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Autore: KikiShadow93    21/03/2015    7 recensioni
Durante una tranquilla giornata di navigazione, Barbabianca e la sua famiglia trovano qualcosa di incredibile in mare: una bambina, di cui però ignorano la vera natura.
Decidono di tenerla, di crescerla in mezzo a loro, ovviamente inconsapevoli delle complicazioni che questa scelta porterà, in particolar modo per l'arrogante Fenice.
Genere: Generale, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ciurma di Barbabianca, Marco, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un'allegra combriccola di mostri.'
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Piccolo avvertimento: ebbene sì, siamo in dirittura di arrivo. Con questo e altri due capitoli finisce questa storia. Non voglio tirarla troppo per le lunghe perché sarebbe solo noioso per voi, quindi raggrupperò più eventi insieme nello stesso capitolo. Insomma, come ho già precedentemente fatto, ricordate? Quando ci sono le X, vuol dire che cambia ambientazione e tempo. Cercherò di rendere il tutto il più chiaro possibile. (e, se così non fosse, mi raccomando chiedetemi qualsiasi cosa senza farvi problemi, a me farà solamente piacere sapere che a qualcuno interessa e vuole capire meglio laddove non sono riuscita ad esprimere bene il concetto!)
Ok, nulla. Direi che per adesso ho finito, quindi... buona lettura! Spero tanto di non deludervi!

 

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Nella vita avevano ucciso tante, innumerevoli volte, ma niente è paragonabile a ciò che hanno appena vissuto.
Passata l'esaltazione iniziale, in cui hanno esultato fino a lacerarsi le corde vocali per la gioia, si sono resi conto di quanto successo, del sangue che hanno versato, delle vite che hanno stroncato. Tra quella ressa c'era chi invocava pietà, ma loro lo hanno fatto comunque a pezzi per vendetta.
Guardandosi attorno, ora, vedono gli immortali che si trascinano, sfiancati e feriti, sulle imbarcazioni come se la cosa non li riguardasse, e lo stomaco gli si attorciglia.
Fossa, dopo aver aiutato Namiur a montare sulla nave, si lascia quasi cadere a terra sul ponte e si trascina accanto ai fratelli feriti, tutti abbandonati contro il parapetto. Ha le orecchie piene di urla strazianti, di invocazioni e lamenti, le mani sporche di sangue.
Izo zoppica lentamente fuori dal sottocoperta, dove ha trasportato d'urgenza Halta. Le infermiere che si sono portati dietro sono immerse nel lavoro fino al collo, non hanno un secondo di pausa né di respiro. Per prima cosa hanno cauterizzato e somministrato dosi massicce di morfina ai feriti più gravi, poi sono passati ai meno gravi, disinfettando le ferite e ricucendole, ordinando poi a chi ne ha ancora le capacità di aiutare gli altri.
Týr, senza tante cerimonie, le ha cacciate tutte via per prendersi personalmente cura del fratello, il cui battito cardiaco è sempre più tragicamente debole. Gli ha cauterizzato e disinfettato le ferite, lo ha ricucito, gli ha dato il suo sangue, e ora attende solamente il suo risveglio, pregando tutti gli déi affinché ciò avvenga.
Sakura gli ha comunicato immediatamente che Akemi è ormai fuori pericolo, che il suo corpo è riuscito a rimarginare in modo sorprendentemente rapido i danni non appena la scheggia è stata rimossa.
Marco, completamente sfinito, siede sul ponte assieme ai fratelli, circondato dai grifoni, ormai profondamente legati al pirata. Il loro capo, sorprendendo i compagni, gli si è appallottolato vicino, come un fedele cagnolino, riscaldandolo con le proprie piume.
Nessuno di loro proferisce una sola sillaba, troppo scossi dallo scontro. Alcuni si fissano le mani ricoperte di sangue, altri fissano il vuoto con sguardo inebetito, altri ancora fissano le nuvole cariche di pioggia che coprono la Luna Piena.
Wulfric, silenzioso come uno spettro, poggia una mano sulla spalla di Marco, scuotendolo appena. Non lo guarda però, non guarda nessuno di loro: tiene gli occhi fissi sull'isola che diventa sempre più lontana, sulle pire funebri, sulla distruzione che hanno causato.
Marco segue il suo sguardo, non provando il minimo rimorso per quello che ha fatto. Dopo aver visto le condizioni di Satch o, peggio, quelle di Akemi, non riuscirà mai a provare rimorso. Al massimo rimpiangerà di non aver fatto di peggio.
«Presto ci sarà una nuova invasione di licantropi.» afferma distaccato il Mietitore, lasciando che uno dei loro corvi si poggi sulla sua spalla.
Marco volta lo sguardo, confuso. In fondo era convinto che li avessero uccisi tutti quanti.
«Ne sono scappati molti?» domanda con un filo di voce, attirando pure l'attenzione di chi lo circonda.
«Acqua licantropica, raccolta nelle impronte lasciate da un uomo–lupo. Se la bevi, diventi un lupo mannaro. Se sopravvivi, certo.»
Freki, riprese le spoglie umane, gli si avvicina e si appoggia alla balaustra, accendendosi una sigaretta. Lancia il pacchetto ai presenti, sbuffando una densa nuvoletta di fumo.
«Chi si è astenuto dalla guerra verrà per racimolare qualcosa» sibila nervoso, passandosi una mano dietro al collo «E l'acqua licantropica si vende bene.» spiega, piegando lievemente gli angoli della bocca in un falso sorriso.
I presenti sbuffano e scacciano violentemente il pensiero che, un domani, potrebbero dover affrontare di nuovo una situazione analoga.
«Tenete, mangiate qualcosa.»
Tutti voltano leggermente la testa verso Arista, coperta di sangue e fango dalla testa ai piedi, che butta ai loro piedi dei sacchi pieni di cibi in scatola e carne secca.
Si siede poi al fianco di Kingdew, poggiando la testa sul legno alle sue spalle e chiudendo gli occhi. Lei, esattamente come loro, vuole solamente dimenticare.
«Come stanno gli altri?» le domanda con voce ferma Izo, che di mangiare non ne vuole neanche sentire parlare. Dopo aver visto quelle bestie infernali sventrare e mangiare le interiora di creature che aveva imparato a conoscere ed apprezzare, mangiare è proprio l'ultimo dei suoi desideri.
«Halta è sotto sedativi, si riprenderà presto. A Curiel ed Ace stanno facendo delle trasfusioni, e Rakuyo è sotto osservazione per il trauma cranico e la ferita alla spalla; probabilmente c'era del veleno sulla lama, quindi è bene tenerlo sotto tiro.»
«Satch e Akemi?» domanda sbrigativo Fossa, dando così voce al timore più grande di tutti.
Li hanno visti venir portati via di peso, privi di conoscenza, pallidi come morti, sporchi del loro stesso sangue. Hanno anche visto le espressioni dei curatori quando li hanno presi in custodia, e non erano meno spaventate e disperate di quando hanno visto le condizioni di Fenrir.
Sospira forte, Arista, non trovando però il coraggio necessario per dire loro la verità. Il che è buffo, considerato che fino a poco prima non si era fatta il minimo problema a gettarsi in mezzo alla mischia.
In suo soccorso giunge prontamente Freki, che ha un minimo di tatto in più rispetto al Mietitore.
«Akemi si riprenderà. Ha la pellaccia dura ed è rimasta disperatamente attaccata alla vita fin'ora, dando così tempo al suo formidabile organismo di combattere l'argento anche mentre era ancora nel suo corpo.» spiega con voce abbastanza tranquilla, abbassando però il tono mano a mano che si avvicina alla seconda parte del discorso, quella più critica.
Quando sta per cominciare a parlare, però, un urlo da parte di un infermiere lo fa trasalire, accendendo in lui un sonoro campanello d'allarme.
Si porta subito in posizione di difesa, le zanne snudate e gli artigli pronti a lacerare ancora. Se qualcosa fosse riuscito a montare sulla nave, dovrà essere eliminato senza esitazioni.
Il problema, però, sta proprio nel fatto che qualcosa, un parassita, si è realmente imbarcato, rimanendo nascosto dentro al proprio ospite.
Dal sottocoperta, dalla quale proviene il fastidiosissimo e rivoltante odore di carne bruciata, sangue e disinfettante, spunta qualcuno. Qualcuno traballante, coperto con un camice bianco, i capelli disordinati che gli ricadono sulle spalle e le gambe martoriate che riescono miracolosamente a reggere il suo peso.
I presenti lo guardano sotto shock, non riuscendo a capacitarsi di come Satch, le cui tibie erano state spezzate, riesca a starsene in piedi senza l'ausilio delle stampelle.
Freki, che scemo certo non è, si muove lentamente di lato, cercando di restare fuori dalla sua visuale, fino a raggiungere il fratello stremato ma al contempo attento.
«Passamela.» mormora al suo orecchio dopo essersi scambiati un'occhiata d'intesa.
Il minore gli porge l'oggetto richiesto, tenendolo avvolto dentro ad un pezzo di stoffa scura.
«Være forsiktig.»
Freki annuisce, tenendo sotto tiro il pirata che viene stretto amorevolmente dai compagni. C'è chi gli urla che è un incosciente, che non doveva alzarsi dal lettino dell'infermeria; c'è invece chi piange dalla gioia, non riuscendo a separasi da lui.
Nessuno, tranne gli immortali, si accorgono di quei dettagli allarmanti: le gambe improvvisamente rigenerate e capaci di sostenerlo, le ferite quasi completamente rimarginate... il fiato che diventa sempre più corto.
Ma i Comandanti non vi badano minimamente: perché mai dovrebbero farlo?! Satch è vivo, sta bene!
Lo invitano a mangiare qualcosa con loro, a bere un po' di vino per riprendersi, ma il pirata rifiuta tutto ciò che gli viene proposto. È troppo intontito, troppo sconvolto e maledettamente confuso.
Freki, nel frattempo, lo avvicina con calma e lo convince a farsi legare, seppur in modo lente, una sottile catenella al collo per sicurezza. A contatto col metallo freddo e fastidioso, Satch comincia ad innervosirsi e dimenarsi, gesto che fa allarmare tutti gli immortali presenti.
Mimì alza di scatto gli occhi al cielo, notando che quelle fastidiose nubi che i lupi presenti hanno tanto maledetto si stanno diradando velocemente e subito capisce.
«State indietro...» mormora con il cuore in gola, abbassando gli occhi su Satch. Delle lacrime scarlatte sfuggono al suo controllo, mentre le braccia forti di Wulfric la stringono per impedirle di compiere qualche imprudenza.
«Che succede?» domanda Marco, provando ad avvicinarsi all'amico, venendo però bloccato da Killian.
«Stai indietro, Fenice. Non sarà un bello spettacolo.» lo avverte con voce solenne e subito dopo un urlo carico di dolore si leva in aria, facendoli voltare tutti quanti di scatto.

