Absence-that
common cure of love
Secondo capitolo: Victoria Lyndon Price
«I swear 'tis better to be much
abused than but to know 't a little[1]».
William
Shakespeare,
Othello
Una
tazzina rotta in casa Price era un nonnulla.
A
volte il rumore della ceramica in frantumi suonava come un buon
auspicio: la
settimana non cominciava bene se qualche pezzo del servizio buono non
volava
per terra. Di solito era un rituale mattutino e le tazze erano le
vittime
predilette.
All’occorrenza
ci si accontentava anche di un bicchiere o di un piattino per
antipasto. Le
posate non davano la stessa soddisfazione. In un paio di occasioni
avevano
assaggiato il piacere di colpire la parete della sala da pranzo, ma
loro – bastarde
– rimanevano intatte e ciò non
era di alcun sollievo per la povera signora Price.
Sì,
perché le tazzine in casa Price non cadevano semplicemente
sul pavimento,
venivano lanciate come palle da cricket contro ai muri. O meglio contro
la
figura dell’altrettanto povero signor Price che ormai era
diventato un vero
portento a schivarle, decretandone così
l’inevitabile scontro con l’intonaco.
Victoria
e Christopher non erano una coppia atipica, erano proprio mal
assortiti.
Costretti dalla sorte, puniti dalle circostanze, beffati dal loro
stesso
egoistico interesse.
Non
si amavano e non si erano mai amati.
Christopher
provava indifferenza nei confronti di sua moglie, malcelata da una
fredda
cortesia; Victoria avrebbe voluto attaccare la testa di suo marito al
muro come
un trofeo di caccia.
«Se
non la smetti, dovrai spiegare a tua madre che fine ha fatto il
servizio che ci
ha regalato per le nozze» l’avvisò
Christopher, impassibile come sempre.
«Che
cosa devo fare per cambiare la tua espressione? Correggere il
caffè con il
cianuro?» domandò tagliente lei, mentre si
ricomponeva sulla sedia.
«Quello
mi manderebbe di certo all’ospedale, se non direttamente al
cimitero. Cosa che,
ne sono sicuro, ti procurerebbe un immenso sollievo»
replicò suo marito
piegando a metà il giornale che stava leggendo e poggiandolo
accanto a sé sul
tavolo.
Victoria
gettò un’occhiata velenosa a quelle pagine
grigiastre coperte d’inchiostro.
Discussioni
come quella erano la regola di mattina a casa Price e la colpa era da
imputare
a quel dannato ammasso di carta da riciclo.
Una
sola cosa Victoria odiava in suo marito più della sua calma
disinteressata: il
fatto che avesse un’opinione su tutto e che non riuscisse mai
a tenerla per sé.
Le
notizie riportate sul quotidiano erano, di norma, un ottimo spunto per
elargire
i suoi pareri assolutamente non
richiesti.
Come
se non bastasse, si trattava di riflessioni molto intelligenti e
sensate, tanto
che Victoria spesso si trovava costretta a condividerle, ma questo non
lo
avrebbe ammesso ad alta voce nemmeno sotto tortura.
Allora
si metteva a controbattere ogni singola parola, giusto per dargli un
fastidio,
per provare a scalfire quell’autocontrollo così
irritante e innaturale.
Christopher
non si lasciava ingannare e da perfetto gentleman le spiegava ogni
volta, punto
per punto, le sue ragioni in maniera così accurata e logica
– e snervante –
che Victoria finiva sempre
per brandire qualche ceramica nell’intento di zittirlo.
A
conti fatti, la psicopatica isterica era lei, con sua somma
frustrazione.
«Se
ti
uccidessi, nessuna giuria mi condannerebbe[2]»
osservò tagliente.
«Non
ne dubito. Cadi sempre in piedi con grazia, tu».
Christopher
non si scomponeva mai, nemmeno quando la sua dolce metà si
mostrava al meglio
della sua cattiveria. Non le aveva mai risposto male, mai insultata,
mai
mortificata. In tutte le sue repliche c’era qualcosa di
delicato e puro,
sinceramente cristallino, per niente inquinato.
Per
Victoria quello rappresentava il principale problema di comunicazione:
lui era
troppo innocente, a differenza sua.
Eppure
a volte aveva il sospetto che Christopher, in una sorta di spinta
inconscia,
sentisse il desiderio di insinuare qualcosa, come uno spiacevole
ricordo o un
rancore che ogni tanto riaffiorava.
Quando
percepiva certe tracce, Victoria rimaneva ad aspettare speranzosa che
l’uomo
scoppiasse. Attesa vana, fino a quel momento.
«Ti
vedi con Sully oggi?» gli chiese, cambiando del tutto
discorso.
«No,
è impegnato con lo studio» le disse «Ho
un pranzo di lavoro con tuo padre.
