Questa
è una traduzione di http://archiveofourown.org/works/1454983/chapters/3064105
Chapter 1: Baby Blue
“Droplets,
droplets: We are all
identical drips and drops of people, hovering, waiting to be tipped,
waiting
for someone to show us the way, to pour us down a path.”
–
Lauren Oliver,
Pandemonium
A
dire il vero, non so nemmeno perché abbiamo la
piscina. Io non ci nuoto. Mio padre non ci nuota (o non può
nuotarci, data la
paura di mamma che i vicini vedano quant’è
ingrassato invecchiando). E potrei
contare sulle dita di una mano il numero di volte in cui ho visto mia
madre
usare la piscina nelle ultime estati - casualmente ogni volta
coincideva con il
momento in cui il nostro vicino di venti-qualcosa anni decideva di
potare la
siepe che divide il loro cortile dal nostro.
Quindi,
a maggior ragione
non capisco perché, esattamente, secondo mia madre sia
necessario assumere un
inserviente per pulire la suddetta piscina-mai-usata.
A
quanto pare è perché la
siepe continua a perdere foglie, e le foglie bloccano il tubo di
scarico. Sì,
okay. Sono abbastanza sicuro di aver visto un totale di tre foglie
galleggiare
sull’acqua, dall’alto dello sgabello da bar in
cucina. Tamburello le dita sulla
tempia mentre guardo una foglia che si lascia trasportare sulla
superficie
dell’acqua, per poi arenarsi sulle piastrelle azzurre degli
scalini. È maggio.
Le foglie non dovrebbero neanche cadere in questo periodo
dell’anno. Dio mio.
Apparentemente,
quando si
hanno molti soldi la cosa più logica da fare è
spenderli tutti in beni di cui
probabilmente – senza dubbio – non si ha alcun
bisogno. Mia madre è parecchio
brava in questo.
Okay,
forse è bello essere
viziati ogni tanto. Non cercherò certo di nasconderlo
– soprattutto quando papà
mi ha portato la nuova Xbox One qualche settimana fa, per sdebitarsi
per non
aver cenato nemmeno una volta
a casa
negli ultimi dieci giorni. Non che me ne fossi accorto, comunque. Non
potrebbe
fregarsene di meno della vita qui in famiglia; so per certo che si
scopa la sua
segretaria ogni notte in ufficio. Quella bionda svampita è
stata così stupida
da chiamarlo al telefono di casa più di una volta quando
c’ero io.
“Jean,”
sento mia madre
chiamarmi a mezza voce mentre entra in cucina con i suoi tacchi neri
vertiginosamente alti e le ginocchia vacillanti. Sembra ridicola come
al
solito, la quintessenza di quella che una volta era la moglie perfetta,
con le
labbra e la fronte tirate dal Botox. “Jeeaaan, tesoro, hai
venti dollari? Ho
dimenticato di andare al bancomat stamattina.”
Le
rivolgo uno sguardo
esasperato e tiro fuori il portafogli dalla tasca posteriore dei jeans;
la
pelle screziata puzza ancora di conce chimiche, nonostante ce
l’abbia quasi da
un mese ormai. Non c’era niente che non andasse nel mio
vecchio portafogli,
ovviamente – ma mamma ha insistito dicendo che quello vecchio
fosse brutto. O è
Hugo Boss o niente, in questa
famiglia.
Ho
due banconote da dieci
stropicciate in bella vista; le porgo a mia madre, che le preleva
cautamente
dalle mie mani con i suoi artigli rosso scuro appena smaltati.
“Grazie,
tesoro – avevo
completamente dimenticato di prelevare dei contanti da dare
all’inserviente
della piscina” mi dice, accentuando drammaticamente le
vocali. Tira fuori una
semplicissima busta dal cassetto adiacente allo sgabello su cui sono
accasciato, vi ripone il denaro e la richiude prontamente. Nella sua
grafia
quasi illeggibile scrive qualcosa del tipo: Servizi
di Manutenzione e Riparazione Piscine di Trost.