Satch si è accasciato a terra, le mani strette attorno alla testa che pulsa insopportabilmente, il corpo che continua a tremare, ricoperto di sudore.
«AIUTATEMI!» urla disperato, notando però che gli immortali si sono messi come scudi di fronte ai suoi amici e che Wulfric sta abbracciando forte la sua Mimì.
Riabbassa la testa, provando dentro di sé una rabbia che non aveva mai provato prima. Neanche l'essere stato rapito, aver visto la propria donna venir sventrata come un pesce davanti al propri occhi... nulla. Niente è paragonabile all'odio e alla rabbia che sta provando in questo istante.
«Sarà morto tra trenta secondi.» sentenzia Týr, apparso dal niente come è solito fare, aiutando i compagni a creare un solido cerchio attorno all'uomo, così da aver più campo d'azione.
«Cosa?!» urla Izo, che subito prova a scavalcare un enorme Windigo, tra gli ultimi della sua specie. Il tentativo fallisce miseramente e l'immortale, giusto per fargli capire quanto la situazione sia grave, lo afferra per le spalle e se lo mette davanti, consentendogli di vedere.
«Il cuore di un licantorpo è più grosso di quello di un essere umano, ma per allargarsi, prima deve smettere di battere. In altre parole: avrà un infarto. Tutti gli altri organi interni subiranno lo stesso trattamento. I primi a collassare sono il fegato e i reni.»
Satch di colpo smette di urlare. Alza a scatti la testa con la bocca spalancata, gli occhi fuori dalle orbite e la catena ben stretta al collo nerboruto.
Molti dei presenti vorrebbero intervenire per aiutarlo, per lenire questo suo male, ma ci sono troppi licantropi esperti in mezzo a loro che mai e poi mai lasceranno che ciò accada.
«Non è perché non sente più dolore, ma non può più urlare perché le corde volali e l'esofago si sono lacerati e non può emettere alcun suono. A questo punto l'ipofisi dovrebbe fare gli straordinari, inondando l'organismo di endorfine, ma è ormai fuori uso anche quella.» spiega con il solito tono menefreghista Týr, osservando quella creatura che muore e rinasce.
Satch si accascia al suolo, sbattendo i pugni sulla superficie lignea del ponte. La pelle gli prude insopportabilmente per lo spuntare del folto manto nero. I muscoli delle braccia e delle gambe si tendono, tanto da strappargli letteralmente la pelle, imbrattando di sangue il ponte.
Sgrana gli occhi, percorso da uno spasmo, e le ossa nelle ginocchia scrocchiano. Le gambe si piegano innaturalmente, assumendo una forma diversa, diventando sempre più lunghe e muscolose, ricoperte da una folta pelliccia nera.
Si piega in due e geme di dolore quando la cassa toracica si allarga di colpo, quando sente la spina dorsale spezzarsi e poi ricomporsi.
Rabbrividisce per il dolore e delle lacrime gli rigano il volto ricoperto di peluria.
La mascella si frantuma e i connotati del suo bel viso cambiano, diventando più animaleschi: i denti si allungano, trasformandosi in zanne candide e affilate; le orecchie troppo grandi gli permettono di sentire qualsiasi cosa, pure i battiti cardiaci accelerati dei compagni; gli zigomi si ingrossano e si alzano, facendo risaltare gli occhi d'oro liquido come due piccole fessure nell'oscurità; l'olfatto sopraffino gli fa bramare con un'intensità inimmaginabile il sangue dei suoi stessi fratelli.
Alza di scatto il muso, provando a scattare contro Marco per affondare le zanne nelle sue viscere, per togliersi così quel desiderio angosciante dal cuore, ma la catena che Freki gli aveva precedentemente messo al collo diventa improvvisamente stretta e l'argento compie il suo lavoro, facendolo guaire forte per il dolore e distogliendolo dai suoi istinti omicidi, dando così il tempo a Killian di saltargli in groppa ed iniettargli nella collottola un infuso di calmanti misto a qualche goccia di strozzalupo.
Satch prova inutilmente ad alzarsi, a scappare in cerca di prede più facili, ma i due antichi mannari se lo caricano in spalla e lo trascinano nelle viscere della nave, dove lo mettono ai ferri e lo tengono sotto stretta osservazione.
I presenti respirano affannosamente per lo stupore, cercando una risposta che però non arriva. Nell'aria risuonano solo i discorsi senza senso di Týr, che cammina con passo quasi danzante verso l'alloggio di sua figlia.
«Dovrebbe essere morto, ma qualcosa glielo impedisce. È questo che trovo incredibile: viene trascinato all'Inferno ma lasciato in vita, cosciente perché possa sopportare ogni secondo di quella sofferenza. Niente di tutto questo nasce dall'evoluzione: sono le creazioni degli déi!» prima di sparire nell'ombra si volta verso di loro, mostrando il solito ghigno perverso «Sono creature piene di rabbia e odio... perfette
Nessuno dice niente. Sono così scossi che non saprebbero neanche cosa dire.
Continuano a fissare il punto in cui il compagno è sparito, domandandosi come dirlo al capitano e, soprattutto, come risolvere la situazione. Per quanto ne sanno, non c'è alcuna cura per la licantropia.
Kakashi, fregandosene delle urla dei medici e di Geri, ha afferrato una stampella ed è uscito a fatica sul ponte. Gli girano le palle come le pale di un elicottero per essere stato mutilato, ma confida di poter ricevere una bella protesi come quella di Hidan.
Quando però ha visto Satch, imbottito di calmanti e aconito, caricato sulla spalla di Freki come un sacco di patate, ha capito che, forse, forse, non gli è andata così male. Dover fare i conti per l'eternità con un'entità maligna che vive dentro di te e si scatena una volta al mese non è il massimo della vita.
«Avete delle facce orrende!» afferma con una certa allegria, portandosi in mezzo ai pirati con una certa goffaggine. Si siede poi su una pila di scudi nemici, osservandoli distrattamente per scegliere quello migliore da appendere ad una delle pareti della cucina.
Tra i pirati di Barbabianca, il primo a ritrovare la voce è Namiur, che si butta a terra come se la forza di gravità, improvvisamente, lo schiacciasse.
«Come faremo con lui adesso? Nella sua condizione sarebbe troppo pericoloso intrappolato sulla nave.» mormora sconcertato, dando vita alla più grande preoccupazione di tutti.
Kakashi si volta verso l'uomo-pesce, reclinando un poco la testa sulla spalla destra.
«C'è solo una cosa che potete fare in questo caso.» risponde tranquillo, rigirandosi tra le mani un pugnale affilato che ha attirato la sua attenzione in mezzo a quelli presi sul campo di battaglia.
«Non lo uccideremmo mai, razza di stronzo!» gli urla contro Kingdew, rabbrividendo leggermente quando il vampiro rizza la schiena e lo fulmina con lo sguardo.
Si alza sgraziatamente reggendosi alla stampella e si avvicina saltellando al pirata, portandosi a pochi centimetri dalla sua faccia: «Intendevo dire che dovrete prolungare la vostra permanenza ad Helheimr, coglione

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Una tempesta in mare aperto è qualcosa con cui non si può scherzare. Non si può sfidare così apertamente la catastrofica forza della Natura quando a bordo della tua nave ci sono feriti tanto gravi che un semplice movimento brusco potrebbe ucciderli.
È per questa ragione che Týr e Wulfric hanno deciso di allungare il percorso per tornare a casa, così da poter evitare una tempesta che si stava verificando proprio lungo la loro rotta.
Con questo cambiamento, durante il quale ogni singolo ferito è stato monitorato ogni secondo da chiunque fosse capace di stare in piedi e non vomitasse di fronte alle loro atroci ferite, hanno impiegato due giorni in più per tornare all'isola dove, ad attenderli pazientemente, hanno trovato Astrid, i due principini e tutti gli abitanti rimasti all'isola.
Quando la donna ha visto le condizioni in cui versavano la figlia e il marito è rimasta fredda come il ghiaccio, ordinando semplicemente che venissero condotti immediatamente nei loro alloggi e che venissero curati al meglio.
Týr l'ha guardata dritto negli occhi, leggendovi dentro un tale sgomento che per poco non è scoppiato in lacrime pure lui. È stata la sola presenza dei gemelli ad impedire loro di sfogarsi, per non turbare le loro giovani e ansiose menti.
Ed, zoppo ed esausto, si è trascinato fino ai due fratellini urlanti e, sostenuto dalla zia Jena e da Ginevra, ha dato loro l'orrenda notizia, stringendoli a sé con quanta forza gli rimaneva in corpo.
Jena, distrutta per la perdita del fratello, si è caricata in braccio la bambina e se ne è andata a testa bassa, senza chiedere il permesso a nessuno. Vuole restare sola a leccarsi le ferite, a consolare i giovani nipoti che da adesso sono figli suoi.
Barbabianca, stanco, affaticato dalla malattia e mortalmente in pensiero per la vita dei propri figli, si è commosso nel vederli scendere tutti quanti. Sì, ha visto che molti sono feriti, gli è stato detto della trasformazione di Satch e delle condizioni difficili in cui si trova Pugno di Fuoco, ma si è commosso lo stesso ed ha abbracciato con forza Týr: lui, l'uomo che per mesi lo ha fatto dannare e, ne è sicuro, gli ha pure abbreviato la vita con tutte le sue follie, gli ha riportato i suoi figli vivi.
Wulfric, dopo aver consegnato Kakashi ad un medico di cui si fida ciecamente, lo stesso che costruì la protesi per Hidan, lo avvicina calmo e lo prende sotto braccio.
«La guerra è stata dura, ti basti sapere questo.» afferma secco, costringendolo a seguirlo.
«Tutto qui quello che hai da dirmi?» domanda beffardo il pirata, guardandolo dall'alto in basso. Non gli piace il modo in cui si muove, il modo in cui parla, il modo in cui respira, ma al tempo stesso gli piace la sua compagnia, la sua intelligenza e il suo sarcasmo sottile.
«Ti racconterò i dettagli quando ti sarai ripreso dall'operazione.»
Barbabianca non ha neanche il tempo di contraddirlo che un grosso ago gli si conficca nel collo e presto, ma non troppo da impedirgli di bestemmiare anche nella loro lingua, perde i sensi.
I suoi aiutanti se lo caricano in spalla e lo trasportano d'urgenza in sala operatoria, come era stato ordinato loro prima ancora che partissero.
Wulfric è così: lui programma ogni cosa che reputi importante, e per questo aveva pianificato di fare l'intervento appena tornato dalla guerra. Perché lui sapeva che sarebbero tornati. Sperava certo con qualche truppa in più, ma alla fine è costretto dagli eventi a farselo andar bene.
Si volta verso il suo Signore, intento a discutere animatamente con Astrid e, scuotendo sconsolato la testa, semplicemente se ne va. Sarà un'operazione difficile la sua, dovrà aggiustargli il cuore così che possa reggere per altri anni di navigazione, non ha tempo da perdere con i loro battibecchi.
Se solo si fosse concentrato di più, si sarebbe accorto che non stanno discutendo affatto: stanno solo parlando, si consolano come meglio possono fare, e decidono cosa fare.
Astrid, Imperatrice reggente, colei che deve prendere le decisioni nel caso il compagno sia impossibilitato, gli ordina, con tono incredibilmente docile, di occuparsi del funerale di Freya e poi di andare dalla figlia.
«Io devo stare al fianco di mio fratello.» sibila nervoso ed Astrid, lasciando i presenti di stucco, gli carezza dolcemente la guancia.
«Tu pensa a tua figlia, mio dolce Re. Io penso al nostro Fenrir.»
Si rende conto solo in questo istante, Týr, che ormai non può più mettersi in mezzo tra loro, non può più essere lui a vegliare su Fenrir: ora tocca ad Astrid.
Però, se ci pensa, la donna gli sta regalando un periodo testa a testa con sua figlia, la creatura per la quale è morto col sorriso sulle labbra. Sua figlia... che ha qualcosa di strano.
Afferra una cassa di legno e vi sale sopra, osservando con attenzione tutti i presenti.
Sanno cosa sta per dire, sanno come si svolgono i funerali tra i fedeli agli Æsir, ma rimangono tutti in religioso silenzio ad ascoltare le sue parole: «Chi morirà con lei?»
È una domanda superflua la sua: tutti sanno già chi andrà con Freya. Dopo aver terminato la frase, infatti, la voce di Genma si leva, forte e chiara: «Io.»
Il Re lo avvicina e gli mette una mano sulla spalla, guardandolo dritto negli occhi. È una scelta coraggiosa la sua, e per questo ha tutta l'intenzione di onorarlo come un dio fino al momento finale.
«Non appena la cosa viene detta diviene obbligatoria e non ci si può più sottrarre.» non che Genma ne abbia la più che ben minima intenzione, non quando ha perso tutto ciò per la quale continuava a vivere nelle vesti di un mostro, ma gli è stato comunque ricordato.
Detto questo Týr lo affida in custodia a due giovani ninfe, affinché lo sorveglino e soddisfino qualsiasi suo desiderio.

