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Autore: Lost In Donbass    22/03/2015    2 recensioni
California, 1987.
Questa è l'America della perdizione, della musica, delle libertà negate. E' il tempo di un'epoca giunta al limite, dove non c'è più niente da dire. E' l'America delle urla, delle speranze, dei cuori infranti.
Nella periferia di un'insulsa cittadina si muovono otto ragazzi, otto anime perdute e lasciate a loro stesse. Charlie se ne vuole andare ma gli manca il coraggio di voltare le spalle. Jimmie Sue spera, crede in qualcosa che la possa salvare ma a cui non sa dare un nome. Jake è al limite, soffoca tutto nel fumo, dimentica grazie all'alcol, non ne vuole più sapere. Jasper ha finito di sperare, di pregare, di credere; ha dimenticato cosa vuol dire piangere, cosa vuol dire vivere.
Tirano avanti come possono. Sono le creature di una periferia assassina e di una società fraudolenta e fallace. Sono dei bastardi senza gloria e senza onore.
E questa è la loro storia.
Genere: Generale, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO DIECI : GIVE ME A LONG KISS GOODNIGHT
Si consiglia di ascoltare durante la lettura, "Give me Novocaine" dei Green Day


Charlie si ritrovò in mezzo a una quantità spropositata di gente che spintonava, urlava, si agitava come assatanati. La puzza che lo accolse fu devastante. Odore di corpi a contatto, di fumo, di alcol, di droga, di sudore. Odore di sfrenatezza, di dimenticanze, di oppressione. Charlie ansimò, sicuro di soffocare quando una ragazza decisamente prosperosa gli si spiattellò addosso impedendogli anche solo di muovere un dito. Si agitò impotente in mezzo a ragazze in gonne vertiginose e ragazzi prestanti, tentando miseramente di farsi largo, dimenticando a sua volta ogni regola di buona educazione e provando una tecnica di sfondamento che aveva scoperto in un libro di storia; la falange oplitica da lui sviluppata, però, non ebbe grandi risultati se non quello di farlo inciampare e volare miseramente per terra, tra tacchi a spillo e bottiglie rovesciate. Si agitò impotente come un grosso pesce fuor d’acqua, gemendo di dolore quando un piede gli si conficcò nella schiena e soffocando un gridolino quando una mano inanellata gli conficcò le unghie troppo lunghe nel braccio e lo tirò su come se fosse un ramoscello
-Charlie, mi sembrava di averti detto di starmi appiccicato.
Jasper lo guardava da sotto i capelli con uno sguardo misto tra l’innervosito e il rassegnato, gli occhi viola che turbinavano come mari in tempesta, animati da una fiamma nascosta nelle pupille più nere del nero.
-Aehm … lo so, ma … sono stato travolto dalla massa e … mi hanno sopraffatto e …
-E ci hai fatto una figura da idiota come al solito- sentì la voce roca di Jake soffiargli direttamente nell’orecchio.
Charlie fece una misera giravolta su se stesso per guardare il ragazzo negli occhi, ma appena riuscì a voltarsi, Jake gli aveva girato intorno e Charlie si trovò a guardare il nulla. Si rigirò di scatto e Jake gli vomitò in faccia una risata graffiante. Venne investito dall’alito dell’altro, che sapeva di sigaretta e rum di pessima marca. Charlie sbattè le palpebre velocemente, con gli occhi che bruciavano come l’Inferno a causa del fumo che opprimeva quell’appartamento sconosciuto. Si sentì afferrare di nuovo per la maglietta e inciampò in qualche bottiglia vuota abbandonata per terra
-Dove vuoi andare?- disse Jasper, tenendolo sempre stretto per la maglietta
-Ehm … tipo … in cucina?- tentò Charlie, urlando per farsi sentire sopra il baccano. Se ben ricordava, Frizzy gli aveva detto che la cucina era il luogo più sicuro per rifugiarsi durante quelle feste.
-Anima della festa, eh?- commentò sarcastico Jasper, non troppo sicuro che Charlie avesse colto l’ironia, siccome lo vide spalancare gli occhi a palla.
