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Autore: Aleena    31/03/2015    1 recensioni
Nel regno di Lolth, ogni ottantotto anni i figli bastardi di Che'el Phish, la
Città Rossa, devono correre nell'arena. Non c'è possibilità di salvezza per i maschi, solo
una rapida morte.
Rakartha pensa che il suo sangue di femmina la salverà, ma la crudele divinità dei Drow,
Lolth, ha in serbo per lei una sorpresa che le cambierà la vita.
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Storia vincitrice dell'Oscar per il "Miglior Trucco e Acconciatura" agli Oscar EFPiani 2016
[1a classificata al contest "Sangue, Slash e Fantasy" indetto da Ynis sul forum di efp
2a classificata al contest "Of Monsters and Masters" indetto da La sposa di Ade sul forum di efp]
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I fantasmi di Che'el Phish'
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CAPITOLO II
UNA PRIGIONE DI ROCCIA



 
  La seconda cosa che dovette abbandonare fu il suo orgoglio. 
lo capi lì nell'arena, il primo giorno, quando sette jaluk le si strinsero intorno, spade corte alla mano, e le lanciarono un’arma, sogghignando. 
L’attaccarono che era ancora a terra e solo grazie all’allenamento riuscì a scansarli. Fu allora che si rese conto di dover decidere tra i resti dell’abito rosso e il dolore; scelse di combattere, nuda come un tanth1, e lo fece come meglio poteva, rispondendo a un assalto più violento di quanto mai avesse immaginato. 
Perse, senza riuscire nemmeno a cancellare il sorriso a uno di loro. 
Ma come poteva vincere? Era a pezzi, schiacciata da una fatica che non aveva mai provato e accecata dal trucco, che le colava negli occhi assieme al sudore. Doveva essere orribile, e la cosa la feriva tanto quanto lo facevano le spade.  
Più volte si trascinò fuori dall’arena e venne ributtata dentro, ancora e ancora, fin quando una sirena stridula richiamò i Corridori per la cena. Allora si rialzò un’ultima volta e guardò la folla scorrere intorno, dandole spallate nel tentativo di abbatterla, forse di schiacciarla di nuovo. 
Rakartha reagì col silenzio, soffocando l’orgoglio ferito e la rabbia. Nessuno avrebbe mai più considerato la sua parola come qualcosa di definitivo – come un ordine. Poteva sentire quegli avanzi della società ridere di lei, cercando modi sempre più rozzi per infliggerle dolore, e mostrarsi debole sarebbe stato come accettare i loro soprusi. Come invitarli a distruggerla. 
C’era un unico modo per poter sperare di non soccombere: doveva rinunciare a sé stessa, a Rakartha e a tutto quello che il suo nome comportava. Doveva diventare un maschio e far capire loro che era lei… lui, che comandava. E doveva farlo presto, prima che uno di quei pezzi di merda si spingesse troppo oltre, ridicolizzandola in maniera definitiva. 
Cercò prima di smettere di pensare al femminile, e fu come perdere un’altra volta sé stessa. Non abbandonò mai l’abitudine, ma questa dualità poteva rafforzarla: essere stata Rakartha le aveva insegnato come sopravvivere in un mondo ben più competitivo di quello maschile, e poteva contare su un addestramento che quei jaluk non avevano ricevuto. 
Poi scelse un nuovo nome, uno che rispecchiasse chi era. Rakarth, l’equivalente maschile, non aveva un vero significato nella lingua Iliithyri ma ne aveva uno profondo per lei, che vedeva come una piccola perdita non modificasse più di tanto un individuo. 
Infine valutò la sua situazione con tutta l’oggettività che le era possibile avere mentre si leccava le ferite, stesa su una branda incandescente. Rakartha era stata allenata per il comando e la furtività, per la sensualità e i veleni, per la magia e per le armi da fuoco di precisione a lunga gittata. Rakarth avrebbe invece dovuto imparare a combattere in una mischia, corpo a corpo, con lo scudo energetico e la spada, con le pistole a medio-corto raggio. Come il resto di quelle bestie, non  avrebbe potuto conoscere la magia ma, giacché l’aveva, nulla gli vietava di usarla. 