Durante le diciassette ore che lo separano dal solenne funerale, il giovane lupo non fa altro che bere e mangiare, senza concedersi il piacere di una donna o il sollievo di qualche ora di sonno. Rimane vigile, per quanto il buon vino glielo conceda, e guarda i preparativi della cerimonia.
Alcuni dei Comandanti, affascinati da questo rito, aiutano per quanto è loro possibile.
A Barbabianca è stato concesso l'onore di poter assistere sulla sedia a rotelle, attaccato ad un numero spaventoso di flebo, con Wulfric sempre al suo fianco. È stata un'operazione complicata, ma alla fine ben riuscita. Secondo i pronostici dell'antico vampiro, ha ancora molti anni di navigazione da affrontare adesso, purché si attenga alle indicazioni del medico.
Trascinandolo da una parte all'altra, gli ha permesso di assistere alle preghiere agli antichi déi, ai sacrifici animali per la vittoria e per la gloria di Freya nel Valhalla. Gli permette pure di assistere alla preparazione della tomba dell'antica Lothbrook.
I costruttori hanno tirato la nave della donna sulla riva, eretto dei pali di betulla ed altro legno così da creare un giaciglio, coperto da pregiate coperte e cuscini.
È proprio lì, in quel tetro crepuscolo , che vi posano Freya, circondata da cibi prelibati e vini, le sue armi e tutti i suoi preziosi averi.
Subito dopo Týr, che si è assunto il compito di incarnare l'Angelo della Morte, fa condurre il giovane lupo davanti a sé, intontito dalle droghe che gli sono state somministrate per alleviare il dolore, lavato e unto con oli profumati, e vestito con indumenti pregiati. Ed è in quel momento che gli taglia la gola.
Freki e Killian, che lo sostengono per le braccia, lo voltano verso i presenti e lo sollevano per aria, osservando tristemente la sua testa ciondoloni abbandonata all'indietro.
«Se, der borte ser jeg min far.»
Lo abbassano delicatamente e di nuovo lo sollevano.
«Se, der jeg ser min mor, og mine søstre, og mine brødre.»
Lo abbassano e sollevano per la terza volta e per la terza volta continuano con l'antica preghiera.
«Se, der jeg ser min blodslinje,
Se, ring meg.
De spør meg om å ta min plass blant dem,
Innenfor murene til Valhalla!
Hvor den modige kan leve
I Evig!»*
Poi Týr, che è il parente più prossimo della ragazza, prende un pezzo di legno e accende un fuoco, venendo poi imitato da tutti i presenti, inclusi gli uomini di Barbabianca, che vogliono rendere omaggio alla coraggiosa guerriera.
Essendo in troppi, però, si trovano costretti a passarsi la torcia di fuoco di mano in mano, fino a farla giungere al capitano che, assieme agli esponenti maggiori dell'isola, la lancia nella catasta di legna sotto la nave.
In breve le fiamme avvolgon, il padiglione, Freya e Genma, ed ogni cosa sulla nave. Comincia a soffiare un forte, terribile vento, così che le fiamme diventano più furiose e più intense, innalzandosi con lingue di fuoco indomabili verso il cielo plumbeo.
Týr, calmo e statuario come sempre, si avvicina a Barbabianca, affascinato dall'intenso spettacolo a cui ha appena assistito.
Lo guarda con attenzione, pensando che un domani, quando la situazione sarà più calma, gli spiegherà alcune cose, gli racconterà leggende e miti e, magari, lo convincerà a convertirsi a credere nei suoi stessi déi.
Alza per un istante gli occhi al cielo, sorridendo appena.
«Thor ha mandato il vento per aiutarli.» mormora quasi tra sé, abbandonando velocemente la spiaggia per poter andare dalla figlia, portata con urgenza nei suoi alloggi.
Come spesso accade, il Re ha ragione: trascorsa neanche un’ora, di tutta la legna e i due giovani non vi sono più che tizzoni e ceneri.

XXXXXXXXX

Dopo tre giorni sedato su un lettino d'infermeria, Ace si sveglia a fatica, socchiudendo debolmente gli occhi, fisicamente distrutto come se un tir gli fosse passato addosso con tanto di rimorchio.
Sente ogni muscolo fargli un male lancinante, le ferite all'addome tirare quando prova a mettersi seduto, e subito una banshee lo blocca tenendolo per le spalle, ordinandogli con tono fermo di non fare sforzi e rimanere sdraiato.
Si guarda attorno, feriti ovunque, mostri che si prendono cura dei malati.
La luce gli massacra agli occhi.
Sente, improvvisamente, un dolce profumo di resina, sale e di licra... e gli sembra il più dolce profumo che abbia mai sentito in vita sua.
Allunga a fatica una mano dietro la testa, non senza provare un discreto dolore, e trova sotto alla sua testa una camicia di un giallo vivo. Una camicia sua.
«S-silly...»
Un'infermiera della ciurma, udita la sua flebile voce, lo avvicina con lacrime di gioia che le solcano le guance. Non avrebbe mai pensato che si riprendesse tanto velocemente.
Gli tampona la fronte con un panno fresco per abbassargli la febbre e poco dopo viene allontanata dal Primo Comandante, felice come poche volte in vita sua.
«Ho una cosa per te.» gli porge tranquillamente un foglietto stropicciato, la cui calligrafia all'interno è davvero difficile da decifrare.

Ace s'impegna con tutto sé stesso per riuscire a capire quale sia il messaggio, finché, colpito da un lampo di genio, finalmente riesce a comprendere quelle poche parole scritte di gran fretta: “Siamo stati interrotti, ricominciamo? Silly
Ace, a quel dolce e assai allettante e promettente invito, si alza a sedere di scatto, pronto a raggiungerla, venendo però bloccato da Marco.
«Non ci pensare neanche.» sibila a pochi centimetri dal suo viso, con un tono che non ammette repliche «Ti butterai nel suo letto tra qualche giorno, ok?»

XXXXXXXXX

Ogni volta che crediamo di conoscere il futuro, anche solo per un secondo, questo cambia e non ci resta altro da fare se non scegliere la nostra prossima mossa. Possiamo scegliere di avere paura, di restare fermi a tremare, pensare alla cosa peggiore che potrebbe accadere. Oppure possiamo scegliere di fare un passo in avanti, nell'ignoto, con il solo pensiero che quello che accadrà sarà fantastico.
Akemi si ritrova in bilico tra queste due scelte da una settimana ormai, e proprio non sa che cosa fare. Non sa neanche cosa pensare, e sicuramente Týr non le sta dando l'aiuto sperato, visto che continua a farsi delle partite a solitario con un vecchio mazzo di carte.
La verità è che non si vuole esprimere, vuole che prenda da sola le sue scelte, ma comunque non ha intenzione di lasciarla sola.
Considerando poi che la giovane principessa si è rinchiusa nella propria stanza, tenendo ben alla larga chiunque, non può proprio evitarlo. Non vuole che stia in pensiero per le condizioni dei suoi compagni di ciurma, quindi funge anche da passaparola. E da cameriere. Già, Týr, il Re delle Tenebre, la creatura più scontrosa, sarcastica, pungente, viziata e fastidiosa che cammini sulla terra, si è piegato a soddisfare ogni capriccio della giovane e depressa figlia.
Qualsiasi cosa per un suo sorriso.
«Týr...» lo richiama con un filo di voce, nascondendosi sotto alle spesse coperte fin sopra la testa.
Il vampiro alza di scatto gli occhi glaciali sulla ragazza, osservandola con attenzione: a furia di rifiutare il cibo a causa della paura, dello stress e della depressione, si è ridotta ad un mucchio d'ossa. Ma l'ordine ricevuto è stato categorico: nessuno deve varcare quella porta.
Hanno mascherato il tutto con la scusa dello stress post-traumatico, ma sanno entrambi che non reggerà ancora per molto.
Si alza elegantemente da terra, Týr, avvicinandola e sdraiandosi sul letto al suo fianco, le braccia piegate dietro la testa, lo sguardo perso nel vuoto.
«Ho bisogno di te. Sempre. Perché... tu sei la mia persona.» mormora Akemi, imbarazzata.
«Che sdolcinata!» sfotte prontamente Týr, deciso a strapparle almeno un sorriso.
Akemi si volta di scatto, guardandolo con un misto di paura e speranza negli occhi di ghiaccio cerchiati da profonde occhiaie.
«Týr, tu sei la mia persona, sei parte di me. Per mesi siamo stati un'unica cosa! Se farò questo...» abbassa repentinamente lo sguardo, stringendo le mani con tale forza da lacerare la pregiata stoffa delle coperte «Ho bisogno di te. Devo sapere che ci sei, ho bisogno che mi incoraggi, perché sei l'unica persona che mi conosce veramente. Ho bisogno che fai finta che ce la farò anche se non ci credi. Perché se mi abbandoni adesso, sul serio non ce la farò.»
Týr le sorride dolcemente, scostandole una ciocca di capelli ribelli dal viso. Le sorride e per un istante Akemi sente che qualsiasi cosa andrà al proprio posto.
Poggia la fronte sulla sua, Týr, guardandola dritto negli occhi.
«Sai che sarò sempre al tuo fianco, anche se volesse dire combattere contro Odino in persona. Ma giuro che ti caverò le budella dalla bocca se farai la sdolcinata un'altra volta.»
Si guardano ancora dritto negli occhi e, seppur per un breve istante, riescono a trovare un lieve sollievo nella risata l'uno dell'altra.