Le
estati a Trost sono
dannatamente calde e iniziano più o meno verso la
metà di aprile. Sono certo
che molte case in questo quartiere abbiano la piscina –
un’attività niente male
in questo periodo dell’anno, questo è poco ma
sicuro. Ciononostante, non
ricordo esattamente a che punto dell’estate scorsa il ragazzo
della piscina
abbia semplicemente smesso di venire. Probabilmente aveva qualcosa a
che fare
con le occhiatine dolci che mia madre continuava a lanciargli, e mio
padre –
quel grandissimo, maledetto ipocrita – doveva essersene reso
conto.
Non
riesco neanche a
ricordare le fattezze di quel ragazzo, a dire il vero.
L’estate scorsa è stata
un po’ incasinata, tra tutto lo studio per gli esami alla
fine delle superiori,
e poi lo spegnimento totale del cervello dopo aver memorizzato tutto
quel
materiale, che è durato più o meno per tutto il
mese di luglio e agosto. Mi
ricordo di aver guardato un bel po’ di TV
quell’estate – principalmente perché,
ehi, il divano era assolutamente troppo comodo e proprio non riuscivo a
lasciarlo,
ma anche perché era il posto migliore per evitare di
assistere ai ridicoli
tentativi di mia madre di abbordare il suddetto ragazzo della piscina.
Sì, è
stato piuttosto imbarazzante. E con “piuttosto” sto
sminuendo.
Ma
ehi, sono riuscito a
guardare le prime quattro stagioni di Breaking
Bad in, tipo…tre settimane, in quel modo. La cosa
ha avuto i suoi lati
positivi, in fondo.
Inizio
a fantasticare su
quanto sia stato epico il finale della quinta stagione mentre mia madre
gironzola su e giù per la cucina, posando la busta sul
bancone di marmo vicino
a me. Cerca il suo volto riflesso nella finestra e inizia a ravviarsi i
boccoli
con le mani – tiro un sospiro molto evidente, di proposito.
“Che
c’è?” borbotta lei,
“Perché mi stai guardando
così?”
Ruoto
sullo sgabello fino a
trovarmi di fronte a lei, con un gomito appoggiato sul bancone e il
mento sulle
mani.
“Mamma”, sbotto seccamente.
Forse è per questo che abbiamo la
piscina. È una scusa per mia madre per macchinare una
sottile forma di vendetta
sul marito che forse-ma-non-sicuramente la sta tradendo, sbattendo le
ciglia
finte a qualsiasi ragazzo abbronzato in slip da bagno che ha appena
mollato il
college e si trova a sturare il tubo di scarico della nostra piscina da
foglie
inesistenti. Certo.
“Oh,
ma dai, Jean” mi
risponde lei, altrettanto esasperata, mentre sistema una ciocca di
capelli
biondo cenere dietro l’orecchio, guardandomi con la coda
dell’occhio. I suoi
capelli sono dello stesso colore dei miei (o, per lo meno, la parte
superiore
dei miei), ma non sono naturali. Suppongo che li tinga sempre di quel
colore
per il semplice fatto che non somiglio per niente a mio padre. Lui
è tarchiato
e tondeggiante, con pochi capelli scuri. Io sono piuttosto slanciato, e
credo
che il mio viso sia più ovale di quello di mio padre, poi ho
gli occhio molto
più chiari. Mia madre vuole far credere che io abbia preso
almeno da uno di
loro.
Soddisfatta
con il suo
riflesso, mamma muove qualche passo fuori e io torno a guardare
l’acqua
immobile della piscina, mentre il clip-clip
dei suoi tacchi mi rimbomba nelle orecchie. Il cancello del
cortile si apre
con uno scricchiolio quando una serie di grandi retini, spazzole e tubi
barcolla nel giardino (accompagnata, ovviamente, dalla persona che
lotta per
tenere tutta quella roba in un paio di braccia impacciate, coperte di
lentiggini e una leggera abbronzatura, e per metà nascoste
dall’orrenda polo
bluette dell’uniforme).
“Il
ragazzo della piscina è
arrivato” affermo categoricamente, allontanandomi
immediatamente dal bancone. È
anche in anticipo di un quarto d’ora. È arrivato
il momento per una rapida
uscita di scena. Potrei riguardare il finale di Breaking Bad, in
effetti.
“Oh
no, Jean, aspetta un
attimo”, mia madre mi chiama, posizionando un paio di
bicchieri cilindrici
sulla superficie marmorea. “Puoi prendere la limonata dal
frigo e versarci due
bicchieri?” Ondeggia nuovamente verso la porta sul retro,
afferrando
attentamente il pomello come se cercasse di non spezzare una delle sue
stupide
unghie. “E non dimenticare di mettere il ghiaccio,
okay?”
