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Autore: Malvagiuo    16/03/2015    4 recensioni
Racconti fantasy che narrano le gesta dei grandi uomini del popolo valigero, devoto a Yngrun, il Dio Drago, Signore delle Creature.
Figlio del fuoco - Un'oscura maledizione perseguita Rolgar, un demone fatto di fuoco e sofferenza che si annida dentro di lui e lo tormenta da quando è nato. La fuga dal villaggio sembra l'unica speranza di una vita migliore, ma c'è chi non è disposto a lasciarlo andare via, qualcuno che cova rancore, e che farà quanto è necessario per fermarlo. Quando una maledizione cessa di essere tale e si trasforma in opportunità?
La volontà del Dio Drago - La vita di Astyr viene distrutta nel modo più tragico: i temuti razziatori devastano il suo villaggio e uccidono sua moglie. Resta solo il figlio Volfin nella sua esistenza, ma Astyr non intende correre il rischio di perdere l'ultima cosa che gli rimane. Un potere oscuro è in agguato, un potere che si alimenta di dolore e di desiderio di vendetta, che può persuadere Astyr a cedere la propria anima in cambio del più terrificante dei poteri.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il dolore era insopportabile. Rolgar avvertiva che l’esplosione di sofferenza presto l’avrebbe travolto come un fiume in piena.
Il braccio sinistro era avvolto in diversi strati di tessuto bagnato, ma l’acqua gelida non sarebbe bastata a placare il bruciore. La pelle nascosta sotto quei panni era ormai rossa, di una sfumatura vicina a quella della carne cruda. Ma non poteva fare nulla per impedirlo, né gli impacchi né gli unguenti erano stati utili a qualcosa.
Si trovava nel bel mezzo della pianura desolata. L’erba era secca e rada, spuntoni di roccia nera protrudevano dal terreno come denti, gli alberi erano rari. Correva veloce quanto le gambe gli consentivano di farlo, sorreggendo il braccio sinistro che aveva cominciato a tremare. Avrebbe dovuto trovarsi il più lontano possibile dal villaggio, quando sarebbe successo. Le crisi erano imprevedibili, ma stavano diventando più frequenti. Non era ancora riuscito a capire che cosa le scatenasse, ammesso che fosse davvero qualcosa di preciso a scatenarle. Forse, obbedivano semplicemente a una volontà propria.
Ancora pochi passi e avrebbe raggiunto la pozza d’acqua. Rolgar la conosceva bene, poiché ormai era divenuto il suo unico rifugio sicuro. Vi avrebbe immerso il braccio all’apice del dolore, benché non servisse a molto. Anche sott’acqua la pelle e i muscoli avrebbero continuato a bruciare, fino a farlo gridare, e avrebbe dovuto sopportarlo per lunghi, interminabili minuti.
Con la vista ormai offuscata, vide che lo spazio che circondava la pozza non era vuoto come al solito. Qualcuno era seduto sulle sponde dell’acqua, affiancato da un piccolo mulo carico di bagagli. Rolgar non aveva idea di chi fosse, cosa ci facesse laggiù o da dove provenisse. Non era un uomo del villaggio, su questo non c’erano dubbi. Era un pessimo momento per incontrare qualcuno. Non esistevano altri luoghi nelle vicinanze dove avrebbe potuto nascondersi e lasciare che il fuoco che lo divorava si sfogasse, lontano da chiunque potesse esserne ferito.
Si arrestò a poca distanza dall’uomo, che gli dava le spalle mentre rimaneva seduto in riva alla pozza. Non si era accorto della sua presenza; Rolgar doveva decidere al più presto come comportarsi. Non poteva in nessun modo nascondere il proprio stato di sofferenza o le manifestazioni del morbo che lo perseguitava, così come lo straniero non avrebbe potuto evitare di sorprendersi e spaventarsi di fronte a lui, quando il fuoco fosse divampato. Come avrebbe reagito? Sarebbe fuggito, oppure lo avrebbe affrontato, magari arrivando a ucciderlo? Rolgar non sarebbe stato in grado di difendersi, in preda ai dolori lancinanti. Che cosa doveva fare?
Prima che potesse prendere una decisione, il fuoco esplose. Una vampata di fiamme crepitanti prese vita dal suo braccio, divorandolo come una torcia. La momentanea perdita di concentrazione era stata sufficiente perché la forza dentro di lui prendesse il sopravvento e sfuggisse al suo controllo. Ora che era libera, sarebbe stato consumato e le sue ceneri si sarebbero sparse per tutta la pianura.
 
Si risvegliò molto tempo dopo, senza la minima cognizione su dove fosse o su quanto tempo fosse trascorso dal suo ultimo ricordo.