Se la velocità era l’arma fondamentale per una jalill, la forza fisica lo era per uno jaluk. L’idea di dover temprare il suo corpo non le piacque, ma lo fece: si allenò nelle palestre anche quando non avrebbe dovuto, nel tentativo di recuperare lo svantaggio sugli altri maschi. Sfruttò l’agilità nell’arena e, mentre gli altri cercavano di starle dietro, imparò a fortificare i muscoli e combattere con la forza bruta. Il risultato fu che, in meno di dieci anni, pochi maschi potevano competere con Rakarth – i più anziani, quelli la cui vita era quasi finita. Le nuove leve, che a gruppi disomogenei arrivavano dalle Case d’Allevamento, guardavano a Rakarth come a un capo da temere. Oh, sapevano la sua storia, non ne dubitava, ma solo i più coraggiosi ne parlavano. I più stupidi, in effetti, perché scontavano quell’affronto nell’Arena, pagandolo caro. Rakarth era brava a raccogliere pettegolezzi e dicerie: non una frase veniva detta senza che qualcuno gliela riferisse.
Poi l’ottantasettesimo anno volse al termine, e una delegata del Tempio venne a raccogliere i corridori. 
Arrivò su una portantina d’ossidiana trasportata da dieci schiavi per lato, com’era usanza fin dai tempi antichi. Una Sacerdotessa dai lunghi capelli bianchi e la pelle più nera del peccato, avvolta in una veste grigia e rossa e attorniata da guardie scelte fra l’elite degli ufficiali. Fra loro c’era anche Dresden, con lo sguardo basso e il portamento fiero. 
A nessuno degli schiavi era permesso fissare la Sacerdotessa, ma Rakarth indugiò su di lei quanto più a lungo glielo consentì la posizione distante, prima di abbassare il capo e inchinarsi come facevano gli altri. La invidiava tanto da odiarla, e soffocò il desiderio folle di attaccarla solo pensando che non sarebbe riuscita ad arrivare a lei neanche volendo. Doveva stare calmo e aspettare un momento migliore, una via d’uscita, una falla…
«La Dea si compiace del vostro sacrificio.» attaccò la Sacerdotessa. Aveva la voce isterica e annoiata di chi sia stato destinato a un compito ingrato e cerchi di svolgerlo il meno peggio possibile. Deve aver appena finito di ripetere questa tiritera alle femmine… e non vede l’ora di lasciare questa fogna e il suo puzzo.
«Che la gloria della Dea regni su ogni popolo.» risposero meccanicamente tutti gli jaluk. 
«Ottantotto anni sono passati dall’ultima Tangin Thata, e gli otto giorni di festività sacra dedicati a Lolth inizieranno fra meno di un mese. Il quarto giorno, come da tradizione, voi Correrete, offrendo il vostro sangue come sacrificio alla Dea Ragno. Gioite, perché perdendo la vita farete scendere la Benedizione di Lolth sulla Sacerdotessa che vi avrà sacrificato.» 
Un grido di esultanza partì dalle guardie e si diffuse ai Corridori, condizionati a obbedire alle parole d’una femmina nobile. 
«Correte come se fosse la Dea stessa a inseguirvi, con la sua frusta in mano. Combattete e rendete forti voi stessi, così da donare maggior onore e gloria alla Sacerdotessa che vi sacrificherà.»
Altre esaltazioni, più deboli stavolta. Rakarth represse una smorfia. Se ripete ancora Sacerdotessa o sacrificio la ammazzo pensò, cercando di non tradire in volto altro che un cieco servilismo. Come ci si aspetta da uno jaluk.
«Questo Tangin Thata accoglierà tutti gli jaluk che abbiamo compiuto almeno ottantotto anni, come vuole la tradizione. Le vittime previste sono novantacinque. Fatevi avanti e venite al sacrificio colmi del timore che la Dea Ragno esige.»
«Pensano che ricordarci costantemente che dobbiamo morire sia d'aiuto?» sussurrò Khalan all’orecchio di Rakarth, dissimulando il nervosismo con un tono ironico. Si era salvato dalla corsa perché dodici giorni più giovane del minimo richiesto: doveva sentire sul collo i morsi della paura. 