Fisso
la porta con sguardo
assente e la guardo accogliere una nuova vittima nel suo gioco da
predatrice,
incredulo. Grazie, mamma. Lo apprezzo molto, davvero.
A
quanto pare Walter White
dovrà aspettare.
Mi
trascino verso il
frigorifero – come mi aspettavo, una brocca piena della
limonata di mamma mi
aspetta proprio lì in uno scomparto dello sportello. Prendo
anche una lattina
di Coca-Cola per me e chiudo il frigo con il piede, probabilmente con
più
violenza di quella necessaria.
Mentre
verso la limonata nei
due bicchieri, provo ad aprire la lattina di Coca con una mano sola
–
ovviamente la limonata straborda dal limite del bicchiere mentre
rivolgo la mia
attenzione altrove. Cazzo, mi
lascio
scappare una o due imprecazioni sottovoce e mi precipito a prendere dei
tovaglioli.
A
questo punto vi starete
chiedendo: Jean, perché un ragazzo così bello,
carismatico, fantastico come te
gira per casa sbrigando faccende per quella disperata di sua madre,
mentre
dovrebbe essere fuori a fare quello che fanno normalmente gli studenti
universitari di diciannove anni nel weekend (ovvero non
studiare)?
Ebbene,
lasciatemi dire due
cose. Innanzitutto, sono piuttosto sicuro che la maggior parte degli
studenti
universitari preferisca gironzolare per casa senza fare nulla per tutto
il
giorno.
In
secondo luogo, e mi
vergogno un po’ ad ammetterlo,
non parlo
più a nessuno dei miei “amici” da circa
metà dell’ultimo anno delle superiori. Forse potrebbe avere qualcosa a che fare
con quella volta in cui ho dato libero sfogo ai miei pugni piazzandoli
dritti
nella faccia di un certo Eren Jaeger. È uno stronzo, okay?
Se l’è meritato.
Preferirei
di gran lunga
passare tutta la giornata con mia madre piuttosto che ricevere sguardi
torvi da
lui e la sua combriccola. (Anche se Mikasa rimane comunque
incredibilmente
sexy. Già.)
Aggrotto
le sopracciglia in
un’espressione più cupa del solito quando poso gli
occhi sulle fotografie che
ricoprono il frigorifero – quella con me, Connie e Sasha è ancora
lì, risale a quando abbiamo
fatto quel viaggio in macchina giù al sud, due estati fa.
È stato divertente. È
abbastanza triste che adesso anche loro mi evitino, anche se andiamo
alla stessa
università e ho tre corsi in comune con Connie. Ma mi sono
abituato a questa
solitudine, ormai.
Bevo
un altro sorso di
Coca-Cola, amareggiato, mentre getto il tovagliolo imbevuto di limonata
nel
cestino. Va bene così. Sono sopravvissuto per quasi un
intero anno di
università senza parlargli. E sto bene. Anzi, benissimo.
Con
la coda dell’occhio
scorgo mia madre, impegnata in una conversazione animata con il nuovo
inserviente; fa quella stupida risatina, nascondendo timidamente i
denti dietro
una mano ben curata. Nascondo il mio disappunto e prendo ciascun
bicchiere di
limonata in una mano.
“Oh,
Jean, eccoti qui!”
cinguetta mia madre, facendomi cenno dall’altra parte del
prato non appena
emergo dalla sicurezza della cucina, con le spalle curve.
“Vieni, così ti
presento Marco!”
Già
si chiamano per nome.
Wow, vacci piano, mamma.
Quando
la raggiungo, mi
toglie di mano entrambi I bicchieri, porgendone uno al ragazzo della
piscina e
tenendo l’altro per sé.
“Avrai
sete, immagino, fa
così caaaldo oggi!” sorride sbattendo le ciglia,
che le toccano le guance. “Ho
fatto della limonata, ne vuoi un po’?”
“Oh…sì,
grazie” risponde il
ragazzo, passandosi timidamente una mano fra i capelli corti e neri
sulla nuca,
“È incredibilmente gentile da parte sua, Signora
Kirschtein.”