La vista era sfocata e la bocca era secca. Sembravano trascorsi secoli dall’ultima volta che una goccia d’acqua si era posata sulla sua lingua. Emise un rantolo, tentando di sollevarsi. Era privo di forze, eppure si sentiva lucido. Riusciva a percepire la presenza di qualcun altro, accanto a sé. Un blando tepore lo circondava e un profumo di carne arrostita si faceva strada, morbido, dentro le sue narici. Infine percepì qualcosa che lo destò del tutto, un odore che non poteva in alcun modo essere lì, ovunque egli si trovasse. Era odore di casa. C’era qualcosa, nell’aria, che costringeva la sua memoria a risvegliarsi e a rievocare momenti che doveva lasciarsi alle spalle.
Rolgar scorse la figura accovacciata a pochi passi di distanza. Era china su un pentolino fumante, all’interno di un luogo che sarebbe stato completamente buio senza il cono di luce proiettato dalle fiamme sotto il pentolino. Si rese conto che erano in una grotta. Il pavimento era pietroso, ma la superficie su cui si trovava disteso era liscia, resa comoda da una stuoia che non aveva portato con sé. Tuttavia, si trattava di un oggetto familiare.
«Mamma...» mormorò Rolgar, con voce roca. «Come hai fatto a trovarmi?»
Ynda voltò lo sguardo verso il figlio, ma nella sua espressione non vi erano tracce di ansietà o di sollievo. Sapeva che suo figlio si sarebbe ripreso, ma era evidente che quel pensiero non la riempiva di felicità.
«Ti cercavo da due giorni. Ho pensato che cercassi l’acqua» rispose lei, semplicemente.
Rolgar si drizzò a sedere. In quel momento, una fitta lancinante pervase l’intero braccio sinistro, dalla punta delle dita fino all’interno della spalla. Per un istante, Rolgar temette che il fuoco si stesse nuovamente risvegliando.
«Non muoverti» disse Ynda. «Devi restare immobile.»
In effetti, Rolgar lo sapeva bene. Ma la sorpresa di vedere sua madre, apprendere che l’aveva inseguito e ritrovato dopo appena due giorni di ricerca, era troppo grande.
Ynda raccolse la cena dal pentolino e la travasò in una scodella. Si avvicinò al figlio con l’oggetto fumante, il cui calore ridestò in Rolgar un’angoscia profonda, quando fu a pochi centimetri dal suo viso.
«Devi mangiare. Il caldo ti farà bene.»
Rolgar non pareva convinto di questo. Aveva conosciuto troppo dolore a opera del fuoco per considerare il calore come qualcosa di positivo. Ma riconobbe di avere fame e lo stomaco brontolante lo aiutò a superare le riserve che ancora serbava verso la zuppa fumante. La carne era tenera e priva di spezie, e solo quando iniziò a masticarla si accorse di avere una fame da lupi. Aveva un sapore strano, non riusciva a capire a quale animale appartenesse, ma era davvero ottima.
Cominciò a rendersi conto della possibilità di essere rimasto incosciente per giorni.
«Quanto ho dormito?»
«Un giorno e una notte. Ti sei ripreso prima del solito.»
Rolgar sospirò. Se era rimasto privo di sensi per un tempo così breve significava che era stata una crisi di lieve entità. Con tutta probabilità presto se ne sarebbe presentata un’altra, di forza ancora maggiore.
«Dove siamo?» continuò a domandare.
«Al sicuro. Questo è tutto quello che conta» rispose Ynda.
Rolgar posò la scodella, ripulita fino all’ultima goccia, e racimolò il coraggio necessario a parlare.
«Mamma... non posso tornare al villaggio.»
Ynda annuì.
«Non ci torneremo, infatti.»
«Volevi dire che io non ci tornerò. Tu non puoi venire con me, è...»
Ynda fissò il figlio negli occhi. Rolgar si interruppe, ricordando che sua madre non aveva mai sopportato che le proprie parole venissero corrette o contestate. Lei si allungò per raccogliere dell’altra zuppa dal pentolino.
«Prendine un altro po’. La debolezza ti fa dire idiozie.»
«Mamma, è pericoloso. Lo sai, io sono...»
«Tu sei mio figlio. Ci sono molte cose che temo, ma tra queste non ci sei di certo tu.»
Rolgar stava per ribattere, quando un ricordo all’improvviso gli si riaffacciò  alla mente. Ricordò l’uomo seduto sulle riva della polla d’acqua che aveva tentato di raggiungere, prima di svenire. Aveva perduto i sensi senza poter scoprire chi fosse o che cosa lo avesse portato in quell’angolo sperduto di mondo.
«Dov’ero quando mi hai trovato? C’era qualcuno con me?»
Ynda socchiuse le palpebre.