XXXXXXXXX

È ancora tutto buio.
Tante volte gli è successo di svegliarsi troppo presto, quando ancora tutto tace ed è possibile fare caso ad alcuni suoni e rumori che durante la giornata passano inosservati. Colpa dei pensieri, si è sempre detto.
Ma adesso non riesce a svegliarsi. È totalmente cosciente di quello che lo circonda da un paio di giorni ormai; sente il pianto di sua moglie al suo fianco, le vocine tristi dei suoi figli che, di tanto in tanto, vengono a fargli visita e vengono poi trascinati lontano da uno dei suoi soldati.
Sente la mano calda di Astrid sulla sua, sente le sue preghiere dolci affinché si svegli.
E lui lotta con tutte le sue forze per riuscirci, per riuscir ad alzare la palpebra per poterla guardare nei suoi bellissimi occhi chiari e dirle che va tutto bene. Ma per fare questo, gli ci vuole concentrazione.
Lentamente, con uno sforzo disumano, riesce a socchiudere la palpebra e, prima di ogni altra cosa, si guarda attorno.
I raggi del Sole filtrano tra le piccole fessure delle tapparelle, disegnando nella parete una sottile striscia di luce, come per delinearne il perimetro.
Cerca d’indovinare che ore sono, ma proprio non saprebbe dirlo, così come non saprebbe dire da quanto tempo è inchiodato in quel letto, da quanto è privo di sensi.
Dopo un momento di incertezza, volta lentamente il capo verso la compagna, che lo guarda con espressione stralunata. E non l'ha mai trovata tanto bella.
Il volto pallido ma gentile che vorrebbe riempire di baci, gli occhi intensi ed enigmatici che fisserebbe per ore; le rosee labbra, che nella sua mente si dispiegano nel perfetto sorriso che ha amato dalla prima volta che l'ha visto.
«Fenrir...» mormora con un filo di voce, stringendo automaticamente la mano esile attorno alla sua e gettandosi in avanti, ricoprendogli il petto bendato con le lunghe ciocche dorate dei suoi capelli. Lo bacia teneramente, a labbra socchiuse, con uno di quei baci che si protrae per qualche secondo e ti lascia quella piacevolissima sensazione di benessere.
Quando si separano, si guardano a lungo negli occhi, in silenzio, godendosi quella dolce sensazione di essersi ritrovati nell'oscurità.
Ma entrambi sanno benissimo che la notizia del risveglio dell'Imperatore farà immediatamente il giro dell'isola anche senza dare l'avviso. Infatti la chiassosa entrata dei gemelli non li sorprende per niente.
«PAPÀÀÀ!!!»
I due giovani principi si buttano con forza tra le braccia del genitore, superando senza sforzo l'ostacolo rappresentato dalla madre.
Fenrir geme appena per il dolore che questa festosa aggressione gli provoca alle varie ferite, ma non ha alcuna intenzione di separarsi dai due. Li stringe dolcemente a sé, sorridendo con fare paterno mentre i due piangono per la gioia di saperlo salvo.
«Avevamo paura che non ti svegliassi più...»
Sono in molti quelli accorsi ad assistere al suo risveglio, tra cui i pirati di Barbabianca. Il capitano, più di tutti gli altri, non vedeva l'ora che ciò accadesse per poterlo ringraziare.
Freki, trattenendo le lacrime di gioia che proprio non gli si adducono, gli si avvicina lesto e poggia delicatamente una mano sulla sua fronte per controllare la febbre, sospirando quando si accorge che ormai è passata anche quella. Ancora qualche giorno, e le ferite saranno perfettamente cicatrizzate.
«Come ti senti?» gli sussurra teneramente Astrid, afferrando sotto le braccia Floki e trascinandolo di peso a terra. Bjorn, più coscienzioso del fratello, si sposta da solo e si inginocchia sul materasso, osservando la scena con attenzione.
«Come se avessi un picchio che mi becca dentro al cervello, quindi se poteste evitare di urlare...» sorride mentre lo dice, Fenrir, facendo sorridere anche la consorte.
Legge però nei suoi occhi una velata preoccupazione, e questo lo mette subito sull'attenti.
Lascia vagare lo sguardo per la stanza, passando in rassegna tutti i volti, non riuscendo ad individuarne due.
«Dove sono Týr e Lilith?» domanda frettolosamente, provando inutilmente ad alzarsi dal letto per andare a cercarli di persona. Il dolore alle ferite e le mani forti del suo Beta, però, glielo impediscono.
Astrid si siede con cautela di fianco al marito, sospirando rassegnata mentre si passa una mano tra i capelli «Sono dieci giorni ormai che Lilith non esce dalla sua stanza. Týr è con lei e non permette a nessuno di avvicinarsi. Ha detto che ne dovrete parlare insieme.»
Fenrir ha ascoltato con attenzione le sue parole e, dopo aver cacciato l'orribile presentimento che fosse accaduto loro qualcosa di grave, scaccia con un gesto secco Freki e si alza velocemente, riducendo il suo bel viso solcato da molte cicatrici ad una maschera di dolore.
Collo, spalle, fianchi e arti sono pieni di morsi ricuciti; diversi lembi di carne sono stati trapiantati; l'orecchio destro lo ha definitivamente abbandonato e, come era prevedibile, Astrid gli ha sistemato i capelli così che non si possa notare.
S'incammina verso la porta con passo malfermo, venendo subito affiancato da Bjorn, intenzionato a non perderlo più di vista. Certo, finché qualcos'altro non attirerà maggiormente la sua attenzione, s'intende.
Astrid, indispettita, si fa largo in mezzo ai vari Comandanti che osservano con stupore la scena «Fenrir! Sei in mutande e ancora convalescente!»
L'uomo, per tutta risposta, prende sulle spalle martoriate i ben cinquantatré chili di muscoli del figlio e continua a camminare, ancheggiando in maniera vistosa per prenderla in giro e per sottolineare il fatto che non gliene può fregare di meno.
Halta, che si è totalmente ripresa ormai da quattro giorni dalla terribile botta alla testa che aveva preso, si volta verso la terribile Sovrana e le sorride con aria vagamente maliziosa «Certo che te li sai scegliere gli uomini.»
Astrid scuote la testa sconsolata, ridacchiando appena.
Poggia un braccio attorno alle esili spalle della pirata e si abbassa fino al suo orecchio, mormorando sorridente «Puoi scommetterci le palle, sorella.»

