo e poi gustare qualcosa nel pomeriggio, ho già provveduto per voi...”
Sanguine sgranò gli occhi. La vecchina era un tesoro, ora che aveva recuperato i poteri riusciva a comprendere perché si fosse comportata in quel modo con lui, il suo ruolo all’interno della farsa.
“Mi dispiace,” inclinò il capo, implorando perdono, “se non fosse stata Dorisa a chiedermelo, non ti avrei trattato così male. Ho sempre sperato che, prima o poi, trovasse un bravo ragazzo per marito. Le ho insegnato tante cose... le ricette dei piatti tipici di Winterhold, quello che sapevo sulla flora di Skyrim,  l’ho aiutata in alchimia. Prima che mi ritirassi ero una guaritrice, prestavo soccorso ai viandanti stremati dal gelo implacabile di queste terre, ai navigatori. Ricordo il cataclisma che s’è abbattuto sulla città con sgomento, ma... osservare la felicità rinascere a nuova vita in giovani di belle speranze come voi mi dà la forza. Su, torna da lei. E non dimenticarti della vecchia Hulda, semmai avessi bisogno di qualcosa.”
Accettò i doni con gratitudine e si congedò da lei; quella donna era una santa. Da mortale era una vero disastro, incapace di smascherare una recita quando si riteneva il patrono dei baccanali, delle commedie degli equivoci.
Aveva la sua ancella, solo questo contava.
Cominciava ad apprezzare il lato seducente della sua ritrosia, il suono sommesso del suo respiro mentre sognava il bosco fatato.

 

Ufficialmente, la storia finisce qui. Poi, se siete in vena di smancerie, potete anche passare al capitolo extra (sì, c’è un extra... giusto per dare un senso in più al tutto e assolutamente superfluo). Scrivendo, mi sono resa conto che la coppia Dorisa-Sanguine ricalca il mito di Dioniso ed Arianna, per sommi capi. Può un’elfa, una donna mortale, raggiungere l’Oblivion stringendo un patto con uno dei principi dei Daedra? Secondo me sì. Se è possibile in male, perché non in bene (“bene”... diciamo, qualsiasi alternativa che non preveda punizione, dolore e sofferenza eterna alla Mehrunes Dagon e Molag Bal...)?
Non era assolutamente preventivato che Brelyna finisse con un dremora, ma poi mi sono lasciata trasportare. Credo che il servo somigli al padrone, quindi i dremora al cospetto di Sanguine hanno più o meno lo stesso carattere e attitudine. Partendo dal presupposto che amo aggiungere un pizzico di passione umana anche nella creatura più “cattiva”. Non ho messo OOC proprio perché credo di aver rispettato i personaggi aggiungendo qualcosa in più al loro carattere.
A dopo, se scegliete di leggere l’epilogo extra. :)

 
  
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