«Qualcuno c’era. Un viaggiatore, presumo. È fuggito dopo aver visto... quello che c’è nel tuo corpo.»
Rolgar capì le implicazioni di quel fatto.
«Se è fuggito, questo posto non è sicuro. Ovunque sia andato, racconterà quello che ha visto e porterà qui altri uomini. Ci staneranno.»
«Non sono preoccupata. È andato a est; non c’è nulla, da quella parte.»
Rolgar si tranquillizzò, ma non del tutto. Sapeva che a est c’erano le grandi praterie, dove un uomo poteva viaggiare per interi cicli di luna senza incontrare anima viva. Ma al villaggio aveva sentito dire che talvolta potevano farsi vivi i cavalieri delle steppe, famosi per la loro venerazione per la caccia. E se il viaggiatore misterioso avesse incontrato i cavalieri e questi avessero realizzato che un Figlio del Drago era una preda di valore inestimabile? Come si sarebbero difesi, lui e Ynda? Non sapeva controllare il potere che si annidava dentro di lui: andava e veniva, senza schemi, senza regole. Non avrebbe potuto evocare il fuoco in un momento particolare nemmeno se fosse stata in gioco la sua vita, o quella di sua madre.
«Non ho detto che resteremo qui» disse Ynda, intuendo i pensieri di Rolgar.
«E dove andremo?»
«In un posto dove sarai davvero al sicuro.»
Prima che Rolgar potesse domandare qualcosa, Ynda si alzò e uscì dalla grotta. Era tipico di sua madre troncare le conversazioni a quel modo. Comunicava solo l’essenziale, per lei non era importante che suo figlio conoscesse il piano per intero. Forse, temeva quel che avrebbe potuto fare se fosse stato al corrente di ogni cosa. Rolgar sapeva che sua madre, nonostante si sforzasse di non darlo a vedere, lo aveva a cuore. Qualunque cosa meditava di fare, era per il suo bene.
 
La mattina dopo si rimisero in cammino. L’aria era fredda e Rolgar si sentì rinvigorito dalla brezza che spirava da nord. Il braccio gli doleva ancora, un lieve bruciore ardeva sotto lo spesso strato di fasciature, ma nulla che non potesse sopportare. Le gambe e il resto del corpo rispondevano bene, si sentiva pronto per una giornata di marcia. Ynda aveva un’espressione indecifrabile. Rolgar non riusciva a immaginare quale progetto avesse preso forma nella sua mente, in tutti gli anni nei quali aveva dovuto convivere con un figlio dotato di un potere tanto spaventoso. Avevano vissuto segregati per quanto possibile, ma non era facile vivere isolati nelle Terre Rosse. Alla fine, erano stati costretti a trasferirsi in un villaggio, all’interno del quale risiedevano i primi ricordi di Rolgar. C’era un’immagina confusa, un suono distorto, un odore acre che spesso gli facevano visita, durante il sonno. Con tutta probabilità, si trattava del suo primo ricordo. Il tetto di paglia di una capanna bruciava, le fiamme danzavano vorticose verso il cielo, generando un bagliore rossastro e una coltre opprimente di fumo nero. Qualcuno urlava, molte voci unite in un coro di grida terrorizzate. Il ricordo del calore di quelle fiamme sul volto era ancora vivido. A chi erano appartenute quella capanna e quelle grida? La sua vita, fin dai primordi, era stata tormentata dal fuoco.
Rolgar e Ynda procedettero di buon passo per tutta la mattina, facendosi strada attraverso un percorso costellato di rocce acuminate, praterie sterminate e alberi dai tronchi contorti e rinsecchiti. Era un luogo desolato, privo di abitanti, dove l’unico riparo era offerto dalle sinistre formazioni frastagliate di roccia, nei quali l’acqua e il vento avevano scavato cunicoli insidiosi, nei quali potevano trovare rifugio i rari viaggiatori... o le creature solitarie che dominavano quei luoghi.
Il cielo si era oscurato quando si fermarono per una breve sosta. Un tuono in lontananza faceva presagire l’imminenza di un temporale. Era inutile accendere un fuoco all’aperto, così Rolgar si mise alla ricerca di un’insenatura nelle rocce circostanti. Individuò un anfratto che si apriva all’imboccatura di una parete di basalto costellata da alcuni agrifogli. Il terreno era ricoperto di pietre, che scricchiolarono sotto il peso di Rolgar e Ynda. Trovarono rifugio all’interno della caverna, dove accesero il fuoco. Di lì a poco, esplose il nubifragio.
Per molte ore l’acqua non accennò a voler smettere di precipitare. Ynda, raggomitolata in un angolo, aveva un’espressione cupa. Non parlava e si teneva a debita distanza da Rolgar. Lei non amava la sua vicinanza. I gesti di affetto nei suoi confronti erano sempre stati rari, era così da quando aveva memoria. Rolgar ancora non capiva che tipo di legame ci fosse tra loro. Erano madre e figlio, ma nessuno avrebbe potuto intuirlo dal loro comportamento.
