Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Amaya Lee    04/04/2015    2 recensioni
[ Ereri | 5 passi - 5 capitoli | Modern AU | Levi è un adulto noioso ed Eren non lo è | Levi's POV ]
Avete mai cercato la Redenzione?
Certo che no. Mica è qualcosa che si cerca; un giorno alzi lo sguardo e la trovi lì, in un momento imprevedibile, quando proprio hai altro da fare, e non ti aspettavi di vedertela davanti, in tutta quella sua inaspettata eleganza.
Non è che la raggiungi, non è merito tuo.
Certe volte deve arrivare qualcuno a mettertela tra le mani, silenziosa e provvidenziale com'è, perché davvero non sai dove sbattere la testa. Forse, neanche ci credi; come non credi nelle fiabe. Forse nemmeno la vuoi.
Più o meno, mi duole raccontare, questo è ciò che successe a me.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Altri, Eren, Jaeger
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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NA: Ehilà! Come promesso, eccomi qui, presto, con il capitolo 2^ (un po' più lunghetto del precedente). Spero di non deludere le vostre aspettative, pur proponendovi qualcosa che si discosta abbastanza dalla maggior parte degli AU. Ci tengo a dirlo; questa storia è nata nel tentativo - naturalmente senza alcuna pretesa - di rappresentare la realtà, nella quale, pur non potendo prevederli e sapendo che questi non accadranno necessariamente nel modo che vorremmo, gli eventi sono profondamente ordinari.
Detto questo, non mi resta che augurarvi buona lettura - e ricordarvi che ogni parere, specialmente costruttivo, è categoricamente apprezzato. -Amaya

 








Trovare la Redenzione in 5 (non troppo) semplici passi.









2 – Ignorare la via d'uscita.





 

 

Chiamatemi pure cinico, ma non sono mai stato un credente. In nessun senso del termine; non appartengo categoricamente ad una religione, non ho mai riposto la mia fiducia in qualcuno – o qualcosa, o una forza cosmica superiore – senza un valido motivo. Per quanto l'idea di un Fato che regola i conti sia legittima ed allettante, mi ero sempre sentito più devoto a me stesso e alle mie scelte, pensando che solamente queste avessero il potere di determinare il mio futuro.

Sempre dando retta ad un raziocinio spaventosamente crudo, non mi sono mai fidato completamente nemmeno di me stesso.

Accadono poi cose, a volte, che portano molti a credere in un Dio, nel Karma, nel Destino; cose belle, cose stupefacenti. Ma nulla del genere mai capitò a me.

Eppure, con malinconico spasso, lo confesso; ci fu una volta in cui l'idea di credere in qualcosa che non fosse il caso mi sfiorò.

 

 

Topeka. Vicino a Kansas City [Kansas].

E, tanto per essere precisi, si pronuncia “To-pì-ca”; grande città; tutte le conseguenze di 122.377 abitanti circa.

È una città molto lontana dal mare, proprio al centro degli Stati Uniti d'America, ma nei pressi c'è un lago; io non ci ero mai stato.

I cocci fantasticanti dei miei pensieri non si spingevano sulla sabbia bianca delle rive né alla superficie luccicante e verde-azzurra del Perry Lake. No, no; le mie ordinarie congetture erano ben meno entusiasmanti.

Intento a scegliere il dentifricio che rispettasse secondo le mie esigenze il miglior rapporto qualità-prezzo, osservando con severa criticità lo scaffale del prodotto, mi trovavo coinvolto nell'incessante, vizioso circolo della mia ordinarietà.

Approfittavo di una delle mie rare mattinate libere per rifornirmi di prodotti per la pulizia della casa e l'igiene personale; mi ero anche ricordato di riempire come si deve il frigorifero di casa mia, tristemente privo di qualsiasi alimento a breve scadenza.
Da quando ero stato promosso in ufficio il mio stipendio era notevolmente aumentato, in misura inversamente proporzionale al mio tempo libero. Però mi arrangiavo, bene o male.