Dobbiamo discutere la gestione di una nuova unità
produttiva».
Si
rese conto di aver toccato un tasto dolente non appena finì
di parlare.
Victoria gli lanciò un’occhiata di fuoco e poi
distolse lo sguardo,
infastidita.
«Perché
non ti unisci a noi?» la invitò, augurandosi che
la proposta facesse piacere.
«No
ti ringrazio» rifiutò lapidaria «Non
vorrei mai intromettermi nelle vostre
riunioni segrete. Scommetto che lo stupirai con una delle tue
intuizioni
rivoluzionarie», la sua voce graffiava ogni parola, palesando
volontariamente
il disprezzo dietro quella sorta di complimento.
«E
poi ho già un impegno con Adele a mezzogiorno. Vuole
presentarmi un suo amico.
Non posso rimandare: riparte domani per la Francia».
Alle
orecchie di un qualunque uomo quella affermazione sarebbe parsa priva
di
malizia, ma con Victoria niente era come in effetti sembrava e
Christopher era
perfettamente consapevole che un semplice incontro poteva celare
molteplici
significati se sua moglie era implicata.
Dopo
l’uscita incauta riguardo suo padre e l’azienda,
quella frase acquisiva proprio
il senso che qualsiasi marito non avrebbe mai ignorato.
Fortunatamente,
Christopher si riteneva ben lontano dall’ideale tipico di
sposo e, sebbene
fosse ben deciso ad assolvere comunque i suoi doveri e a mantenere le
sue promesse
coniugali, non poteva pretendere che Victoria facesse altrettanto.
Il
che a onor del vero, neppure gli interessava molto.
«È il caso che vada. Credo
che stiano facendo
dei lavori alla Central Line e il giro sarà più
lungo» annunciò. Prese la
cartella appoggiata alla gamba del tavolo e dopo un cordiale saluto, si
diresse
verso la porta.
«Di’
ciao a papà da parte mia» gli urlò
Victoria «E nel caso decidessi di farla
finita, ricordati che nella Jubilee[3]
hanno messo le barriere anti suicidio, quindi attrezzati
diversamente» gli
consigliò, ansiosa di dimostrargli tutto il suo affetto.
Non
appena udì il rumore dell’uscio chiudersi, il
finto sorriso le sparì dal viso.
Se
fosse andata avanti così lo avrebbe ammazzato o lui avrebbe
ammazzato lei con i
suoi atteggiamenti al limite della noia mortale. Victoria non ci teneva
né a
finire nella tomba, né in galera.
Anche
se doveva ammettere di essere già in un certo senso in
prigione. Dorata certo,
ma pur sempre una gabbia rimaneva.
Benché
fosse più che determinata a liberarsi da quel matrimonio,
sapeva che per lei
non esistevano vie di fuga; almeno non nell’immediato futuro.
Ricordava
ancora quando sua madre aveva sganciato la bomba.
Le
dieci e mezza di un giovedì sera
piovoso e freddo.
Victoria
aveva avvisato che non sarebbe
tornata per cena e Irene Lyndon aveva pazientemente atteso il rientro
della
figlia maggiore. Non era mai stata una ragazza tranquilla, ma
nell’ultimo
periodo aveva preso brutte abitudini, per non parlare delle compagnie
che si
era messa a frequentare: bande di perditempo senza un briciolo di
volontà di
combinare qualcosa delle loro vite.
Victoria
era sempre stata l’opposto:
ambiziosa e determinata a dimostrare il suo valore. Non aveva niente a
che
spartire con quelli e Irene ancora non capiva come potesse tollerare la
loro
indolente presenza.
Incredibilmente
la serratura della
porta di casa scattò prima del previsto.
Irene
aveva già messo in conto di dover
aspettare buona parte della notte e invece sua figlia era comparsa a un
orario
decente.
«Mamma?»
si stupì la ragazza «Che cosa
ci fai qui, all’ingresso e al buio?»
«Ti
aspettavo».
«Davvero?
Ti mancavano i tempi delle
superiori quando rimanevi in piedi per accertarti che rincasassi tutta
intera?»
«Ho
l’impressione che mancheranno
presto anche a te» mormorò la madre visibilmente
agitata «Ho visto Sybil Price
a pranzo. Da Weston» raccontò con voce
più squillante.
Victoria
si scrollò la giacca di dosso
e guardò la donna in attesa che continuasse. Non era molto
interessata, ma non
c’era modo d’interrompere sua madre quando
cominciava.
«Mi
ha parlato di Christopher. Ti
ricordi di Christopher?»
Il
tono acuto nascondeva ben altre
insinuazioni: Irene era convinta che sua figlia e il rampollo dei Price
avessero avuto una storia anni prima, al college.