Rolgar non osava avvicinarsi. Sapeva che Ynda l’avrebbe respinto con fastidio. Voleva solo ringraziarla, dirle che le voleva bene. Non pretendeva che lei facesse altrettanto, gli sarebbe bastato che lei accettasse quello che voleva offrirle.
Un brontolio lo distrasse dai suoi pensieri. Era un rumore che non aveva nulla a che fare con il temporale fuori dalla grotta. Più debole, più sordo, ma molto più vicino. Rolgar si voltò di scatto, e scorse una figura muoversi nell’ombra fitta della caverna.
Quel luogo era la tana di qualcosa: una creatura gigantesca, ricoperta di pelo e probabilmente affamata. Una creatura che aveva vinto il timore degli intrusi che avevano invaso il suo territorio e si preparava ad attaccare. Ynda si accorse del pericolo qualche istante dopo Rolgar.
Un altro brontolio sommesso, ora molto più simile a un ringhio vero e proprio, echeggiò nello spazio angusto della grotta. Rolgar aveva già visto orsi nelle foreste che circondavano il villaggio, ma non si era mai trovato di fronte a una creatura tanto imponente. Dovevano fuggire ed evitare a tutti i costi di scatenare l’ira della belva.
Una serie di versi striduli echeggiò da qualche parte alle spalle dell’orso. Aguzzando la vista, Rolgar distinse nella penombra due cuccioli, che si mantenevano a debita distanza dalla madre e dagli intrusi. L’agitazione sembrava evidente nei loro guaiti. Tutto questo non poteva che aumentare la ferocia della padrona di casa. Il fuoco era la loro unica salvezza, senza di esso sarebbero stati aggrediti prima di potersi avvicinare all’entrata della grotta. D’istinto, Rolgar raccolse dal fuoco l’estremità integra di un ramo e agitò la torcia improvvisata davanti al muso dell’orsa, che parve esitare per qualche secondo. Per un breve istante si illuse di aver ottenuto un netto, seppur fugace, controllo sulla situazione. Un istante di respiro che fu sufficiente a far precipitare tutto.
Forse turbata dalla fiamma, forse nel tentativo di distrarlo, l’orsa scattò di lato e caricò verso una delle pareti della grotta, nella direzione di Ynda. Sua madre era rimasta immobile fino a quel momento, senza sapere cosa fare. Fu quell’immagine di sua madre appiattita contro la parete, con gli occhi sbarrati dal terrore e le mani premute contro la roccia, come se sperasse di sprofondarvi, a spaventare più di tutto Rolgar. Non aveva mai visto sua madre in un simile stato di debolezza, lei che era sempre così dura e così forte.
Dopo lo sgomento e il terrore, venne il dolore al braccio.
Il ramo del falò cadde in una pozza d’acqua e si spense, ma la luce continuò a brillare accanto a Rolgar. Il suo braccio era in fiamme, le medicazioni erano in cenere e la pelle bruciava con un’intensità mai raggiunta prima. Qualcosa, nel profondo di Rolgar, reagiva al pericolo e si muoveva per proteggerlo... o forse per proteggere se stessa. Un’ondata di fuoco si sprigionò dal corpo di Rolgar, investendo in pieno la sagoma gigantesca dell’orsa e riversandosi in ogni punto in ombra della grotta, come se volesse cacciare di propria iniziativa l’oscurità. Il dolore era accecante, ma c’era qualcosa di diverso in quella crisi, Rolgar lo avvertì nitidamente. Le fiamme agivano per conto proprio, furiose e inarrestabili come sempre, eppure per la prima volta percepì un flebile controllo su di esse. Un grido eruppe dalla sua bocca quando non poté più resistere alla sofferenza. Ma fu in quel momento che, imponendo al fuoco di cessare la sua opera distruttrice, questo per la prima volta obbedì.
Il vortice di fuoco che aveva preso forma dal suo braccio ora pervadeva anche il torace e la gamba sinistra, ma la sua forza scemava e ben presto rimasero solo fiammelle isolate sparse per il corpo. La pelle era ricoperta di ustioni e abrasioni, il dolore era accecante, ma tutto questo non bastò a distrarlo dalla consapevolezza di aver dominato, anche se per poco, il suo demone.