Chiunque lo veda passare per i corridoi scoppia in lacrime di gioia. Tutti, dal primo all'ultimo.
Da quando il suo corvo Huggin è volato via dal suo davanzale gracchiando a pieni polmoni la lieta notizia, tutta Helheimr si è risvegliata.
In quei dieci giorni sull'isola pareva essere calato un tetro velo che impediva loro quasi di respirare. Tutti coloro che erano distrutti interiormente dai lutti subiti, come i piccoli Banzai e Shenzei, si erano rintanati nelle proprie case a leccarsi le ferite. Ma con la rinascita del loro dio, della creatura così forte e coraggiosa da rischiare la propria vita per proteggerli da un'orrenda vita in catene, anche i più afflitti sembrano riaver acquisito vigore. Certo, il dolore nei loro cuori sarà sempre presente, ma adesso sanno con estrema certezza di poter rinascere con lui.
Fenrir saluta con un cenno del capo i presenti, appuntandosi di passare a salutarli come si conviene in un secondo momento e di accertarsi delle loro condizioni, finché non arriva davanti alla porta della nipote, alla quale bussa con poca convinzione dopo aver rimesso a terra Bjorn.
«Týr?» lo richiama, sentendolo chiaramente mentre si butta di peso contro la porta affinché nessuno possa entrare.
«Non ci sono, prova più tardi!» urla a pieni polmoni il minore, facendo sghignazzare debolmente Akemi.
«Týr, sono Fenrir.» si annuncia con tono più fermo il licantropo, voltando un poco la testa per osservare la calca di gente che lo ha seguito: sua moglie, i suoi figli, i pirati, il capitano, immortali di vario genere. Tutti, insomma.
«Fenrir? Sei sicuro, sicuro?» domanda dubbioso il vampiro.
Fenrir sospira esasperato dalla paranoia del fratellino, passandosi stancamente una mano sul volto stanco.
«Sono sicuro. Mi fate entrare?»
Un piccolo spiraglio si apre e fa capolino l'occhietto brillante e furbo dell'antico vampiro, che saetta da una parte all'altra. Guarda uno per uno i presenti con espressione infastidita, per poi ripuntare lo sguardo sul fratello.
«Solo tu.» sentenzia infine, assottigliando lo sguardo.
«Solo io.»
Detto questo l'uomo entra, trovando la giovane nipote seduta sul letto con la spessa coperta che le copre pure la punta delle orecchie.
Il caos che invade la stanza ha raggiunto livelli davvero imbarazzanti, tanto che non si sorprenderebbe neanche nel trovare in giro un'allegra famigliola di topolini.
Devo riprendere in mano la situazione, se non voglio che la mia isola diventi una discarica. Pensa innervosito, nascondendo lo sdegno dietro ad un sorriso tirato.
«Allora, mi dite qual è il problema?»
Si siede a sua volta sul letto, passando affettuosamente una mano tra i capelli scompigliati della nipote. Vorrebbe dirle che si è battuta egregiamente e che sarebbe onorato nell'averla nel suo corpo di guardia, ma si rende ben conto che non è certo il momento per proposte simili.
Týr gli mette davanti carta e penna, lo sguardo serio ed impassibile. Nessuno deve sapere cosa stanno per dirsi, non finché non giungeranno loro tre ad una conclusione. E quando il vampiro gli scrive cosa è successo, Fenrir si sente profondamente, mortalmente in colpa. Se non fosse stato per lui, se non avesse ceduto ad un suo capriccio, adesso lei non si troverebbe in un tale guaio.
Scrivono per ore e ore, così tante che per gli spettatori fuori dalla stanza sembrano secoli interminabili.
Wulfric, curiosamente ignaro di ciò che sta succedendo, inietta regolarmente calmanti all'imponente capitano affinché non ci siano complicazioni dopo l'operazione. Perché, si sa, un'operazione al cuore non è certo una passeggiata, e per quanto ben riuscita è sempre bene stare molto attenti.
Dopo quella che pare essere un'eternità, i due Sovrani finalmente escono dalla stanza con la testa china. Si guardano negli occhi, hanno paura delle conseguenze - e di Astrid -, e i presenti si sono ben resi conto che forse è meglio non assillarli con troppe domande.
L'unico che trova il coraggio di proferire parola è Freki, incapace di mordersi la lingua quando il suo Signore gli passa vicino: «Feromoni?»
Tutti gli immortali si voltano verso Fenrir e trovano una risposta positiva nel suo sguardo torvo.
«Non è possibile, lo sapete...» balbetta Killian, portandosi entrambe le mani tra i capelli.
«È più licantropo che vampiro.» sentenzia Wulfric, incrociando le braccia al petto mentre Sakura, che pare aver abbassato docilmente la cresta col compagno, gli cinge l'addome con le esili braccia.
«Esatto.» sentenzia Fenrir, venendo velocemente raggiungo dalla consorte, che quasi non riesce più a respirare per la sorpresa.
«Volete spiegarmi cosa sta succedendo?!» sibila minaccioso Marco, sin troppo in pena per la sorte della ragazza.
Týr gli rivolge uno dei suoi soliti sorrisini che vogliono dire tutto e niente, avvolgendogli un braccio attorno alle spalle e costringendolo ad incamminarsi verso quella dannata stanza.
«Ciccino, io ti avverto: pare che un bel micetto nero si sia sdraiato sulle sue gambe e non c'è stato assolutamente verso di farle fare la ceretta. Devi entrare, non farci caso e vedrai che andrà tutto bene
Marco, seppur titubante, si addentra in quel caos senza fine, cercando di scorgere la compagna in mezzo alla matassa di roba sparsa un po' ovunque.
Solo dopo qualche istante si rende conto che si è rannicchiata in un ammasso infinitamente colorato di coperte in un angolo della stanza, quasi volesse mimetizzarsi, e con calma le si avvicina.
Alla porta, nel frattempo, tutti assistono all'inevitabile.
«Akemi, dimmi che posso fare qualcosa.» mormora disperato l'uomo, impietosito dal suo stato sciupato, con il trucco colato, i capelli che sembrano il nido di qualche rapace, le guance scavate, le labbra screpolate e le occhiaie violacee sotto agli occhi.
Akemi sorride appena, cominciando a sfilarsi di dosso i vari strati di coperte usati come corazza, per poi ergersi in piedi, mostrando così il problema «Hai già fatto qualcosa, Marco.»
«Co- come?» ansima sotto shock il Comandante mentre fissa con occhi stralunati il ventre tondo della ragazza.
«Non siamo stati attenti.»
È forse la prima volta da quando lo conoscono che Marco ride. Non una risata isterica, non una risata falsa. No, una risata vera, di quelle che ti vengono del cuore.
Per un attimo i presenti si guardano confusi l'un l'altro, incapaci ci capire il perché di quella bizzarra reazione, ma si calmano quando lo vedono svenire di colpo, sotto lo sguardo preoccupato della futura mammina.
«È buffo: pure io ho reagito così quando Astrid mi ha detto di esserci rimasta.» afferma distrattamente Týr, punzecchiando con la punta della scarpa il comandante steso a terra.
«Sei svenuto?» domanda incredulo Rakuyo, trattenendo le risate. Dopo un evento simile, può già pregustare le prese per il culo che seguiranno negli anni avvenire.
«Sono andato giù come un morto! E sono pure caduto su un cactus, se vogliamo rendere la cosa ancora più comica.» continua a raccontare Týr, come se la cosa neanche lo riguardasse. Lancia un'ultima occhiata al pirata, per poi alzare la testa con un sorriso che va da un orecchio all'altro.
«Lasciamolo qui e andiamo a mangiare qualcosa, sto morendo di fame!»

Fenrir, dopo dieci giorni di flebo, mangia come se non lo avesse mai fatto e, allo stesso tempo, come se fosse il suo ultimo pasto. Ogni cosa viene gustata fino in fondo, ogni boccone assaporato e masticato con gusto. Neanche gli odori vengono tralasciati: ogni profumo è più buono quando la morte ha provato a prenderti.
A tenergli compagnia ci sono i gemelli, la cui fame pare non avere mai fine. Sì, ci sono persone al mondo con un forte appetito quasi inestinguibile, come Portuguese D. Ace, ma loro sono diversi: il loro organismo brucia in pochi minuti tutto ciò che viene ingerito per dare loro forza, così da combattere gli effetti dello strozzalupo che la madre gli somministra per rallentarne lo sviluppo.
Alcuni pirati hanno provato a rubare loro un boccone, all'inizio, ma quando si sono ritrovati due paia di diabolici occhi vermigli puntati addosso hanno desistito, accontentandosi di ciò che viene loro offerto da bere.
Non fanno conversazione, nessuno di loro, troppo presi dall'immagine incisa a fuoco nelle loro menti della piccola Akemi col ventre rigonfio.
Solo dopo un'oretta di ingozzamenti da parte dei tre Sovrani, Barbabianca si decide finalmente a parlare. In un primo momento avrebbe volentieri urlato a Wulfric di mettersi le sue fredde mani al culo e smettere di esaminarlo come una cavia da laboratorio, ma preferisce evitare per non scatenare i due piccoli e assai irascibili principi.
«Come mai è così debole?» domanda con tono greve, sorseggiando del . Sì, tè! Perché Wulfric gli staccherebbe di netto la lingua se solo si azzardasse a bere una goccia d'alcol prima del suo okay.
Fenrir, resosi conto di quanto lo spettacolo che sta offrendo sia assai poco dignitoso, rizza la schiena e si pulisce il mento con un fazzoletto, provando così a recuperare un briciolo di dignità e regalità, andata persa nel momento esatto in cui gli è stato messo di fronte un piatto pieno di pasta al sugo di carne.
«Il suo corpo non si è ancora del tutto adattato al morso e il feto semplicemente ha scombussolato ulteriormente il tutto, indebolendola molto. Ma non temete: si riprenderà in men che non si dica!» sorride cordiale, ignorando come meglio può l'occhiata glaciale della consorte. Era già stata una tragedia quando aveva donato alla ragazza il morso, il fatto che adesso sia così debilitata come indiretta conseguenza a quel gesto rende la situazione assai pericolosa. Non vuole davvero immaginare cosa Astrid potrebbe fargli nel sonno.
«Come fai a sapere tutte queste cose?» gli domanda Týr, innervosito dal suo atteggiamento sotuttoioevoisietesolodellesciocchecapre che lo ha sempre contraddistinto sin da quando erano umani.
«Sono un genio, ricordi?»
Astrid sbuffa sonoramente, non essendo psicologicamente preparata ad uno dei loro infantili battibecchi per cosa prive di importanza.
«Questo non ti giustifica.» sbuffa offeso il vampiro, incrociando le braccia al petto e arricciando le labbra come un bambino.
I gemelli, attratti dall'argomento, puntano gli occhioni rossi sul padre, aspettando una risposta più esauriente.
Il licantropo li guarda a propria volta, sorridendo di fronte all'espressione di Bjorn, con gli spaghetti che dondolano fuori dalla bocca.
«Tiro molto a caso.» spiega scrollando le spalle, facendo sorridere i due.
Per gli déi, quanto mi erano mancati!
«Questo sì.» sibila Týr, alzandosi in piedi di scatto e saltando sul tavolo. Alza in alto il proprio calice pieno di A-positivo invecchiato di quarant'anni e sorride fiero, puntando gli occhi in quelli dell'anziano capitano «Direi di brindare, no? Ai futuri nonni!»
«Non ai genitori?» controbatte prontamente Rakuyo, inarcando un sopracciglio.
Týr lo fulmina con lo sguardo, facendo schioccare la lingua contro il palato.
«Che si fottano, sono più importante io!» sibila convinto, non accorgendosi – per loro fortuna – dell'alzata di occhi al cielo da parte di Fossa, Kingdew e Satch.
«E tu non sei contento? Non solo sei padre di quasi duemila uomini, ma stai pure per diventare nonno! Una famiglia migliore di questa non la troverai mai.» afferma subito dopo, puntando il dito contro Newgate, che gli sorride incerto. E come potrebbe non esserlo? La sua bambina di pochi mesi è incinta di Marco, il primo che si unì a lui per mare, l'uomo che ha praticamente cresciuto. Una persona normale sarebbe già uscita di testa!
«Ah, tanto per mettere subito le cose in chiaro: dovrà chiamarmi zio. Sono troppo giovane per farmi chiamare nonno.» precisa Týr mentre si mette a sedere sul tavolo, calciando senza tante cerimonie uno degli invadenti nipoti che ha provato a sfilargli il calice di mano.
«Non ci pensare neanche! L'idea di “nonno Týr” è davvero troppo divertente.» controbatte prontamente Wulfric, mettendogli un braccio attorno alle spalle e scrollandolo un poco, rivolgendogli uno dei suoi rari sorrisi umani.
L'antico Re delle Tenebre però non si lascia abbindolare: si scosta il suo braccio di dosso e, con un rancore infinito, sibila: «Fottiti.»