Victoria
non aveva avuto il cuore di
dirle che si era trattata solo di una notte di sesso, trainata da un
gran
consumo d’alcol che aveva provocato un drastico calo delle
inibizioni,
soprattutto in Christopher.
«So
che ha rifiutato un posto
nell’albergo per fare esperienza altrove» disse
Victoria distrattamente.
Irene
prese un bel respiro e continuò
«Purtroppo gli affari non stanno andando bene per i Price.
Sembra che saranno
costretti a vendere o almeno è quello che sostiene
Sybil».
«Mi
dispiace» commentò Victoria con
falsa preoccupazione.
«Tuo
padre pensava di dare un posto a
Christopher nella nostra azienda. Per aiutarli».
«Mi
pare un’ottima idea» replicò la
giovane. Non aveva la minima idea di dove volesse parare quel discorso
e
sperava di cavarsela con risposte brevi e contentini.
«Un
posto come amministratore delegato»
svelò Irene a bruciapelo.
Le
orecchie di Victoria si drizzarono
all’improvviso: la questione si era appena fatta cruciale.
«Ma
solo un membro della famiglia può
ricoprire quella carica. È sempre stato
così» obiettò.
Irene
non fiatò. Si limitò a guardare
la figlia di sottecchi, tenendo la testa bassa.
La
bomba sarebbe esplosa da lì a poco.
Giusto il tempo per Victoria di elaborare le informazioni.
Ci
mise meno del previsto: i suoi occhi
fiammeggiarono mentre realizzava il significato di quelle parole.
Partì
con passo spedito verso una delle
stanze adiacenti al grande salone. Aprì la porta con una
spinta e la mandò a
sbattere contro la parete.
«Non
ne hai il diritto» urlò con un
dito puntato di fronte a sé.
Un
uomo sulla sessantina alzò lo
sguardo dall’agenda poggiata sulla scrivania, per poi
spostarlo sull’orologio
accanto.
«A
casa prima delle tre e sobria? È
morto qualcuno?» chiese quasi speranzoso.
«Non
hai alcun diritto di dare la
carica di amministratore delegato a Christopher Price»
ripeté ignorando la
domanda sarcastica del padre.
«Christopher
si è laureato a pieni
voti, ha un ottimo curriculum. È serio, meticoloso. Ha idee
geniali» lo elogiò
l’uomo.
«Quella
posizione è di Peter. Lo hai
cresciuto per questo» gli ricordò Victoria.
«A
tuo fratello interessa solo avere i
soldi per continuare a godersi la vita. Non è adatto. Io sto
andando in
pensione e devo valutare il candidato migliore».
«Allora
scegli me!» lo pregò «Sono
brava e mi sono impegnata per anni. Ho solo bisogno di una
possibilità».
«Vicky,
non sono soltanto io a
decidere. Abbiamo votato».
«Al
diavolo il consiglio. Sei il
maggiore azionista: l’azienda è tua».
«Ne
abbiamo già parlato» ribadì
stancamente lui.
«È
perché sono femmina, vero?» si inalberò
la ragazza «So che avresti voluto che il tuo primogenito
fosse maschio, ma sono
nata io! Non puoi continuare a punirmi perché sono uscita
del sesso sbagliato».
«Sei
irresponsabile e incostante» tuonò
l’uomo deciso a mettere una pietra sopra a
quell’argomento una volta per tutte
«Un attimo sei la figlia perfetta e un secondo dopo frequenti
gentaglia, torni
a orari improponibili ogni notte, vieni continuamente fotografata in
pose
discutibili, ubriaca. Pensi che questo faccia stare tranquilli gli
investitori?
La tua unica ambizione è soddisfare te stessa».
Victoria
s’impose di non arretrare e
soprattutto di non mostrare la delusione e il dispiacere per quelle
parole.
«Credi
che quel pezzo di legno di
Christopher Price possa salvare l’azienda?» chiese
con voce controllata «Be’,
fa’ pure. Ma non userai me come merce di scambio».
Aveva
capito subito quale fosse l’idea
di suo padre: l’unico modo per rendere Christopher parte
della famiglia, e
quindi candidabile per la carica di amministratore, era un matrimonio
combinato.
«Non
ti sto dicendo di sposarlo domani
mattina. Potresti sforzarti di conoscerlo. Ti farebbe solo bene una
persona
come lui».
«Cedi
l’azienda ai Price, vendila,
bruciala. Per quel che mi riguarda non esiste più. e
scordati che io lo sposi!»
gridò istericamente uscendo dallo studio come una furia.
Irene
era rimasta sulla soglia e aveva
assistito alla litigata. Arricciò le labbra e si
staccò dallo stipite della
porta con una mossa elegante.
«È
andata piuttosto bene» considerò «Mi
aspettavo che ti cavasse gli occhi con il tagliacarte».