L’interno della grotta era invaso dal fumo e l’aria era diventata irrespirabile. La consapevolezza di questo forzò Rolgar a reagire e a ignorare l’atroce agonia che provava. Ynda era crollata a terra, la schiena appoggiata contro la parete e la testa reclinata di fianco su una spalla. Non sembrava ferita, ma era incosciente. Rolgar la afferrò per le braccia e iniziò a trascinarla verso l’uscita. Mentre procedeva in quella dolorosa operazione, sollevò per un momento lo sguardo alla ricerca dell’orso: nella direzione dove pochi istanti prima si trovavano la bestia e i suoi cuccioli, ora si intravedevano solo rocce annerite e cumuli di cenere. Rolgar vide delle ossa bruciacchiate e resti di carne incenerita. Abbassò di nuovo il viso e si concentrò solo su Ynda.
 
Fuori, la pioggia cadeva ancora con forza. L’acqua scrosciante fu una benedizione per le ferite di Rolgar, il refrigerio delle gocce gelide gli diede l’impressione di essere immerso in un lago ghiacciato. Protese la testa verso l’alto, chiuse gli occhi e per qualche fugace momento lasciò andare la mente, godendosi il sollievo donatogli dall’acquazzone. Ynda tossì, si girò su un fianco e vomitò. Il fumo inalato l’aveva fatta svenire, ma era sopravvissuta.
Mentre la pioggia lo inzuppava fino alle ossa, Rolgar si soffermò nuovamente a pensare a quello che era successo. Che cosa aveva fatto? Quell’orsa era un belva feroce e stava per aggredirli, ma erano stati loro a intrufolarsi nel suo rifugio. Era una madre che difendeva la propria casa e i propri cuccioli da intrusi pericolosi, che avevano persino osato accendere un fuoco entro i confini del suo regno. E lui li aveva distrutti, aveva permesso che le fiamme ingoiassero la madre, i suoi figli innocenti e la grotta che era stata la loro dimora. Li aveva cancellati dall’esistenza. Fu solo allora che Rolgar comprese a fondo l’entità del suo potere, il suo potenziale di distruzione e quanto egli fosse davvero pericoloso per chiunque gli stesse vicino. Avrebbe potuto distruggere intere famiglie in un solo istante, se una crisi fosse esplosa nel momento sbagliato. E ogni volta, dopo, avrebbe rimirato lo scenario di una distruzione nera, rovente e irrimediabile.
Ma era riuscito a controllare quel potere, seppur per breve tempo. Forse, dopotutto, c’era una speranza. Era un mostro, ma esistevano modi per controllarsi. Che cos’era cambiato in lui? Pur sforzandosi al massimo, non era mai riuscito in una simile impresa. Non aveva impiegato più volontà o più forza delle altre volte. Che cosa era successo, in quella grotta?
Trovò un riparo all’aperto poco lontano, sotto uno sperone a forma di lama. Faceva freddo e non potevano accendere il fuoco, ma era abbastanza comodo per riposare.
«Stai bene, mamma?»
Ynda continuava a tossire. I suoi respiri erano rochi, affannati.
«Hai fermato le fiamme da solo?»
«Sì. Non so come, ma l’ho fatto.»
Per la prima volta da lungo tempo, Rolgar vide sua madre sorridere. Non ricordava di aver mai visto prima d’allora un’espressione simile sul suo volto. Era orgogliosa.
«Bravo figliolo» disse, e lo carezzò sulla guancia. Dopodiché, si addormentò di un sonno inquieto fino alla mattina successiva.
 
All’alba si rimisero in cammino. Ynda non aveva ancora recuperato pienamente le forze, ma non c’era verso di convincerla a riposare. Pareva determinata a raggiungere una misteriosa destinazione, senza badare al proprio stato di salute. Camminava di buona lena, con un’energia superiore a quella che il suo corpo poteva consumare.
Viaggiarono per due giorni a un ritmo quasi frenetico, quasi che fossero inseguiti. E forse lo erano davvero. Rolgar non aveva dimenticato la storia del viaggiatore che si era accampato presso la polla d’acqua. Il pensiero che uno stuolo di nemici potesse tendere loro un agguato lo ossessionava di continuo. In previsione di una simile eventualità, passava la maggior parte del tempo a rimuginare su quanto era avvenuto pochi giorni prima. La sua mente lavorava febbrilmente alla ricerca di un qualsiasi elemento che potesse spiegare con esattezza quegli eventi. Se davvero esisteva un modo per controllare il fuoco, poteva significare la fine di un supplizio durato da quando aveva memoria. La sola prospettiva bastava a galvanizzarlo e a fargli dimenticare la fatica della marcia forzata. E persino il senso di colpa per aver ucciso l’orsa e i suoi piccoli.
Rolgar era così concentrato sui propri ragionamenti da dimenticarsi una domanda con implicazioni molto più immediate: dove stavano andando? Quando finalmente gli si affacciò alla mente, si rese conto di aver seguito ciecamente sua madre, senza interrogarsi sui suoi obiettivi.