Nel frattempo, in un'ampia e caotica stanza in stile gotico-burlesque, il Primo Comandante di Barbabianca, il temibile Marco la Fenice, apre lentamente gli occhi, ritrovandosi con le gambe stese in aria e un muso piumato a pochi centimetri dalla faccia. Due grandi orbite oculati di un allegro verde smeraldo lo osservano con attenzione, mentre la linguetta rosea slitta fuori dal piccolo ma affilatissimo becco.
Marco guarda il piccolo grifone con un sopracciglio inarcato, cercando di rimettere insieme i pezzi.
Ricorda vagamente di aver visto Satch correre allo stesso ritmo di Geri sulla spiaggia che era appena sorto il Sole. E ricorda di esserne rimasto alquanto sconvolto, soprattutto quando il suo grande amico si è lanciato senza neanche pensarci in un violento gioco di pugni e morsi con il suo nuovo amichetto.
Ricorda, bene o male, il brontolare sommesso del padre quando Wulfric gli ripeteva per la centesima volta cosa può fare e cosa no perché è stato operato al cuore.
Ricorda senza sforzo di essere stato spinto da Floki e di aver battuto la testa contro un tavolo e di aver deciso di lasciar perdere solo perché Fenrir aveva ripreso conoscenza.
Ricorda anche di averlo visto entrare nella camera proibita, dove nessun essere mortale o immortale ha messo piede per ben dieci giorni, e di averlo visto uscire sconvolto.
Ricorda di aver visto il viso tormentato di Akemi quando finalmente è riuscito a vederla, poi il buio.
Sa solo di trovarsi sul suo letto – e non sa spiegarsi come – con il muso di Filippo a pochi centimetri dalla sua faccia.
Potrebbe pensare a tante cose, davvero tante, ma l'unico pensiero che riesce a mettere insieme ed anche articolare come discorso, che viene sputato velenoso contro la piccola creturina,è : «Hai un alito pestilenziale.»
Filippo, che ha capito sì e no di essere stato offeso, si lancia a peso morto di sotto dal letto e corre verso il bagno dove si è chiusa la sua mamma. Gratta alla porta con gli artigli, emettendo dei suoni striduli per attirarne l'attenzione.
Quando poi la porta si riapre e la creatura si zittisce, Marco ricorda anche l'ultimo pezzo mancante del puzzle: la sua pancia stranamente gonfia. Ma non un gonfio da “Cazzo, ho mangiato troppe schifezze, devo mettermi a dieta”, no. È più un gonfio da “Non è colpa mia se ingrasso, è il bambino a pretendere più cibo!”
E in quel preciso istante, una voragine sotto ai suoi piedi si apre, inghiottendolo.
Un inferno torrido, pieno di urla cariche di dolore, caldo e freddo al tempo stesso.
Il suo cervello è in black-out totale di fronte al ventre rigonfio della compagna, che lo sfoggia con non poco imbarazzo. Si copre poi con delle coperte pesanti a più strati, cammina a piccoli passi per non inciampare e, se le fosse possibile, nasconderebbe per sempre la propria faccia nell'angolo più remoto del mondo così da non dover sopportare il suo sguardo.
Quando i loro occhi finalmente s'incrociano, Akemi accenna ad un sorriso tirato per provare – inutilmente – ad alleggerire la situazione e, lentamente, va a sedersi al suo fianco, tenendosi però a debita distanza.
Si sente strana, confusa e arrabbiata. Una parte di lei morirebbe più che volentieri per dare al mondo la creatura che cresce dentro di lei; un'altra parte non ha idea di cosa deve fare, dire o anche solo pensare, in qualsiasi circostanza; poi c'è lei, la rabbia, quel sentimento pericoloso che le fa venir voglia di decapitare a morsi pure Marco, l'uomo di cui non potrà mai fare a meno, ad un minimo movimento falso... e solo per proteggere ciò che porta in grembo.
«Mi domando se sono più debole io, o se sei tu ad essere ingrassato.» prova a rompere il ghiaccio così, con una battuta assai sciocca che non fa ridere neanche Filippo, placidamente appisolato nella sua enorme cuccia di fianco al letto.
Marco rimane immobile. Fissa il soffitto scuro, i ghirigori neri che si intersecano tra loro, il tutto accompagnato dal profumo di fiori freschi che invadono la stanza.
Si alza poi di scatto a sedere, come se la lucidità fosse tornata tutto in un colpo, e guarda dritto negli occhi la ragazza.
«Com'è possibile? Mi avevi detto di essere sterile!» le urla contro, incapace di contenersi.
Non vuole essere cattivo, lei non ha fatto assolutamente niente di sbagliato, lo sa bene anche da solo, ma deve sfogarsi assolutamente, buttar fuori il vomito di parole pungenti che tra poco lo faranno esplodere.
Akemi abbassa il capo per nascondere il rossore sulle gote, per poi spiegargli come, da quanto ha capito, è potuto succedere: «Era quello che credevo anche io, Marco. Evidentemente, però, farmi ulteriormente infettare col morbo della licantropia mi ha resa più... umana, ecco.» spiega abbassando con vergogna il capo, torturandosi le mani quasi fino a farle sanguinare.
«Cosa pensi di farne?» domanda secco Marco dopo qualche breve secondo di silenzio.
Akemi alza a sua volta la testa, reclinandola un poco sulla spalla destra.
«Cosa?»
«Vuoi tenerlo? Vuoi abortire? Vuoi tenerlo e poi darlo in adozione?! COSA?!» quasi urla Marco. È sotto shock, totalmente. Poteva aspettarsi qualsiasi cosa, davvero, qualsiasi, ma non questo.
«Calmati.» mormora col tono più gentile che riesce a trovare Akemi, passando istintivamente un braccio attorno al ventre gonfio.
«Come posso calmarmi dopo una notizia del genere?! Non sono pronto a diventare padre!» le urla addosso la Fenice, scattando in piedi come una molla. È furioso nel confronti del mondo, che sembra divertirsi a lanciargli contro palate di sfiga; ce l'ha con lei per non avergli detto di essersi lasciata mordere da un altro psicopatico; ce l'ha soprattutto con sé stesso perché ha rovesciato la sua rabbia nei confronti dell'intero cosmo solo ed esclusivamente su Akemi, che adesso sta piangendo.
Si passa, esausto, le mani tra gli indomabili capelli biondi e poi si inginocchia davanti a lei, tenendole tra le mani il viso segnato da lunghe scie scarlatte «Non piangere, no...»
Akemi lo lascia fare: lascia che le sue mani callose le ripuliscano le guance, che le sussurri che andrà tutto per il meglio e che troveranno una soluzione, sempre tenendo le braccia ben strette attorno al ventre per proteggere il suo piccolo tesoro.
«Neanche io sono pronta a diventare madre, Marco. Non so come fare, non ne ho idea...» mormora con un filo di voce, lasciandosi prendere una mano piccola e fredda tra le sue, così grandi, piene di cicatrici e calli «Ho bisogno del tuo appoggio!»
Marco tenta di sorriderle per rassicurarla ma, a giudicare dalla sua espressione, non c'è riuscito poi molto. E dopo una breve ma attenta riflessione interiore, ha capito cosa deve fare.
Le afferra il volto tra le mani, guardandola seriamente dritto negli occhi: «Ti avevo fatto una promessa. La manterrò.»

Non è difficile diventare padre. Essere un padre: questo è difficile.
Marco se lo ripete da ore ormai.
Se lo ripete da quando, un paio d'ore prima, ha lasciato trafelato la camera di Akemi, appena addormentata. L'ha lasciata lì, da sola a dormire abbracciata a quella palla di pelo e piume che la segue come un'ombra. L'ha lasciata e non riesce neanche a pensare di rimettere piede in quella stanza, non senza una soluzione.
Guarda Freki correre su per le gradinate che conducono alla porta principale, lì dove sta seduto a fumare da ore, e dall'occhiata di fuoco che gli ha rivolto ha capito che lei si è svegliata. Sola.
Stringe le mani attorno alla testa, cercando di cacciare tutte le immagini dei sacrifici che sua madre ha fatto per tirarlo su da sola.
Ricorda i suoi capelli castani sempre acconciati in una crocchia stretta ed ordinata, il volto pallido e scavato, gli occhi castani spenti.
Lei viveva perché doveva proteggere il suo passerotto, come lo chiamava amorevolmente lei, ma in realtà era morta. Era morta nel momento esatto in cui suo padre – che faccia abbia o quale sia il suo nome, Marco proprio non lo sa – l'ha abbandonata perché lei non voleva sbarazzarsi del bambino che portava in grembo.
Marco non doveva nascere, non era previsto. Non avevano i soldi per mantenere una famiglia, e l'uomo ha preferito prendere i pochi soldi che aveva e andarsene, condannandola ad una vita di stenti, ore massacranti di lavoro ogni singolo giorno, la schiena e le braccia a pezzi.
Marco è cresciuto così: i sorrisi tirati e amorevoli della madre sempre stanca che gli faceva sempre dei regali di seconda mano che lui amava alla follia, pranzo e cena racimolati alla meglio e baci sulla fronte prima di andare a dormire.
Sua madre era una donna forte, ha vissuto una vita lunga e faticosa – anche troppo – e poi si è ritirata in pensione, campando con quel poco che era riuscita a mettersi da parte e i piccoli tesori che il suo adorato passerotto le manda periodicamente.
Sua madre non lo ha mai fermato: gli ha detto di seguire il cuore, di domare quei mare così imprevedibili, e dare sfoggio di tutta la sua forza interiore.
Poi è arrivato Barbabianca. Tutt'oggi ricorda nitidamente il momento in cui l'imponetene capitano gli ha allungato una mano e gli ha chiesto di diventare suo figlio.
È questo il ricordo più bello, perché finalmente avrebbe avuto la possibilità di navigare i tanto temuti mari che tanto lo affascinano con una vera figura paterna al proprio fianco, pronto a rimproverarlo quando sbagliava, a tirarlo su di morale quando era depresso, a dargli consigli importante durante i suoi periodi neri.
Ed è proprio per questo motivo che adesso gli cammina incontro con la testa china, spegnendo l'ennesima sigaretta nel posacenere.
Gli cammina in contro e la scorta che Wulfric gli ha messo alle calcagna si dilegua, consapevoli che è una faccenda che devono affrontare da soli.
Era convinto che avrebbe trovato il suo sguardo colmo di bile e delusione, invece è relativamente tranquillo.
Rimangono in silenzio, camminando per quell'ambiente tranquillo di campi e boschi, senza alcun fastidio.
Marco punta i piedi a terra, la testa china e una vergogna bruciante nel petto.
«Padre senti... ho fatto il guaio e non so come uscirne.» mormora con voce tremolante, speranzoso che l'uomo che l'ha cresciuto come figlio suo lo consigli come ha sempre fatto nei momenti più difficili.
«Parlamene.»
Marco non ha il coraggio di guardarlo in faccia. Sente che sta per dargli una notizia sconvolgente, ed ha paura.
«Akemi è incinta. Il figlio è mio. Non ho idea di cosa cosa devo fare!» sputa tutto in un fiato, tenendosi sempre ben stretta la testa tra le mani.
Barbabianca, che da ore è ben consapevole della situazione in cui riversano i due giovani, sospira pesantemente, passandosi una mano sul volto stanco. Poggia poi le enormi mani sulle spalle del ragazzo, poggiando in ginocchio sinistro a terra, cercando un contatto visivo con lui. Non può parlare per esperienza, in quanto non si è mai ritrovato con donne gravide per le mani, ma può provare ad aiutare quel giovane pirata, ormai uomo, a trovare una soluzione. O, quando meno, a rassicurarlo.
«Marco, tu hai avuto la fortuna di amare una donna e avere un figlio da lei, anche se forse non nel momento giusto della vostra vita.» sospira pesantemente, facendo cenno a Wulfric di non avvicinarsi per dedicare a quella situazione tutta l'attenzione che merita.
«Avere una famiglia è la più grande avventura che un uomo possa desiderare, ma qualsiasi cosa deciderai per il bambino che sta arrivando, io sarò fiero di mio figlio e gli starò vicino, perché questa è la famiglia che io ho creato.»
Marco si agita, cammina avanti e indietro, cerca di venirne a capo.
In cuor suo non vuole abbandonare al creatura che sta per nascere al mondo, suo figlio, e condannarlo ad una vita di contentini. Vuole che abbia tutto ciò di cui ha bisogno, vuole proteggerlo dal male che sicuramente proverà a portarglielo via.
Poi, come un fulmine a ciel sereno, una brutta consapevolezza gli trapassa la mente, e la sua bocca si muove senza neanche che se ne renda conto: «Mio figlio sarà immortale... non potrò seguirlo nella sua vita e aiutarlo quando ne avrà bisogno, come è successo a me. Cosa devo fare?» domanda davvero angosciato, trattenendo le lacrime.
«Se tuo figlio è immortale, sai già qual è la risposta. Ma avrai il coraggio di affrontarla?»
Nel suo cuore c'è una lotta furibonda, senza esclusione di colpi, finché la follia prende totalmente il sopravvento sulla ragion.
«Grazie!» il suo ringraziamento è un sussurro nel vento visto che ha subito ricominciato a correre, alla ricerca di chissà chi o chissà cosa.
E mentre Edward Newgare lo guarda allontanarsi, dal suo occhio sinistro fa capolino una piccola, ribelle lacrima di commozione.
Nonno Ed...

