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Autore: Lodd Fantasy Factory    13/04/2015    1 recensioni
Questa è la storia di un mondo lontanissimo, fatto di miti e di leggende. Un galeone alla deriva, un antico segreto da svelare ed una lotta per liberare un popolo dall'oppressione di un folle tiranno. La storia sta per ripetersi. Fra intrighi e tradimenti, solo uno avrà la meglio sul proprio destino.
Talvolta può capitare che il genere fantasy sia come il mignolo del piede che irrimediabilmente finisce per sbattare contro qualche mobile mentre si gira scalzi per casa. Certi incidenti di percorso, però, non sempre possono classificarsi come terribili storie, ma come storie terribilmente divertenti. Inizio, Centro e Fine parla di tutti coloro che, come me in questo momento, stanno ponderanno o rendendo pubblica una storia, indipendentemente dalla qualità: ci accomuna il desiderio di esprimere e condividere qualcosa che ci appartiene, anche se non sempre è interamente di chi sta scrivendo. Questo è un mondo ove tutti quelli conosciuti divengono uno solo: il mondo della Fantasia.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: AU, Cross-over, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Questa è un'opera di fantasia.
Ogni riferimento a fatti, cose, persone reali e non, è puramente voluto. Il contenuto di questo racconto può nuocere gravemente alle menti sensibili, prive di Fantasia.

 

 

Dedicato a tutti gli aspiranti scrittori.

 

 

Era una buia giornata tempestosa, immersa dentro un mare d'acqua che piombava dal cielo come le saette che lo illuminavano. Il vento ululava selvaggio per le deserte vie della città, rendendosi l'unico cittadino di quel centro defunto, come il sole oltre le coltri d'ebano, che stringevano in un pugno di ridondanti singhiozzi i suoni della capitale. Il mare danzava irrequieto e schiumoso, invitando le imbarcazioni a seguirlo in quel ballo mortale che pochi avrebbe risparmiato.

«Finiremo sugli scogli, Capitano!» annunciò il Mozzo, indicando la scogliera contro cui altre due bagnarole stavano per andare a sbattere.

Il mutismo aveva colto gli altri marinai, che se ne stavano acquattati sul pontile, intimoriti dalla rabbia dell'oceano; pareva quasi che anche i diavoli potessero piangere.

«C'era una volta una tempesta più scontrosa di questa, vi dico, e le onde come denti affilati mordevano e strappavano i fianchi della Gorgo dei Mari. Era la tempesta perfetta. Sembrava reale, vi dico, con quei due occhi di lampo che parevano gli stessi di una tigre, ed un cuore di tenebra celato negli abissi. Persi in quell'occasione la mia gamba destra!» raccontò ancora assorto il Mozzo, tastando la protesi di legno che sostituiva il suo arto; amava ricordare che si trattasse niente meno che di un frammento del timone dell'omonima, celeberrima nave del suo racconto.

A nessuno importava delle sue deliranti cronache, che distoglievano l'attenzione dal reale pericolo che minacciava di trascinarli a fondo, con la sabbia ed i resti di chi, prima di loro, aveva avuto un incontro ravvicinato con la scogliera che proteggeva la capitale.

«Non tutti coloro che vagano sono perduti!» esclamò uno dei marinai. «Ritroveremo l'abbraccio dei nostri cari; dobbiamo solo avere fede in Dio. Non può piovere per sempre!»

«Stolto, io ho visto cose che voi marinai da quattro soldi non potreste neanche immaginarvi!» l'insultò il Mozzo. «In questi mari non esiste alcun Dio! Prega l'oceano, piuttosto, affinché possa risparmiarti la vita!» replicò il mutilato.

“Li abbiamo quasi toccati tutti...”, sussurrò una voce fuori campo, mentre le pagine scorrevano prive della sua attenzione. Si fermò qualche decina più avanti: 147”

Il Mozzo aveva lasciato cadere il suo stocco, come un ultimo raggio del sole estivo che si addormentava sulle merlature delle porte del palazzo reale. Il foro lasciato dal pugnale era ripieno della sua linfa vitale, che zampillava copiosamente, sino ad allargarsi in un'ampia macchia scura sulla sua sudicia maglia. Cadde stancamente all'indietro, riversandosi sui barili alle sue spalle con notevole fragore. Lucky era stato fortunato a coglierlo di sorpresa, proprio mentre si stava sistemando la gamba di legno.