«Stiamo andando a nord» esordì.
Ynda si limitò ad annuire.
«Che cosa c’è a nord?» continuò Rolgar, deciso a non lasciare quel punto in sospeso.
«La salvezza» rispose Ynda.
«La salvezza da che cosa?»
«Quella che cerchi da sempre. La salvezza da te stesso.»
Rolgar accelerò il passo e si parò dinnanzi a sua madre, costringendola ad arrestarsi.
«Ti sembra che abbia voglia di giocare agli indovinelli?»
«Devi fidarti di me, Rolgar.»
«Sarebbe più facile, se volessi dirmi...»
«Sta’ zitto e togliti di mezzo.»
Rolgar rimase immobile. Non voleva assumere un atteggiamento minaccioso, ma il suo sguardo rivelava una fermezza che Ynda non aveva mai visto prima. La sua altezza lo rendeva più intimidatorio di quanto non fosse nelle sue intenzioni.
«Perché non vuoi dirmi niente? Perché devi sempre trattarmi così?»
«Taci! Ogni cosa che ho fatto da quando sei nato l’ho fatta per il tuo bene! E gli Déi sanno bene quanto m’è costato!»
«Nessuno ti obbligava a farlo.»
Uno schiocco secco risuonò nell’aria tersa del mattino. Il bruciore dello schiaffo sulla guancia di Rolgar era di un tipo molto diverso da quello che lui conosceva così bene, e provocava un dolore ancora più forte, se possibile.
«Hai ragione. Nessuno mi ha obbligata a prendermi cura di te, quando tutti volevano che ti gettassi nel fiume. Nessuno mi ha obbligata a lasciare la mia famiglia, quando potevo semplicemente abbandonare te in mezzo ai cani. Nessuno mi ha obbligata a uccidere tuo padre, per impedire che lui uccidesse te. Nessuno mi hai obbligata a fare niente, eppure sono qui! Io sono tua madre, e anche se odio quello che sei dal più profondo del cuore, farò ogni cosa in mio potere per salvarti.»
Rolgar rimase in silenzio. Sovrastava ancora Ynda, ma la sua figura era un pallido barlume della sagoma possente che era stata fino a poco prima.
Ynda cominciò a tossire, fino a piegarsi in due. Rolgar cercò di sostenerla, ma le sue braccia vennero respinte da un gesto brusco. Terminato l’accesso di tosse, Ynda scostò il corpo di Rolgar con un braccio e riprese a camminare. Non le servivano parole per intimare al figlio di seguirla.
 
Al tramonto del settimo giorno, giunsero in vista di uno strano paesaggio. La prateria si diradava, i soffici fili d’erba venivano sostituiti da sassi e sterpi, e in lontananza tutto, dal cielo alla terra, appariva nero o grigio. Promontori frastagliati si ergevano ovunque, come spine dallo stelo di una rosa. Avanzando nel cuore di quel territorio, Rolgar scoprì un altro elemento curioso: la terra si trasformava, man mano che procedevano, in una nera superficie levigata percorsa da sottili linee di un rosso vivido e brillante, come rivoli di sangue dal cui interno venisse emanata una luce di origine inspiegabile.
Giunto fin laggiù, Rolgar fu colto da un improvviso barlume di coscienza. Una parte recondita della sua mente richiamò a galla un frammento di ricordo, il racconto di una storia udita tanto tempo prima. Non poteva ricordare chi gliel’avesse narrata, forse sua madre, forse un’altra donna del villaggio. L’unica cosa certa era che aveva già sentito parlare di quel luogo e dei suoi abitanti. La consapevolezza lo invase, le informazioni dimenticate del suo passato, inutili fino a quel preciso istante della sua vita, proruppero tutte insieme come la marea che infrange una diga.
Si stavano dirigendo al tempio dei Figli del Drago.
Rolgar si arrestò immediatamente. Non sapeva cosa lo paralizzasse. La paura giocava sicuramente un ruolo di primo piano, ma non era da escludere la meraviglia. Tutti i bambini del villaggio erano cresciuti con le storie dei seguaci del Dio Drago, il più terribile fra gli Déi del popolo. Nonostante il collegamento fosse ovvio, Rolgar non aveva mai accettato l’idea di poter veramente far parte di quella schiera di uomini mitologici. I Figli del Drago appartenevano alla fantasia, esistevano eppure non esistevano, vivi e reali quando un abile narratore ne cantava le gesta con la propria voce, per essere relegati nuovamente nella favola non appena la voce si spegneva. Non si poteva credere in loro perché erano troppo straordinari per essere veri, ma anche perché accettare che i Figli fossero reali significava vivere con un opprimente senso di timore nel cuore. Rolgar non poteva credere che sua madre lo volesse davvero condurre al cospetto di una leggenda incarnata. A quale scopo, inoltre?