«Le Sacerdotesse sanno cosa è giusto. La Dea parla tramite loro e le loro scelte sono in conseguenza insindacabili e giuste.» rispose Rakarth con tono appena più alto, mantenendo gli occhi fissi sui Corridori che si facevano avanti, uno a uno. Non credeva alle sue parole, almeno non fino in fondo: le Sacerdotesse sbagliavano eccome, e i risultati dei loro errori erano presenti a dozzine in quel mucchio via via sempre meno numeroso. Maschi in sovrannumero e i tanti, troppi Albini erano la risposta di Lolth alle disastrose decisioni prese dalle sue adepte durante la guerra ai nani di Khara’duh. Almeno quelle perfette bambine correranno tanto, quest’anno. Quanto saranno numericamente inferiori? Una a dieci?
Non doveva pensarci, non ora: un segno di ribellione o eresia bastava a farti passare sei mesi in una cella umida e soffocante, un buco scavato nella roccia vicina alle fornaci della Terra e foderato di alluminio.
«Come la Dea comanda.» rispose fra i denti Khalan, usando le parole rituali, cercando di tenere nascosto il risentimento - ma questo era trapelato comunque. 
Un falso senso di comunanza aveva unito quel maschio a lei: l’attirava col suo bell’aspetto e la lingua tagliente, affascinandola come non avrebbe ritenuto possibile. Al contempo, ne era sedotto per il singolare addestramento che aveva: era stato un membro della Milizia Esterna prima di decidere che violentare una femmina al servizio di Casa Vuzieth fosse un passatempo piacevole. 
Khalan aveva evitato la condanna capitale grazie alla sua giovane età e alla stessa jalill che aveva aggredito: lei voleva il suo sangue ma era ancora una Novizia e non avrebbe potuto sacrificarlo con le sue mani. La femmina avrebbe cercato Khalan alla corsa e il piacere che lui doveva aver provato le sarebbe stato restituito, amplificato dall’amore per la vendetta a lungo pianificata: una jalill imparava a tessere con calma la sua tela già dalla tenera età. 
Rakarth tollerava la mancanza di rispetto insita nelle parole di Khalan anche in virtù di questa rivelazione: provava una gioia sadica sapendo della sua nemica e della fine dolorosa che il maschio avrebbe patito. E, nell’attesa, lui era più utile come alleato: Rakarth aveva imparato molto dall’esperienza dell’altro come Guardia. 
«… Gloria della Dea!» stava gridando la Sacerdotessa. La sua voce tuonava ancora nella grotta mentre la sua portantina si allontanava, rapida come se temesse che quel luogo avrebbe potuto infettarla. È così, credimi pensò Rakarth, voltandosi. A un cenno i membri del suo gruppo ristretto – quattordici jaluk in tutto – lo seguirono, ignorando le guardie che strillavano ordini. Sarebbero andati al campo d’addestramento come ogni giorno, il più in fretta possibile. 
Avevano dei bambini nuovi da piegare e altri ottantotto anni solamente per rendersi più forti di quelle femmine, e nessuno di loro aveva intenzione di sprecarli.
Camminando a testa alta, Rakarth cercò di convincersi che il fatto di avanzare con rapidità fosse dovuto solo all’adrenalina che gli faceva pompare il cuore all’impazzata e non alla figura di Dresden che si stagliava, dritta e inflessibile, alle sue spalle, fissando con odio i Corridori. 


 

 
1 verme

Piccolo Spazio-Me: oddio, questo racconto già dal primo capitolo mi ha dato più soddisfazioni di quanto avrei potuto immaginare! Vi ringrazio tutti tanto per aver letto, commentato è messa la storia tra le preferite/seguite *_* e mi scuso per l'aggiornamento a rilento: prometto di non farvi più aspettare tanto a lungo un capitolo :S
Al solito, fatemi sapere che ne pensate di questo nuovo capitolo mi raccomando ;)

 
  
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