Jasper lo strinse più forte a sé, nella speranza di non perderlo durante il tragitto. Quello lì era talmente trasognato che sarebbe stato capace di rimanere schiacciato sotto la mandria di ubriachi che affollavano la casa … Sospirò e cominciò a spintonare a destra e a manca. Si ricordava vagamente la loro prima festa, quando invece aveva Boleslawa appesa al braccio. Faceva un po’ fatica a mettere in ordine i pensieri, ma aveva stampata a fuoco nella testa quell’immagine. Stampata a fuoco.
Avevano undici anni allora, e la piccola Boleslawa non si staccò mai per tutta la sera dal suo braccio, ancorata a lui come fosse l’ultima spiaggia. “L’ultima spiaggia prima dell’Inferno” aveva pensato amaramente, stringendosi l’amica contro. Durante i loro pellegrinaggi in giro per la casa, erano capitati davanti a una grande specchio a muro, in una stanza vuota. Cercavano di stare il più lontano possibile dai luoghi troppo affollati, per permettere a Bolly di respirare. Ed erano finiti davanti a quello specchio. Se qualcuno ci avesse lanciato un’occhiata superficiale, avrebbe visto un ragazzino vestito di nero, truccato, con troppi capelli sul viso pallido abbracciato a una ragazzina albina con gli occhi ridenti e un vestitino verde. Ma lui ci aveva visto molto di più, che due semplici undicenni. Lui ci aveva visto la vita, in Boleslawa. La speranza, la cieca fede, la voglia di vivere. In lui ci aveva visto la morte, la depressione, l’odio. Era strano. Una creatura che rispecchiava la purezza di un cuore che vive e una creatura che bruciava di odio infernale. Rivide per un attimo le sue mani avvolgere le spalle di lei e rimase per un secondo imbambolato in mezzo al corridoio. Vedeva un demone che intaccava le ali di un angelo. Ecco cos’erano, i Gentiluomini. Angeli che lui aveva tirato giù nel baratro e a cui aveva tarpato le ali. Lui, l’angelo caduto. Gli pervenne alla mente Frizzy che una volta gli aveva detto, serio “Sei tu il re, Jas. E noi siamo i tuoi fedeli vassalli”. Jasper sorrise tra sé e sé, quasi rassicurato da quel ricordo. Era lui il re, loro lo sapevano. Era lui l’Angelo Caduto. Era lui che aveva il dominio su tutti. E questo gli metteva il cuore in pace, dannatamente in pace. In pace con qualcosa che aveva dentro e che faceva fatica a riconoscere, ma l’importante era sapere che su qualcosa ancora aveva il dominio. Aveva dei vassalli, doveva proteggerli fino alla fine. Anche se lui era l’ultima spiaggia prima dell’Inferno.
-Ehm, Jasper, andiamo?
La vocetta di Charlie lo fece bruscamente tornare alla realtà. Cercò di non sobbalzare e lo trascinò in cucina senza tanti complimenti. Lì notò con un certo sollievo che c’erano solo due o tre ragazze che parlottavano passandosi una bottiglia di qualcosa; si lasciò cadere per terra e fece segno a Charlie di sedersi vicino a lui. Cosa che il ragazzo fece subito. Charlie arrossì fino alla punta dei capelli quando si ritrovò da solo seduto vicino al capo, che si era attaccato a una bottiglia di whisky.
Lo guardava bere, guardava il profilo del suo viso perfetto, guardava la bottiglia svuotarsi con troppa rapidità. Studiava il collo pallido sul quale si intravedevano dei tatuaggi alla base.
-Vuoi?
Jasper gli allungò la bottiglia, facendo risplendere i suoi grandi occhi malinconici. Charlie scosse la testa, ringraziando a bassa voce. No, no, no ci mancava solo quello … ma Jasper sembrava non demordere.