Quando Ynda si accorse che Rolgar rimaneva immobile, ritornò sui propri passi. Non era frettolosa, non più. Ora, in vista della destinazione, sembrava timorosa.
«Siamo quasi arrivati...»
«Perché vuoi che vada da loro?» domandò Rolgar. La sua voce era atona, priva di qualunque emozione.
Ynda non ebbe bisogno di chiedere a chi si stesse riferendo.
«Voglio che tu smetta di soffrire.»
«Perché dovrebbero aiutarmi?»
«Perché sei uno di loro.»
Rolgar aveva riflettuto molte volte sulla natura del proprio demone. Al villaggio l’avevano considerata una maledizione, una punizione inflitta dagli Déi. Non aveva faticato a crederci, a tormentarlo era non sapere cosa avesse fatto per meritare una simile tortura. Il fuoco aveva martoriato il suo corpo fin da quando era bambino, e che colpe poteva aver commesso come bambino, per attirare un simile castigo?
C’erano stati anche momenti, quando ascoltava le storie sui Figli del Drago, in cui aveva fantasticato di essere come loro. Poi, aveva persino creduto diessere uno di loro. Ma era impossibile, naturalmente. I Figli del Drago dominavano il loro potere, c’era chi lo utilizzava per proteggere i deboli e chi per infliggere una morte orrenda, ma erano tutti padroni del fuoco che creavano. Le storie li dipingevano come possenti, magnifici, in grado di eruttare fuoco dalla bocca e dagli occhi. Tutto questo non combaciava con Rolgar.
“Ma negli ultimi giorni ho dominato per la prima volta il demone.”
Quel pensiero si affacciò spontaneo, una risposta che mise in moto sentimenti contrastanti. Da una parte, un’estasi indescrivibile per la possibilità che tutto ciò che fosse vero. Che lui, il reietto e dannato Rolgar, potesse essere in verità un prescelto, un uomo dai poteri incredibile, uno strumento del Dio Drago. Dall’altra, l’angoscia. Che cosa significava essere un Figlio del Drago? Come poteva essere vera quella follia, quella panzana da cantastorie? Era un’angoscia che celava il terrore profondo di non essere nessuno, di essere solo un comune essere umano destinato a una vita di atroce sofferenza.
«Rolgar... fidati di me. Io so quello che sei.»
Ynda si avvicinò e protese una mano per toccarlo. Rolgar indietreggiò.
«E se scappassi?»
«Ti ritroverei» disse Ynda. Entrambi si resero conto della menzogna, ma questo non scalfì la forza di quelle parole.
«Se scappassi per paura? Se ti disonorassi fuggendo come un codardo? Mi uccideresti?»
Ynda lo fissò negli occhi, inchiodandolo con lo sguardo.
«Ci sono stati tanti momenti in cui avrei voluto ucciderti. Ma non l’ho mai fatto. Né lo farò ora, a un passo dal tuo destino.»
«Perché ora?»
«Perché sei pronto.»
Prima che Rolgar potesse comprendere appieno le parole di sua madre, Ynda fu colta da un violento accesso di tosse. Uno sbocco di sangue comparve a un angolo della bocca. La donna era crollata in ginocchio, ormai in preda alle convulsioni. Rolgar si precipitò a sorreggerla, tentando di rimetterla in piedi. Quando fu chiaro che non sarebbe riuscita a reggersi sulle gambe, la sostenne in un abbraccio. In lontananza, un nitrito spaziò nell’aria silenziosa fino alle sue orecchie. Voltandosi, vide sette uomini a cavallo stagliarsi su un crinale di cenere. Non avevano l’aspetto dei Figli del Drago, questo era sicuro. Ma non parevano nemmeno comuni viaggiatori. Aguzzando la vista, notò che uno di loro impugnava una spada. Chi erano quegli uomini?
«Proprio adesso, a un passo dalla fine!» gemette Ynda. «Se solo non ti avessi rallentato, almeno tu saresti stato salvo.»
Rolgar volse nuovamente l’attenzione verso sua madre. Era la prima volta che gli parlava così.
«Chi sono?»
«L’uomo che incontrasti giorni fa, vicino all’acqua, non era solo. Aveva un compagno. È tornato in forze. Cercano vendetta.»
«Vendetta per cosa? Di che stai parlando?»
Ynda fissò suo figlio negli occhi. In essi era impressa una grande tristezza, un’infelicità sopportata troppo a lungo che, alla fine, cominciava a straripare dal suo cuore.
«Ti dissi che quell’uomo era fuggito, spaventato, alla vista del tuo potere. Non è andata così. Ho ucciso quell’uomo. E dopo averlo ucciso, ne ho conservato la carne.»