Scelsi una marca di dentifricio di cui avevo soppesato convenienza, benefici e misura del tubetto, chiudendo gli occhi con un sospiro quando lo posi nel carrello.

Compilare un sacco di documenti per un cliente mi aveva privato del sonno per giorni, ma l'ora di pranzo era vicina e la mia ennesima giornata lavorativa doveva ancora cominciare.

La tua prossima vacanza è il Ringraziamento, tieni duro ancora quattro mesi, mi dissi; e nemmeno nei miei pensieri auto-motivazionali poteva mancare una vena di sarcasmo, o non mi chiamavo Levi Ackerman.

Mi voltai in direzione della cassa situata alla fine della corsia, nella quale era presente solo un altro occupante.

Ora, vorrei che vi sforzaste di visualizzare, nel dettaglio, l'inevitabile goffaggine del momento; le corsie del minimarket nei pressi del mio condominio erano di per sé abbastanza strette, perciò era ovvio che non avrei mai potuto passare, neppure considerando la mia struttura corporea, trovandomi di fronte un carrello posizionato di traverso.

Chiunque avrebbe potuto arrivarci, ad eccezione evidentemente dell'idiota che consultava con estrema concentrazione le etichette delle bibite energetiche, sporgendosi persino in avanti cosicché tra lui e lo scaffale non ci fossero che pochi centimetri.

Poco convinto, il ragazzo raccolse una bottiglietta verde prima di accorgersi della mia presenza. Ebbi una spiacevole folgorazione quando riconobbi i suoi occhi, più sgargianti e inverosimili persino del liquido disgustoso che teneva in mano.

«Oh, mi scusi. Deve passare?»

Guardò me, poi il suo carrello, e lo spostò con rapidità.

Ma io ero ancora troppo sorpreso e discutibilmente amareggiato per muovermi. Quel ragazzo – un po' più maturo di quanto ricordassi – mi doveva il conto della lavanderia.

Da quattro anni.

Tornò ai suoi acquisti ma subito, esitante, il suo sguardo si spinse nuovamente verso il mio. Assunse un'espressione contrariata. «Posso aiutarla?»

Decisi di segregare nei turbini del Dimenticatoio il fastidioso conto in sospeso, poiché era più che lampante che non se ne ricordasse, e non potevo certo pretendere una cosa del genere da un marmocchio come lui. Così svicolai via con un'espressione più dura del dovuto, ma ugualmente inflessibile, e me lo lasciai alle spalle.

Fu mortificante constatare, un minuto e mezzo dopo, di trovarmelo proprio dietro mentre la commessa trascinava con estenuante fiacca ciascun elemento della mia spesa di fronte al laser, producendo ogni volta un ancora più estenuante segnale acustico.

Non mi andava di dover vedere ancora una volta la sua – davvero bella, per il mio dispiacere – faccia da idiota, perciò recuperai la borsa e mi affrettai senza esitazione oltre la porta scorrevole; l'aria fuori era più asfissiante di quella interna al minimarket, dove perlomeno esisteva un impianto di ventilazione.

Nel parcheggio sembrava di respirare fumo caldo e secco e microparticelle tossiche.

Ingoiai sicuramente qualcosa di poco salutare nel momento in cui udii una voce brusca a pochi metri, dietro di me.

C'era qualcosa di estremamente sbagliato nel complesso di coincidenze della mia vita.

«Ehi!»

Ignorai la voce, perfettamente consapevole che fosse rivolta a me, senza rallentare il passo.

«Eh no, dannazione. Fermo lì.»

Scoccai un'occhiata alle mie spalle, e non mi sorpresi affatto nel vedere il ragazzo dai capelli castani, bronzei sotto il sole del mattino, che a grandi falcate mi si avvicinava. Non accennò a calmarsi neppure quando mi fermai.

Mi squadrò soltanto, godendo interiormente della differenza d'altezza – ce l'aveva stampato a grandi righe negli stronzissimi occhi verdi.