«Sapevo sarebbe giunto questo fatidico momento... La storia, ahimè, si ripete» disse, fra i violenti colpi di tosse, il Mozzo.

«Che intendi dire, vecchio?» chiese il giovane, sentendo il rumore delle corazze delle guardie avvicinarsi.

«Da grandi poteri derivano grandi responsabilità. Ancora una volta l'inganno ha celato la verità, ed il sangue versato appartiene ad un'unica casata» rivelò, sputando sangue sia dalla bocca che dalla ferita.

«Almeno nei tuoi ultimi istanti di vita potresti essere chiaro. Le tue bugie avranno comunque fine, ora!»

«Sei così stupido. Lo ero anche io alla tua età. Ma capirai, e proverai a cercare vendetta, in questa vita o nell'altra, così come ho fatto io. È scritto nel nostro destino. Tu impedirai al figlio di Re Boran di distruggere questo Paese!» farfugliò, riuscendo a stento a tenere gli occhi aperti. Le guardie dovevano solo risalire l'ultima rampa di scale prima di raggiungerli.

«Cosa diamine vai farneticando, vecchio pazzo? Io? Uccidere il principe dei Valar? Spezzare in base alle tue follie la salda amicizia che ci lega? Sentiamo: perché mai dovrei farlo?»

«Per riprenderti ciò che ti spetta di diritto... qualcosa che appartiene alla tua famiglia da generazioni... Il trono di Westuria!» rivelò.

«Esageri, inetto. La morte possa coglierti rapidamente, prima che i tuoi deliri rischino turbare il Regno. Sei e rimani un vecchio mozzo che racconta favole. Quale storia vuoi narrarmi ora, quella del tuo passato? Sei forse un antico cavaliere?» chiese sarcasticamente, facendo spallucce. Odiava sentirlo arrancare mentre tentava di prendersi gioco di lui. L'aveva cresciuto sin da bambino, inoltrandolo ai lavori di mare, ma non provava pena per la sua morte, né tanto meno felicità. Era immeritevole delle sue emozioni.

«No, ti racconterò la verità... Io... Io sono... Galdren di Westuria, Capitano della Gorgo dei Mari, Erede al trono di Westuria, discendente da Amorth, unico vero Re della Capitale!... Io... Io sono tuo padre, Lucky!» svelò il vecchio con l'ultimo respiro che aveva in corpo.

 

«L'ha detto sul serio? Devo rileggere, forse mi sono sbagliato. No, è proprio così... Che RIVELAZIONE!» esclamò sarcasticamente John, lasciando cadere svogliatamente la pila di fogli ancora caldi. Si stiracchiò e gettò un occhio sul portatile – 14.08 – l'orario di chiusura era ancora lontano. «Morirò di questo passo. Ho bisogno di un caffè!» borbottò.

Da quando era stato assegnato, un po' per la sua innata rapidità di lettura, un po' per fortuna, alla valutazione dei manoscritti, aveva iniziato ad abusare di quella bevanda. Passava ore ed ore fra innumerevoli e calde pagine, a spulciare manoscritti alla ricerca del prossimo talento, imbattendosi purtroppo in tutto e di più.

L'originalità scadeva, e sempre più erano le opere zeppe di errori grammaticali – o meglio orrori – e sbatteva contro trame che non avevano né capo né coda.

Lavorare nel campo dell'editoria era sempre stato il suo sogno, ma ora che c'era dentro non era tutto rose e fiori come aveva creduto. Scambiò qualche svogliata parola con Andrea, la ragazza delle consegne; anche lei sembrava essere l'ennesima aspirante scrittrice.

Qualche settimana addietro le aveva promesso che avrebbe letto il suo manoscritto – un giallo dalla trama strampalata – ma aveva finito per dimenticarlo in chissà quale angolo del suo ufficio, sotto la pila di scatoloni colmi di CD contenenti i file dei tanti aspiranti arrivati in redazione. Riuscì a scrollarsi di dosso la ragazza grazie ad una chiamata, ma si amareggiò per dover ingurgitare quella bevanda fredda.

Si chiuse nuovamente nel proprio studio. Il capo della baracca l'aveva avvisato che nuova merce sarebbe arrivata di lì a breve, dunque sapeva che avrebbe dovuto sbrigarsi. Gettatosi pesantemente sulla sua poltrona, adagiati i piedi sulla scrivania e soffocato un rumoroso sbadiglio, decise di rimettersi a lavoro.

   
 
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