Rolgar rifletté sul significato di quelle parole. Una parte profonda di sé aveva già intuito quanto sua madre stava per confessargli, ma la parte razionale della sua mente ancora si rifiutava di accettarla. Non poteva essere vero, non voleva che fosse vero.
«Perché lo hai fatto?»
Ynda esitò.
«Ora riesci a controllare il fuoco, non è vero? Almeno in parte...»
Rolgar si sentì bruciare. Una nuova ondata di fuoco stava per esplodere. Sentiva che stava per travolgerlo la crisi più distruttiva che gli fosse mai capitata. L’apprendere di essersi cibato, seppur inconsapevolmente, di un essere umano, e lo scoprire che l’unico modo di porre limiti alla sofferenza inflittagli dalla maledizione del fuoco consisteva proprio nel commettere un atto tanto orrendo, equivaleva a sostituire una maledizione con un’altra, forse ancor più terribile. Di colpo, tutto l’odio, tutta la rabbia del mondo lo sommersero. Non aveva scelto un simile destino, non aveva commesso azioni che lo avessero instradato in quella direzione, eppure la sua vita era contrassegnata dal dolore. Da una parte, il fuoco. Dall’altra, il cibarsi di uomini come unica soluzione per placarlo. Non era giusto. Perché doveva essere costretto a un dilemma tanto atroce?
Ynda tossì ancora, un fiotto di sangue e siero proruppe dalla bocca.
«I miei polmoni sono bruciati» esalò. «Non sei obbligato a salvarmi, Rolgar. So ti averti ingannato, e di non averti amato quanto avrei dovuto. Ma ho cercato... ho cercato di renderti l’esistenza più sopportabile. Non sapevo che altro fare.»
Rolgar tacque. Non la guardò più, né diede segno del tormento che lo affliggeva da dentro. Si limitò a voltarle le spalle e a dirigersi verso gli uomini a cavallo, che stavano scendendo dalla collina e galoppavano veloci nella sua direzione.
Camminava piano, senza fretta, come se ogni passo dovesse essere l’ultimo. Il suo sguardo era a terra, si poggiava sul suolo cinereo e osservava il sottile strato di cenere che sollevava nuvolette sotto la pressione dei suoi piedi. In lontananza, i cavalli caricavano. I cavalieri avevano le spade sollevate, ancora pochi istanti e le lame si sarebbero abbattute sul suo collo, tranciandolo di netto.
Rolgar sollevò le braccia, ma non la testa, che si mantenne piegata verso il basso. La linea che congiungeva l’estremità della mano sinistra a quella della destra era retta. Le fiamme iniziarono a lambire le spalle, le braccia, le mani. I vestiti bruciarono. Il corpo nudo di Rolgar divenne una torcia, le fiamme vorticarono come una tromba d’aria, sempre più veloci, finché il vortice si ingrandì a dismisura e tutto intorno fu solo fuoco.
I nitriti e le grida degli uomini furono sovrastati dal crepitio delle fiamme.
Come tutto era iniziato, tutto si spense, nel silenzio più assordante. Braci e cenere ricadevano dall’alto, quelle di uomini e animali mischiate a quelle sollevate dal terreno.
Ynda vide il corpo di Rolgar fumante, annerito, insanguinato. Ma suo figlio era in piedi, saldo, senza dar segni di provare dolore. Si voltò, e lo vide in faccia. Il corpo era dilaniato dai segni del fuoco, ma i suoi occhi era lucidi, perfettamente coscienti di quello che aveva fatto e che avrebbe fatto. Non c’era sofferenza nel suo sguardo, nonostante le orrende ferite che lo martoriavano. Non sarebbe crollato sotto il peso della maledizione che lo affliggeva.
Rolgar avanzò verso di lei. Non la guardò in faccia, ma Ynda seppe che non si sarebbe fermato. Passò accanto a lei, alla distanza di una mano. Lo spazio che li separava era minuscolo, eppure così vasto, incolmabile. Non avrebbe potuto trattenerlo. Rolgar procedette senza guardarla, senza parlare. Passò oltre, addentrandosi nella terra dei Figli del Drago. Non vide paura nei suoi occhi, non vide esitazione nei suoi passi. Era cambiato. Non era più suo figlio. Questa consapevolezza, per la prima volta, scatenò in lei quell’amore che non aveva mai osato provare fino in fondo. Le lacrime le inondarono gli occhi, e non riuscì a trattenerle. Voleva chiamarlo, supplicarlo di perdonarla, di restare con lei, di non abbandonarla per quei pochi momenti che ancora le restavano da vivere.
Ma ormai non era più Rolgar, figlio di Ynda.
Era Rolgar, Figlio del Drago.
   
 
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