Ha corso senza sosta per cercarlo, ammutolendo violentemente la voce nella sua testa che gli urla a gran voce che sta facendo un'enorme stronzata.
Corre senza neanche sapere dove stia andando finché, come un'apparizione divina, eccolo lì, appollaiato su una sequoia a leggere dio solo sa cosa.
«Dobbiamo parlare!» gli urla dietro, senza sorprendersi minimamente nel vederlo saltare giù dall'albero e dirigersi nella direzione opposta alla sua.
«Non è necessario, credimi.» sibila nervoso, passandosi le mani tra i capelli corvini.
Marco non demorde, ormai deciso ad andare fino in fondo. Otterrà ciò che vuole, costi quel che costi, anche se dovesse implorarlo.
Gli corre dietro e lo afferra per un braccio, costringendosi a rimanere impassibile quando questi gli rivolge un'occhiata glaciale.
Punta gli occhi nei suoi, e con decisione ordina: «Dammi l'immortalità!»
Týr sapeva che sarebbe successo, prima o dopo. In cuor suo sperava che accadesse molto dopo, una volta risolta tutta quella spinosa situazione, ma aveva preso in considerazione che l'uomo non avrebbe aspettato, e non vuole che vada da qualcun altro, qualcuno che potrebbe ingannarlo.
«Seguimi.»

Che il palazzo di Fenrir fosse immenso, Marco lo aveva capito quando lo vide la prima volta, ma non immaginava che fosse cosi immenso, pieno di passaggi segreti che conducono a sale spoglie e tetre.
È in una di queste stanze che lo ha condotto frettolosamente Týr, tirandolo per un braccio. Ha aperto un passaggio nella parete senza che Marco riuscisse a vedere come, e poi gli ha fatto scendere delle scale ripide e strette, che li hanno condotti in una piccola sala circolare.
Ad un primo impatto, in effetti, è una semplice aula in disuso con le pareti e il soffitto basso di pietra, da cui, appese a delle catene, pendono lampade rotonde e verdastre. Di fronte all'entrata ci sono due tavoli con almeno un dito di polvere, affiancati più in là da una poltrona sul verde acido, scuro e in cuoio nero. Ci sono anche una piccola lavagna e un armadio in legno amaranto. Lungo le pareti sono stati fissati un diverso numero di scaffali, sulle quali sono poggiati i più svariati barattoli con organi umani, cuccioli nati con deformazioni e cose di questo genere, il tutto conservato nella formaldeide. L'aria è pesante e il pavimento, come ogni altra superficie, è impolverato.
Si guarda attorno circospetto, Marco, esplorando con lo sguardo quel luogo con gli occhi intrisi d'ansia. Tutto d'un tratto il cuore ha preso a battergli all'impazzata, poiché ha realizzato a pieno cosa stava per accadere.
«Perché mi hai portato qui?» domanda con un filo di voce, osservandolo con una certa curiosità mentre accende delle candele all'interno a quelle lampade tonde e verdastre.
«Perché qui non viene mai nessuno e nessuno dovrà sentirci, sennò ci impedirebbero di fare ciò che ho in mente di fare.» risponde sbrigativo il vampiro, spostando fialette per lui inutili e vecchi tomi di cui si era dimenticato l'esistenza, fino a trovare ciò che cercava: il Lemegeton.
«Cosa hai intenzione di fare?» gli domanda incerto il bucaniere, inarcando un sopracciglio con aria scettica.
Týr sfoglia veloce le pagine ingiallite e sottili del vecchio libro che ritrovò millenni prima insieme a Wulfirc, nella tenda di uno stregone. Ucciderlo non era stata una passeggiata, ma ne era valsa la pena: era l'unico essere umano ad aver scoperto come richiamare a piacimento e controllare i Demoni.
Trovata la pagina che cercava, si volta di tre quarti verso Marco, osservandolo da sotto la folta frangia corvina.
«Prima di spiegartelo, devi esserne davvero sicuro, Marco. L'eternità è molto lunga.» la sua voce è bassa, roca, spettrale. Vuole che capisca che non è un gioco, che non si torna indietro. «Vedrai morire tutte le persone che conosci, e con Lilith le cose potrebbero non andare. Dimmi: ne vale davvero la pena?»
Marco si lascia sfuggire una lieve risata, passandosi una mano dietro al collo. È stupito dal fatto che Týr pensi davvero che lo faccia per lei!
«Akemi porta in grembo mio figlio, Týr. Non ho intenzione di farlo crescere senza un padre come è successo a me.» risponde piatto, camminando a grandi falcate fino a trovarsi a pochi centimetri dal suo viso «Quindi sì, ne vale la pena.»
Sorride, Týr, sorpreso. Pensa con attenzione alle sue parole, scrutando nel dettaglio l'espressione maledettamente determinata dell'uomo, e non riesce a tenere a freno la lingua: «Sarai un buon padre, ragazzino.»
Il vampiro torna a concentrarsi sul proprio libro, la fronte corrugata dallo sforzo di tradurre quelle antiche annotazioni ai lati del testo. Non può permettersi di sbagliare alcun passaggio: non avrà una seconda occasione.
Impugna una vecchia scopa e comincia a spazzare velocemente a terra, raccogliendo contro le pareti tutto ciò che potrebbe risultare ingombrante. E lì, sotto a quello strato di polvere, appare uno sbiaditissimo e bizzarro cerchio.
Non ha il tempo adesso, Týr, di rimetterlo a nuovo, a quello penserà più tardi: adesso gli servono candele, incensi e profumi.
«Che stai facendo?» gli domanda attento Marco, senza perdersi nessuno dei suoi movimenti. Prende un barattolo, lo svuota, poggia il contenuto sulla prima superficie che ha sotto mano e poi rimette a posto il barattolo, e poi ripete il procedimento per almeno sette volte.
«Prendo tutto quello che serve per evocare il Dio della Morte.» risponde sbrigativo, cosciente che la loro assenza desterà non pochi – e giustificati - sospetti «Lo evocherò e gli imporrò di strapparti l'anima e di sigillarla nel mio corpo, così tu diventerai immortale. Se la cosa ti interessa, manterrai anche i poteri del Frutto del Diavolo, perché non morirai come invece succederebbe se ti vampirizzassi.»
«Cosa ti fa pensare che lo farà?» domanda scettico Marco, che quasi non ha sentito la seconda parte del discorso. Ora come ora, in effetti, è proprio l'ultimo dei suoi problemi.
«Diciamo che mi deve un favore.» sente gli occhi di Marco puntati sulla sua schiena, in un modo così fastidioso che ha la sensazione che potrebbe trafiggerlo al cuore solo con lo sguardo. Sbuffa scocciato e si volta, costretto a vuotare il sacco pur di farlo calmare ed essere assecondato: «In cambio dell'immortalità di Huggin e Munnin gli ho offerto cinquecento anime pure.»
Marco, che ormai non si sorprende più di niente con lui, si passa entrambe le mani sul volto stanco ed imperlato di sudore freddo, sospirando.
«Tu sei malato...»
Schiocca la lingua contro il palato, Týr, offeso dal suo commento.
Evidentemente non ha capito un cazzo di quello che gli ho detto prima. Meglio rincarare la dose!
«Sono molto attaccato alle mie cose e non sopportavo più il dover allevare un animale a cui inevitabilmente mi affezionavo e poi moriva tra le mie mani.»
Dallo sguardo che il biondo gli rivolge, sente una forte ondata di soddisfazione invaderlo: l'idea si sta facendo davvero nitida nella sua testa.
«Ho solo fatto ciò che chiunque con un potere come il mio avrebbe fatto.» butta lì come giustificazione, per poi ricominciare a muoversi come un furetto pazzo per la stanza.
«Forza, dobbiamo farlo subito e dobbiamo essere anche veloci!» afferma subito dopo con un sorriso furbetto in volto, di nuovo carico e deciso a fare tutto ciò che il suo adorato fratellone gli ha sempre vietato di fare.
«È una cosa tanto grave?»
«Stiamo evocando uno dei subalterni di Satana per strapparti l'anima e renderti immortale, usando me come contenitore. Tutto senza il permesso di nessuno. Tu che dici?» lo spinge di lato in modo brusco, buttandosi poi a terra in ginocchio.
Non lo ha portato in questa stanzetta polverosa a caso: oltre ad essere pressoché dimenticata, è totalmente isolata. È importante – se non fondamentale - scegliere un luogo isolato dove potersi concentrare per un'invocazione del genere.
Týr, sotto lo sguardo attento di Marco, comincia a tracciare sul pavimento il cerchio magico con una pietra sanguigna, detta ematite.
Il cerchio ha origini molto antiche e serve a proteggere l’incolumità dell’evocatore e, pur non potendolo identificare come un reale spazio fisico e materiale, ha la funzione di isolare le energie che possono distrarre e crea l'atmosfera adatta per i riti di evocazione.
All'interno del cerchio va disegnata una seconda circonferenza concentrica, dal diametro minore di circa trenta centimetri; entro questa, infine, ed alla stessa distanza, un ultimo cerchio. All’interno, poi, deve essere tracciato un triangolo ai lati del quale vanno poste due candele e alla base devono essere incise le lettere J, H, S, fiancheggiate da due croci.
«Sarà doloroso?» domanda incerto Marco, mentre l'idea di ciò che sta per fare si materializza sempre di più, facendogli sorgere mille domande a cui non è del tutto certo volere una risposta.
Týr in un primo momento rimane in silenzio, chinando la testa e rigirandosi la pietra tra le dita. Poi scrolla le spalle, volta il capo verso di lui e, con un sorriso malinconico, afferma: «Non ricordo cosa provai quando persi la mia anima.»
Dopo quella risposta che per Marco può significare tutto e niente, comincia ad aiutarlo come meglio può, facendo tutto ciò che gli dice di fare, come accendere le candele e rimettere in ordine i barattoli che ha spostato. Mentre esegue, però, non riesce a fare a meno di guardarlo mentre traccia sul pavimento strane scritte. Non chiede spiegazioni per il semplice fatto tutta quella situazione lo sta innervosendo troppo.
Accende un fuoco di carbone fuori dal circolo, sul quale poi entrambi bruciano i profumi e una candela per il Demone desiderato.
«Adesso entra nel cerchio» ordina duro e Marco ha modo di notare che una scintilla di paura gli illumina gli occhi. Týr, innervosito dall'idea di chiamare un Demone e dalla disobbedienza di Marco, ancora ben fermo al suo fianco, lo spinge per un braccio dentro al cerchio, puntando gli occhi nei suoi con rabbia «Una volta dentro, non azzardarti ad uscire per nessun motivo. Raccogli tutta la concentrazione e l'energia possibile. Hai bisogno di tutte le tue forze interiori per riuscire a completare l'incantesimo. Non lasciarti distrarre.»
Marco, provato dai recenti eventi catastrofici, sente un brivido di paura risalirgli lungo la spina dorsale, su fino al cervello.
Týr lo guarda mentre pronuncia distrattamente la formula che già conosce, ignorando le fiammelle che prendono sempre più vita ad ogni secondo che passa. Ignora pure la densa e bassa nebbia che invade tutta la stanza, rimanendo fuori dal cerchio che hanno disegnato.
Ignora ogni dettaglio, scorda ogni cosa. Non può far altro che osservare quell'uomo coraggioso che è disposto a dare via la propria anima pur di proteggere suo figlio ancora non nato.
Sappi, Marco, che il tuo non sarà un compito semplice. Anzi, sarà il più difficile della tua vita! Ma non per questo non sarà bello... Credimi: sarà meraviglioso.
Diventerai un nuovo tipo di uomo, qualcosa che non avresti mai pensati di poter diventare. Ti spaventerai spesso, i tuoi pensieri saranno tutti incanalati verso tuo figlio.
Prendi me! Io faccio tutto ciò che è in mio potere fare per rendere felice mia figlia. Anche solo per vedere un suo sorriso, anche appena accennato! Probabilmente più tardi s'incazzerà di brutto quando scoprirà quello che ti ho fatto, ma voglio farlo lo stesso così che tu possa prenderti cura di lei e della creatura che porta in grembo.