«Ok, è evidente che hai qualche tipo di problema con me. Cristo, non ti conosco nemmeno.» Si portò la mano destra alle tempie, come cercando di distendere i nervi. «Una spiegazione?»

Gli restituii lo sguardo saccente; se la stava cercando. Le vibrazioni grigie e dense del mezzogiorno influivano sul mio orgoglioso autocontrollo. «Rinfrescarti la memoria potrebbe aiutarti. Più fosforo, moccioso.»

«Eh?» Il suo sguardo confuso mi fece cadere le braccia.

«Sparisci.»

«Non mi puoi chiamare 'moccioso'» replicò.

E in effetti non potevo. Presi nota delle sue spalle larghe, del fisico slanciato ed atletico, delle braccia allenate, il viso maturo e lo sguardo incazzato. «Cristo santo»

«Come–»

«Mi devi una lavanderia, cazzo.»

Disorientato, sbatté le palpebre un paio di volte.

Almeno io me l'ero tolta dalla coscienza.

«Aspe–»

«Arrivederci

«Finiscila di interrompermi. Non ho idea di cosa parli. Chi... Il tuo nome?»

Oh, giusto, le presentazioni. Ma che beneducato.

«Levi» borbottai.

«Eren» rispose prontamente. Non mi sfuggì – affatto, devo dire – il tremolio poetico della “erre”. «Jaeger.»

Accettai la mano tesa con determinazione verso di me, ma non approfondii la stretta come fece lui. Era vigorosa e tiepida; addirittura gradevole.

«Lascia stare, Eren.» Rilassai le spalle, ma continuai a occhieggiarlo con distacco. «Non ce l'ho con te per nessun motivo.»

«Hm. Okay.»

Non sembrava affatto convinto al cento percento, ma almeno aveva abbandonato l'aria minacciosa.

Le sue emozioni erano talmente palesi che quasi ne fui spaventato; era come avere a che fare con una bomba ad orologeria – seccata, maldestra, e abbronzata.

Il viso di Eren si accese subito dopo, ma in modo molto diverso. «Ah, e... » Infilò la mano nel proprio sacchetto di plastica, più raccolto di prima. «La commessa ha detto che hai dimenticato i punti del market.»

La sua mano bruna mi porgeva tre minuscoli adesivi rossi a forma di quadrato, e li adocchiai con noncuranza.

«Non mi interessano.»

Eren annuì comprensivo. «Ok, allora potrei prenderli io? Sai, mia sorella maggiore li raccoglie... Con cinquanta ti danno un tostapane...» Storse la bocca. «In effetti però, se ogni dieci dollari ti danno un punto, il fottuto tostapane me lo prendo da solo.»

Sarebbe stata una di quelle battute alle quali la gente sorride, se non fossimo stati entrambi terribilmente seri. E poco scherzosi, in generale.

«Già. Non preoccuparti, tienteli pure.»

«Grazie, Levi.»

Sospirai, pronto a voltarmi e tornare alla mia auto, ma Eren era di tutt'altro avviso.

«Ho– Ho capito che non ce l'hai con me, però spiegami 'sta cosa della lavanderia. Possiamo andare a prendere, tipo, un caffè, intanto.»

Probabilmente fu sul punto di rivolgermi un mezzo sorriso, ma gli si gelò sul volto nel momento in cui, di colpo esasperato, lo inchiodai con un'occhiata.

«Sono impegnato. Grazie comunque.»

Mi allontanai a passo svelto, maledicendo la diabolica bevanda e la stupida fissazione del ragazzino, e anche quel suo fastidioso comportamento altalenante. Salii in macchina mentre lui ancora mi guardava stranito, ed esalai un sospiro quando uscii dal parcheggio.

Qualunque forza cosmica osservasse, regolasse odiosamente la mia vita, parve mio malgrado accogliere una sfida che non intesi mai lanciare.

 


 

  
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