Affondo
le mani nelle tasche
dei jeans, annoiato, sperando di svignarmela il più presto
possibile. Voglio
lasciare a mia madre tutto il tempo per flirtare ampiamente come
desidera,
ovviamente. Per non parlare di quanto sia pungente oggi il sole, cazzo.
“Chiamami
pure Céline, per favore” ridacchia lei,
piazzando una mano sulla mia spalla per avvicinarmi a lei “E
lui è mio figlio,
Jean.” Ormai sono abituato allo sguardo che mi rivolge.
Digrignando i denti
allungo una mano, rigida. Devo farlo per forza? Non potrebbe importarmi
di meno
di conoscere il nuovo giocattolo di mia madre.
“Marco,
giusto?” domando con aria assente, spostando
lo sguardo verso il volto del ragazzo, più alto di me. I
miei occhi vengono
catturati immediatamente dalla fitta trama di lentiggini che ricoprono
il suo
viso abbronzato dal sole, in particolare da quattro di esse, che
formano una
linea retta sul suo naso.
Troppo
tempo al sole, decisamente.
Marco
mi rivolge un sorriso accecante, posso
praticamente vedere una scintilla tra i denti bianchissimi. Mi stringe
la mano
con una presa salda.
“Sì,
esattamente”, sorride. “È un piacere,
Jean.” Ha
un tono di voce fin troppo allegro per i miei gusti.
Scomparirà presto,
credimi. Ancora non sa in che guaio si è cacciato.
Mia
madre rafforza leggermente la presa sulla mia
spalla quando ritiro la mano.
“Jean
non esce spesso, quindi probabilmente lo
troverai qui per la maggior parte del tempo, soprattutto quando
inizieranno le
vacanze estive.” Grazie, mamma. Davvero un gran bel modo di
presentare tuo
figlio. “Quindi se hai bisogno di qualcosa e io non ci sono,
probabilmente
potrai chiedere a lui.”
Abbasso
lo sguardo sull’erba, riesco praticamente a
perforare il terreno con i miei occhi infuocati. Ordino mentalmente a
mia madre
di lasciarmi andare a fare l’eremita in salotto per il resto
del pomeriggio.
Forse coglie qualcosa dalla mia postura rigida, perché
ritira il braccio.
“Bene,
torna pure a fare quello che fai sempre,
qualsiasi cosa sia.” Grandioso. Walter White, sto arrivando.
I
miei passi esitano impercettibilmente quando Marco
alza il bicchiere davanti a sé e grida alle mie spalle:
“Ehi, grazie della
limonata, Jean!”
Probabilmente
borbotto un “non c’è di che”
sottovoce,
ma non mi volto a guardare, finché non sento la superficie
fresca del pavimento
della cucina sotto ai piedi. Mi riprendo la lattina di Coca-Cola
lasciata a
metà e ne bevo un lungo sorso, guardando mia madre
barcollare verso il capanno
della piscina, mentre apparentemente gli indica la combinazione per
aprire il
lucchetto che tiene chiuse le porte di legno.
Alzo
la lattina in direzione della finestra, in un finto brindisi. Buona
fortuna a
te, Marco.
Guardo
l’episodio finale di Breaking Bad
comodamente steso sul divano, con l’aria condizionata
al massimo. È esattamente epico come lo ricordavo. Non posso
fare a meno di
picchiettare con le dita sui cuscini del divano, seguendo il ritmo di Baby Blue dei Badfinger mentre alla fine
Walt soccombe alla ferita da arma da fuoco. Una gran bella colonna
sonora.
Ho
dovuto chiudere le finestre più o meno a metà
episodio perché l’incessante chiacchiericcio di
mia madre era riuscito ad
attraversare tutto il vialetto e non so ancora quante delle risatine
imbarazzate di Marco sarei riuscito a sopportare.
Quasi
quando stanno per comparire i titoli di coda
squilla il telefono, la suoneria stridula mi fa fare un salto di circa
sei
metri per la paura, facendo attraversare mezza stanza alla lattina di
Coca-Cola
ormai vuota che un tempo si trovava sul mio petto. Totalmente privo di
grazia,
rotolo (leggi: cado) giù dal divano e afferro il cordless
dal tavolino,
portandolo all’orecchio rimanendo steso, faccia a terra, sul
pavimento di
legno.
“Pronto?”
rispondo goffamente, contorcendomi per
liberare l’altro braccio dal peso del mio corpo.