-Dai Charlie, solo un sorso. Non ti fa mica male, sai? Su, fammi contento, bevine un sorso …
Fammi contento. Le parole che Charlie pregava di non sentire. Perché se il capo voleva qualcosa il ragazzino sapeva che prima o poi l’avrebbe fatta per vederlo contento. Ma quanto era stupido, e melenso, e … e niente. Quanto era povero di coraggio, di serietà. Quanto era inutile. Ma poi era solo un sorso. Non sarebbe successo nulla, se si fosse solo bagnato le labbra, tanto per provare. E poi su, aveva posto la sua firma sul Patto d’Onore, non poteva non bere un goccio di whisky.
Charlie sospirò e poi annuì, prendendo tra le dita tremebonde la bottiglia fredda. Avvicinò le labbra al collo e quando ve le posò, con lentezza esasperante, sentì il profumo della bocca di Jasper. Sapeva di qualcosa di indefinito e terribilmente buono, di dolce e amaro contemporaneamente; aveva presente l’odore degli alcolici di pessima marca, essendoci praticamente cresciuto in mezzo. Ma non aveva mai provato a toccarne nemmeno uno. Beh, primo perché si opponeva a suo padre in tutto, perciò se egli si ubriacava lui stava ben lontano dall’alcol. E poi perché suo padre non gliele avrebbe mai fatte prendere, possessivo com’era delle sue bottiglie.
Fece scivolare la prima goccia di liquido tra le sue labbra, serrando gli occhi. Quando il whisky sfiorò la sua bocca rischiò di sputare tutto. Era così forte, così ardente, così dannatamente … infernale. Fu percorso da un brivido di calore improvviso, mentre ingollava un altro sorso. Gli occhi presero a lacrimare, e la tosse non tardò ad arrivare. Il ragazzo posò la bottiglia per terra e cominciò a tossire come un pazzo, sputando e lacrimando. Jasper scoppiò a ridere, riattaccandosi alla bottiglia, osservando il povero Charlie che più tentava di darsi un contegno, più tossiva. Il suddetto decise di non bere mai più in vita sua. Se quello era l’effetto … e poi il sapore era orribile. Se non fosse che prima ci aveva posato le labbra Jasper. Ma rimaneva comunque orribile. Charlie si soffiò rumorosamente il naso e si asciugò gli occhi arrossati; beh, era pur sempre un’esperienza quella di bere e l’aveva ufficialmente cassata. Mai più. Assolutamente mai. Dov’era la bottiglia?! Si sentì rivoltare lo stomaco come un calzino, animato solo dalla voglia di altro whiskey. E al diavolo i buoni propositi, lui ne voleva dell’altro, altro ancora fino a soffocarsi in quel liquido ambrato.
-Potrei averne ancora?- mormorò, alzando lo sguardo sul capo.
Jasper lo accarezzò con lo sguardo, sorridendo maliziosamente
-Altro? Ma sei sicuro che non ti faccia male?
Charlie si ritrovò ad arrossire e a mordersi il labbro, imbarazzato. Non si aspettava una risposta del genere, e non sapeva cosa rispondere ma la situazione si risolse da sé, perché Jasper rise di nuovo e gli sbattè in mano un’altra bottiglia uguale alla prima, stappandogliela con i denti. Charlie la portò con reverenza alle labbra e bevve con lentezza il terzo sorso, sentendosi inondare di un calore rassicurante, caldo come l’abbraccio di sua mamma. Si lasciò cullare dal whisky che gli scaldava il corpo, il cuore, il cervello. Lasciò il fuoco scorrergli nella trachea, nelle vene, nelle ossa. Si stava quasi per appisolare, con le orecchie tappate e gli occhi quasi chiusi, quando Jasper si alzò e lo scosse per una spalla
-Ehi, Charlie, svegliati!
 Charlie aprì gli occhi con aria ebete, e un rivoletto di bava gli colò miseramente lungo il mento. Jasper lo tirò in piedi e disse, con voce melliflua, che al ragazzino pareva lontana anni luce.
-Io devo andare, ti porto da Jimmie e Bolly, ok?
Charlie annuì mollemente, aggrappandosi al braccio dell’altro e lasciandosi trascinare verso la sala. Quando oltrepassarono la porta della cucina, il rumore aumentò considerevolmente e svegliò un po’ il giovane dal suo stato di trance.