Finito il richiamo al Demone, quella supplica detta quasi con disprezzo, chiude il libro e lo butta a terra, rigirandosi frettolosamente. Dà le spalle a Marco, ormai vicino ad una crisi di panico, e chiude gli occhi. Chiude gli occhi e prega con tutto il suo cuore.
«Odin, gudenes far, hør mine ord. Hjelp oss med din sTýrke og visdom til å utføre denne vanskelige oppgaven. Jed, Týr Lothbrook, spør jeg deg å beskytte meg i løpet av denne prossessen og for å beskytte Marco Phoenix... min sønn. Jeg satte mitt håp i deg, stor Odin. Vær så snill!»**
La sua voce è appena udibili. Marco, a pochi metri da lui, ha capito solo “Odin”, “Lothbrook” e “Phoenix”. Ora come ora, però, considerata l'assurda situazione in cui si è cacciato, non se la sente particolarmente di fare tante domande.
I due si guardano per un breve istante negli occhi, impauriti ma determinati, e d'un tratto, con un fragore assordante, ecco che Sallos appare lentamente dall'ombra, avvolto in una densa nube di un grigio perlato. Ha l'aspetto di un vecchio pallido, con radi e lunghi capelli che gli cadono sulle spalle ricurve, e cavalca un coccodrillo, vecchio quanto lui.
«Týr...» biascica con voce flebile e canzonatoria il Demone, alzando i piccoli ed infossati occhi finché non riesce ad individuarlo. Sorride mellifluo, contento di rivedere l'unico immortale segregato sulla terra per cui nutre un intenso rispetto.
Il Demone lascia che il suo fidato destriero zampetti tranquillo e lento verso il pirata inginocchiato a terra, bloccandosi poi all'inizio di quell'odiosa barriera invisibile ma presente. Emette strani versi strozzati per sottolineare il proprio sdegno: voleva la sua carcassa!
«Perché non esci da quel cerchio?» lo invita il Demone, allungando una mano verso di lui.
Marco alza finalmente gli occhi su quella creatura che pare essere un tutt'uno con la bestia, e si trattiene dal rispondergli a tono come vorrebbe fare, ritrovando la diplomazia con cui bisogna destreggiarsi in quelle situazioni.
«I tuoi servigi mi sono stati caldamente raccomandati... ma non posso dire altrettanto per la fiducia.» si mostra freddo e a proprio agio, indossando quindi la solita maschera d'apatia che porta sempre. Deve farlo se vuole essere preso sul serio.
Il Demone, al contrario di ciò che Marco poteva aspettarsi, scoppia a ridere di gusto, con una voce stranamente acuta che, seppur lievemente, alleggerisce la tensione.
«Týr sa bene come destreggiarsi. Ammetto di nutrire un profondo rispetto per quella creatura.» afferma ridendo sonoramente Sallos, allungando una mano scheletrica sulla testa dell'imponente bestia infernale. Alza poi gli occhi piccoli e vispi sull'antico vampiro, colui che anche millenni prima lo guardava con quel misto di rabbia e devozione, deciso a prendersi ciò che vuole.
«Cosa posso fare per voi?» domanda semplicemente, accucciandosi così tanto sul coccodrillo da far sembrare che si stiano per fondere in un'unica deforme creatura.

«Ricorda che sei in debito con me.» sibila Týr, preoccupato dal fatto che quel Demone potrebbe decidere di raggirarli e fare di testa propria.
«Sono vecchio, Týr, ma la memoria è ancora molto buona.» scherza tranquillo il Demone, ben deciso a pagare il proprio debito. Per quanto si dica che i Demoni siano creature sanguinarie e inumanamente malvagie, non è del tutto vero: sono sì cattivi, adulatori della morte e portatori di sciagure contro i nemici di chi li invoca, ma sanno essere anche molto affabili con le creature con cui stabiliscono un legame interessante.
«Sigilla l'anima di quest'uomo in me.» ordina secco Týr, alzando il mento con aria fiera.
Sallos si gratta il mento, pensieroso, rispolverando dalla memoria quella vecchia tecnica che usava su antichissime popolazioni.
«È un procedimento rischioso... per tutti e due.» commenta disinteressante, in realtà emozionato dall'idea. Non è certo da tutti i giorni trovare un pazzo che decide di andare contro ad ogni legge della natura e dell'etica come lui!
«Fallo.» sibila l'antico vampiro e subito dopo si piazza con le braccia aperte davanti a Marco. Dà le spalle al demone, mostrandogli la schiena pallida segnata da mille battaglie, e guarda dritto negli occhi il coraggioso essere umano che ha deciso di sacrificarsi per la famiglia.
Sallos ghigna divertito dopo quell'ordine e si mette in posizione accovacciata dietro ai due, mugolando una serie di frasi che no, neanche Týr saprebbe ripetere o scrivere. Sa però che sta richiamando le forze del male a sé, che ormai mancano pochi secondi.
Sorride debolmente a Marco e poi chiude gli occhi, pronto ad abbracciare il Destino che si è scelto.
Marco, dal canto suo, si sente come appeso con un filo, pronto a schiantarsi giù da una montagna senza niente ad attutire il colpo. Capisce definitivamente di essersi sottoposto ad un evento che di colpo cambierà tutto, probabilmente frantumando in migliaia di schegge ciò che è adesso.
Ha giusto una frazione di secondo per mugolare "uh!" che il Demone li ha trapassati entrambi con la sua spada, dritto in mezzo al petto. Ma il dolore non è niente paragonato a ciò che avviene dopo, quando estrae la lama: con essa esce un qualcosa di luminescente, vivo, aggrappato disperatamente alla lama del Demone. Qualcosa che poi si deposita nel petto di Týr.
Un'ondata di stanchezza e nausea assale completamente Marco, privo di ogni energia.
Sbatte le palpebre più volte, cercando di mettere a fuoco ciò che lo circonda, ma la stanchezza è così pesante che non riesce neanche più a reggersi in ginocchio.
Cade a terra, batte forte la testa, sente di nuovo quell'insopportabile ondata di nausea, vede un velo grigio passargli davanti agli occhi e poi, semplicemente, il niente.

Quando le candele saranno bruciate completamente, l’incantesimo sarà compiuto.
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Angolo dell'autrice:
Eccomi di nuovo qui, miei dolci pasticcini al caramello!
Che dire... sto soffrendo tutt'ora. Non potete capire quanti siti mi sono dovuta girare, quante leggende ho letto, per riuscire a scrivere – seppur a cazzo, ammettiamolo – dell'incantesimo! NON POTETE CAPIRE!
Comunque, ci tengo a dire che odio essere finita in un finale così banale e scontato... spero comunque che a qualcuno di voi piaccia! ^w^
Oltre a questo piccolo sfogo, non so proprio cos'altro dire. Se avete qualche dubbio, MI RACCOMANDO, non esitate a chiedere!
Beh, che altro dire? Ci sentiamo alla prossima, con il penultimo capitolo! :D

 

Un grazie enormissimissimo a Lucyvanplet93, Monkey_D_Alyce, Chie_Haruka, Aliaaara, Yellow Canadair e KING KURAMA per le magnifiche recensioni che mi hanno lasciato nello scorso capitolo. Siete l'ammmore! :3

Un bacione a tutti

Kiki~


Angolo traduzioni:
*Preghiera vichinga:
Guarda, laggiù vedo mio Padre.
Guarda, laggiù vedo mia madre, e le mie sorelle, ed i miei fratelli.
Guarda, laggiù vedo la mia linea di sangue,
Guarda, mi chiamano.
Mi chiedono di prendere il mio posto tra di loro,
Tra le mura del Valhalla!
Dove i coraggiosi possono vivere
In Eterno!

 

**Preghiera di Týr:
Odino, padre degli déi, ascolta le mie parole. Aiutaci con la tua forza e la tua saggezza a svolgere questo compito difficile. Io, Týr Lothbook, vi chiedo di proteggermi durante questo processo e di proteggere anche Marco la Fenice... mio figlio. Ho messo la mia speranza in voi, grande Odino. Per favore!


PS: se a qualcuno potesse interessare, qui http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2472835&i=1 ho scritto una piccola songfic con i pensieri di Týr... roba inedita proprio! XD

  
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