“Saaalveee,
c’è il Signor Kirschtein?”, ecco qui il
trillo della voce acuta che so già essere la causa delle mie
emicranie. “Sono
Charlotte, dall’ufficio.”
“Sai,
sei fortunata che non risponda mai mia madre
quando chiami qui” rispondo, impassibile. Inizio a tirare le
fibre del tappeto
peloso bianco che si trova sotto al tavolino. “Mio padre non
ti ha ancora detto
di smetterla di chiamarlo qui?”
Penso
che la rabbia si sia placata da tempo; quello
che sento adesso principalmente è un misto di irritazione
nei confronti di mio
padre per essere un idiota tanto distratto e insensibile, e il senso di
colpa
perché non sto facendo nulla per aiutare mia madre a
scoprire che suo marito è
un gran pezzo di stronzo infedele.
“Chiamalo
al cellulare se hai così tanta voglia di
scopare” aggiungo immediatamente, e senza aspettare una
risposta ripongo
bruscamente il telefono sul suo
supporto. Rimango per qualche minuto così, steso, a fissare
le venature del
pavimento. Riesco solo a pensare a quanto devo sembrare ridicolo.
“Chi
era?” la voce di mia madre riecheggia in tutta la
casa, accompagnata dallo scalpiccio dei tacchi sul pavimento della
cucina. Con
un lamento mi sollevo sulle ginocchia e uso il bordo del divano come
leva per
rialzarmi completamente. Stiracchio le braccia sulla testa e le mie
giunture
scrocchiano.
“Ancora
quei bastardi dei doppi vetri” rispondo
subito, mentendo con facilità. Le dico sempre le stesse
cose, venditori di
finestre o di
termosifoni. E, accidenti,
non dovrebbe essere così facile mentirle guardandola negli
occhi. Non posso che
sentire il dolore pulsante dei sensi di colpa attanagliarmi lo stomaco.
“Ah,
quando impareranno” sospira mia madre, mentre io
torno in cucina, muovendo ancora le spalle per allentare la tensione
accumulata
stando steso per tanto tempo senza muovere un muscolo. Lei mi
dà le spalle
mentre mette i due bicchieri di cristallo ormai vuoti nella
lavastoviglie.
“Comunque penso che tutti lascino le finestre aperte, con
questo caldo! Perché
mai dovremmo volere i doppi vetri?”
Torno
ancora una volta ad appollaiarmi sul solito
sgabello alto, girando distrattamente sul posto. Noto che la busta
bianca è
scomparsa dal bancone.
“Il
ragazzo della piscina ha già finito?”
“Oh,
sì, non si è trattenuto molto” mi
risponde mamma,
chiudendo la lavastoviglie con un movimento del bacino. “A
quanto pare abbiamo
uno…sbilancio del livello di cloro? Credo che abbia detto
qualcosa del genere.
Comunque, ha detto che tornerà domani e sistemerà
tutto. Domani però ho la
lezione di aerobica con le ragazze, quindi dovrai tenerlo
d’occhio tu e
occuparti del pagamento quando avrà finito, okay? Non potrai
dormire fino alle
tre come tuo solito.”
Veramente
grandioso, cazzo.
“L’hai
già stufato così tanto da mollarlo a
me?”
ribatto con sarcasmo, incrociando le braccia al petto. “Qual
è il problema, non
è abbastanza giovane per te, mamma?”
Mia
madre sbuffa esasperata, mimando la mia postura a
braccia incrociate mentre si appoggia al bancone.
“Jean,
ti prego, ti ho detto di smetterla di dire cose
del genere.” Per tutta risposta mi stringo nelle spalle senza
darle troppo
peso.
Trascorro il resto della giornata nella mia stanza a scorrere qualcosa
come due
chilometri di novità sul mio portatile, pregando
affinché la temperatura si
abbassi abbastanza perché non mi senta come se mi fossi
incollato
permanentemente a questi jeans con il mio stesso sudore. (Mi rifiuto di
indossare pantaloncini corti, okay? Mi farebbero sembrare un idiota.)
Di
tanto in tanto mi cade lo sguardo sulla pila
disordinata di libri e appunti che barcolla sul bordo della scrivania,
ricordandomi costantemente dell’incombenza degli esami che
dovrò sostenere fra
un mese e mezzo.