-Da … da chi vai?- riuscì ad articolare, respirando a grandi boccate.
-Gente che conosco e che magari un giorno ti presenterò. Tom O’Hara, Hunter Tomlinson, Gloria Crenshaw, Carter Wall. Tutti nomi che credo non ti dicano nulla.
Jasper lo guardò con aria leggermente preoccupata. O meglio, a Charlie pareva preoccupata. E questo non fece altro che lanciargli una scarica di gioia lungo la spina dorsale. Si lasciò trascinare in mezzo alla gente fino a che non distinse, più o meno, Jimmie Sue e Boleslawa. Sentì che i tre si parlottavano qualcosa, ma era troppo ubriaco per capire il vero significato; sentì solo la mano calda e sudata di Jimmie prenderlo per un braccio, la mano gelida di Jasper mollarlo (qui mugolò di disapprovazione), e poi sentì una ventata di aria gelida investirlo
-Ehi ehi, caro mio! Ti sei preso la tua prima sbornia!- la vocina squillante di Boleslawa gli trapanò un timpano.
Charlie si lasciò cadere per terra, sugli scalini respirando profondamente. Le due ragazze si sedettero vicino a lui, con fare premuroso. Beh, finché era così sarebbero state fuori con lui e gli avrebbero fatto smaltire quella buffa sbornia.
Dentro, Jake era alla disperata ricerca di Jasper. Barcollava in giro, accendendosi sigarette una dietro l’altra, senza neanche finirle, aguzzando la vista offuscata. Dopo vari caracolla menti in giro per casa, riuscì a intercettare il suo amico, seduto su un divano, circondato da gente che probabilmente anche lui conosceva ma che al momento non riusciva a distinguere. Spintonò a destra e a manca, ingollò qualche sorso di gin nel cammino, e finalmente arrivò da Jasper. Riconobbe Tom O’Hara, il capo dei Servitori di Ecate dei Crocicchi. Era un ragazzo di tutto rispetto, serio, molto amico di Jasper e anche amico suo. I due stavano discutendo di qualcosa, e non potè fare a meno di notare che Jasper aveva ingoiato tre pasticche bianche dall’aria sospetta con un sorso di whisky. Si lasciò cadere sul divano, e vide la ragazza che aveva portato loro l’invito, Ayato o come diavolo si chiamava, sorridergli amichevolmente, seduta in braccio a Tom. “Deve essersi resa conto che Jas è un sogno impossibile”pensò Jake, che si era accorto benissimo delle occhiate della ragazza verso il suo migliore amico. Ricambiò il saluto reprimendo un conato di vomito. Aveva decisamente bevuto troppo gin. Intorno a Jasper e a Tom, riconobbe qualche altra faccia conosciuta. Carter Wall era il secondo dei Caterpillar della 24strada; sapeva che era quello che aveva qualche tempo prima dato fuoco alla scuola. Un piromane con i capelli rossi : decisamente, a Jake quel tipo faceva un certo effetto. Vide Hunter Tomlinson, una ragazza con i capelli corvini e le braccia completamente piene di cicatrici orrende, tenere in braccio Gloria Crenshaw, bionda platinata con gli occhi blu. Quelle due le conosceva piuttosto bene. Facevano parte dei Pagliacci del Mezzogiorno, e sapeva che erano due tipe strane, ma dannatamente affascinanti, una per un verso, l’altra per l’altro. Sapevano che stavano insieme e che sarebbero state capaci di far esplodere l’intera America se ne avessero avuto voglia. Sballate complete, ma sicuramente ci potevi fare affidamento. Jake l’aveva scoperto, che nonostante la scorza dura erano due brave persone. Finché gli andavi a genio, ovvio.