Dio,
quanto non vedo l’ora che questi esami diventino
solo acqua passata. Sono passati mesi e ancora non capisco quasi nulla
del
corso di filosofia (ancora non so esattamente cosa mi abbia convinto a
frequentarlo, a dire il vero). Probabilmente è solo colpa
mia, per il semplice
fatto che proprio non riuscivo a decidere quale materia scegliere per
la
specializzazione. E tuttora non ci riesco, per dirla tutta. Prima
arrivano le
vacanze estive e meglio è.
Almeno potrò
sguazzare nella mia esistenza miserabile al di fuori
dell’università. Perfetto.
Rovisto
nel cassetto della scrivania in cerca del
pacchetto di Marlboro che sicuramente è sotterrato
lì da qualche parte. Per
fortuna mia madre non pulisce qui. Si incazzerebbe a morte se trovasse
delle
sigarette. (Ad ogni modo, neanche la signora delle pulizie tende a
ficcare
troppo il naso tra le mie cose.)
Non
posso fumare in camera, quindi allungo una gamba
verso la finestra e mi arrampico sul tetto, facendo leva sulle tegole
grigio
ardesia per poi accomodarmi in cima al timpano. È un posto
accettabile per
sedersi – anche se in effetti stare seduto lì per
troppo tempo è una tortura
per i miei testicoli – si può vedere quasi tutta
Trost da qui. Un mare di tetti
suburbani, tutti identici, che si estende isolato dopo isolato, ma in
lontananza vanta anche di grattacieli e blocchi di uffici del centro,
posti
dove probabilmente mio padre sta scopando con la sua segretaria bionda
su
qualche scrivania.
Il
mio Zippo ha bisogno di un paio di tentativi prima
di funzionare – ecco, probabilmente l’accendino
è una cosa che avrei bisogno di
ricomprare – ma basta poco tempo perché senta il
dolce rilascio di nicotina bruciarmi
sul fondo della gola. Inspiro ed espiro profondamente diverse volte,
lasciando
che il fumo scavi a fondo nei miei polmoni per poi uscire nuovamente.
La cenere
cade dalle mie dita e rotola giù per il tetto e poi dentro
la grondaia.
Mi
chiamo Jean Kirschtein. Ho diciannove anni. Studio
all’Università di Trost e rischio di essere
bocciato in filosofia. Al momento
non ho amici e mi piace angosciarmi mentre fumo sigarette sul tetto di
casa
mia. Mio padre si scopa la sua segretaria e mia madre probabilmente
vorrebbe
scoparsi il nuovo ragazzo che pulisce la piscina, ma nessuno dei due sa
dell’altro. Solo io so di entrambi.
Benvenuti
nella mia vita.
Note
dell’autrice:
È da un po’ che non provavo a scrivere una long,
ma questi coniglietti
ispiratori di nuove trame mi saltellavano in testa durante tutte le
vacanze di
Pasqua. Quindi eccoci qui. Non ricordo nemmeno come sia iniziata
quest’idea. Probabimente
pensando a Jean che è sempre più distratto da
come le lentiggini di Marco
sembrano tuffarsi nel fondo della sua schiena. O qualcosa del genere.
Forse
volevo solo torturare il povero Jean con il pensiero costante del suo
lentigginoso angelo semi-nudo la maggior parte del tempo.
Dovevo
per forza buttare giù qualcosa. Spero che vada
a buon fine…dovrei avere una direzione generale per il resto
della storia.
Spero che l’inizio vi sia piaciuto. Jean è un
personaggio divertente da
scrivere (o almeno provarci).
Nel
prossimo capitolo: Jean è costretto a mandare
avanti una conversazione con un’altra persona della sua
età. E forse il ragazzo
della piscina non è così male come sembrava?
Sarei
felicissima di sentire i vostri pareri.
Su
tumblr seguo la tag “fic: droplets”, non vedo
l’ora
di parlare con voi lettori!
Note
della traduttrice:
Salve a
tutti! Non immaginate quanto mi senta
onorata a tradurre la mia fanfiction preferita. Spero di poter tradurre
e
pubblicare presto gli altri capitoli. Intanto fatemi sapere cosa ne
pensate, e
se avete consigli o errori da segnalare non esitate a dirmelo!
Un saluto
bebouska