Si lasciò cadere mollemente sul divano sporco, vicino a Jasper. Chiuse gli occhi, cercando di calmare la testa che gli pulsava. Sì, aveva decisamente esagerato con l’alcol quella sera. Li riaprì e ci mise un po’ a mettere a fuoco, con tutte quelle luci che turbinavano impazzite davanti a lui. Si attaccò al suo migliore amico, evitando di ascoltare i complessi discorsi tra Jasper e Tom per non farsi aumentare ancora di più il mal di testa e semplicemente si accese l’ennesima sigaretta della serata. Oramai aveva perso il conto. Non si era nemmeno reso conto di aver lasciato che la testa gli scivolasse sulla spalla di Jasper, per lo meno finchè improvvisamente i suoi occhi non misero a fuoco il serpente che il ragazzo aveva tatuato sul collo. Non seppe mai se fu l’alcool che gli ribolliva nel sangue o, semplicemente, se ormai era davvero inevitabile, ma le sue dita bollenti salirono automaticamente a tracciare i contorni del cobra con esasperante lentezza. Dal tatuaggio passò ad accarezzare con la stessa frustrante delicatezza i contorni della mascella di Jasper mentre con l’altra mano aveva iniziato ad accarezzarne i capelli ingarbugliati, finchè le dita non gli si incastrarono tra i nodi. Non sentiva più niente, solo il sottofondo lontano di qualche canzone hardcore a tutto volume e il rombo del suo stesso sangue ancora più forte nelle orecchie. Jasper aveva piegato la testa verso di lui. O era stato lui a tirarlo verso di sé? Ma che importanza aveva, ormai? C’erano gli occhi viola di Jasper a pochi centimetri dai suoi, le pupille dilatate dalla droga e dall’alcool, quel viola innaturale così maledettamente seducente. Jake sospirò appena, prima di affondare con più decisione le dita nei capelli del ragazzo e tirargli la testa verso di lui in modo che le loro bocche combaciassero. Le labbra di Jasper erano inaspettatamente morbide e cedevoli e sapevano di fumo e di rum scadente. Ma Jake era troppo ubriaco per poter assaporare con la dovuta dolcezza quel momento. Ed era dannatamente troppo tempo che aveva voglia di farlo, se ne stava rendendo conto solo in quel momento. Non fu un bacio gentile. Non che ebbe bisogno di forzare le labbra dell’altro che le aveva già dischiuse per permettere alla sua lingua ingorda di entrare e avvolgersi alla sua. Fu un bacio urgente e frenetico, denti che cozzavano e lingue che saettavano. Le mani di Jake stringevano il retro del collo di Jasper e affondavano nei suoi capelli mentre lo trascinavano sempre di più contro di lui. Jasper gli aveva afferrato la maglia con la mano stretta a pugno e con l’altra gli accarezzava la schiena. Si baciarono con frenesia finchè Jake si staccò ansante, i polmoni che bruciavano per mancanza d’aria. Rimasero per un attimo con le fronti poggiate l’una contro l’altra prima di ricominciare a baciarsi, un poco più lentamente, le dita bollenti che mappavano i contorni del viso dell’altro, piccoli gemiti che sfuggivano alle loro bocche arrossate. Jake aveva chiuso gli occhi. C’era solo Jasper, come sempre del resto. Il suo profumo intossicante, il suo sapore unico. Dentro di lui, sulla sua lingua. L’unica cosa che avesse mai voluto davvero.
In quel momento, Charlie e le ragazze erano tornati nel frastuono della casa e si stavano trascinando in salotto, urlando per capirsi. Superarono la porta del salotto, rischiando di venire travolti da un nugolo di ragazze starnazzanti e fu allora che Charlie distinse, nonostante il mal di testa martellante e la nausea, Jake e Jasper abbracciati sul divano che si baciavano. Sbatté gli occhi, per essere certo di non confondersi. Ma come poteva confondersi, quando di mezzo c’erano Jake, il primo ragazzo con cui aveva seriamente parlato e Jasper, il ragazzo che dannava le sue notti e i suoi incubi? Come poteva confondere quei capelli neri e quella pelle candida, come poteva sbagliarsi nel vedere il corpo sinuoso di Jake? Ci mise qualche secondo a registrare quell’informazione. Ci mise qualche secondo a capire che lui era fuori. Ci mise qualche secondo a rendersi conto della sua inutilità. Ci mise solo un attimo per sentirsi ucciso.
  
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