Victoria
aveva fatto le valigie e se n’era andata di casa quella sera
stessa.
Dopo
tre mesi era ritornata con la coda tra le gambe, acconsentendo a quello
stupido
matrimonio di convenienza.
I
suoi genitori non avevano capito quel cambio di idea così
repentino, ma non
avevano nemmeno indagato troppo.
Quanto
a lei, più volte si era pentita di non aver resistito
più a lungo, non essere
stata più forte e malediceva la sua determinazione venuta
meno proprio nel
momento meno opportuno.
Alla
fine, le sue mire egoistiche avevano prevalso. L’istinto di
sopravvivenza
l’aveva spinta al punto di rinunciare a tutto pur di
conservare un minimo di
dignità, perché il nome della sua famiglia valeva
questo e altri sacrifici.
E
forse, inconsciamente, aveva cercato ancora una volta di accontentare
suo
padre.
Non
poteva fare a meno di ambire alla sua approvazione, che tanto le era
stata
negata. Aveva provato a scappare, ribellarsi, fregarsene e alla fine
era
ritornata sempre lì.
August
Lyndon non era nemmeno così un sessista come lei lo
dipingeva: non aveva mai
nascosto di desiderare un maschio come primogenito, un maschio che
portasse
avanti il cognome e l’eredità dei Lyndon, che si
occupasse dell’azienda, ma non
si era neppure strappato i capelli quando all’ospedale gli
avevano detto che
sua moglie aveva partorito una bambina; anzi, come ogni padre che si
rispettasse, aveva trattato la sua adorata figliola come una
principessa.
Quattro
anni dopo era nato Peter e Victoria si era improvvisamente ritrovata
non più al
centro dell’attenzione. Aveva subito compreso che suo
fratello le avrebbe
rubato i riflettori in un modo o nell’altro. Non aveva,
tuttavia, mai serbato rancore
nei confronti di Peter; gli voleva troppo bene.
Tutta
la rabbia provocata dalla gelosia era stata incanalata contro suo
padre, contro
quell’uomo che, senza dirlo mai ad alta voce, aveva sempre
favorito Peter per
qualunque cosa collegata all’azienda.
Arrivato
alle scuole superiori, era stato chiaro che Peter non avesse la stoffa
del vero
leader o meglio che non avesse alcun interesse a diventarlo. A quel
punto
Victoria, prima della classe per anni, si era iscritta a economia e si
era
laureata con lode, conseguendo anche due master.
August
si era congratulato e l’aveva spronata a continuare per
quella strada, ma non
si era mai sbilanciato su un possibile futuro per lei nei panni di capo
dell’impresa.
Poi
era arrivata la doccia gelata con la nomina di Christopher Price. Non
aveva mai
perdonato suo padre per quell’affronto. Poco importava che le
avesse offerto un
posto nel consiglio e poco importava che le sue motivazioni fossero
vere:
Victoria sapeva essere incostante, permalosa e irresponsabile,
capricciosa ed
egoista. Caratteristiche non propriamente adatte a una posizione di
rilievo.
Per
quanto la riguardava, l’unica discriminante possibile
consisteva nel suo essere
nata femmina e questa convinzione radicata era ormai divenuta
più una scusa
dietro cui nascondere i suoi insuccessi e insoddisfazioni.
Ciliegina
sulla torta: aveva sposato l’uomo che le aveva soffiato il
posto.
Un
uomo che a suoi occhi era carceriere e rivale. Un uomo che Victoria
considerava
pedante, monotono e saccente. Un signor Perfettini capace
d’irritarla con la
sua sola presenza. Un continuo promemoria di quanto lei non fosse
abbastanza.
Per
questo aveva insistito per conservare il suo vecchio cognome assieme a
quello
nuovo: per rimarcare ancora una volta la distanza da quel marito che le
era
estraneo.
Victoria
era una Lyndon, non una Price e tutto lo dovevano tenere bene a mente.
Soprattutto i poveri camerieri dei suoi ristoranti abituali che, dopo
le nozze,
erano stati malamente ripresi per averla chiamata signora
Price, dimenticandosi il Lyndon.
L’ennesima
trovata per sottolineare il suo status di donna indipendente, senza
accorgersi
di rimanere comunque legata, in tal modo, a quel padre che le aveva
rovinato la
vita.
«Dannato
despota, megalomane e maschilista» berciò ad alta
voce.
Dall’altro
lato del tavolo, Adele Foster si sporse oltre il menù e
sbirciò la sua amica
intenta ancora a imprecare.
«Sei
inquietante quando parli da sola» le fece notare.
Victoria
spostò la lista dal suo volto e sbuffò
«Scusami, pensavo a mio padre».
«Despota,
megalomane e maschilista? Sì, l’avevo
intuito».
«È
una descrizione che calza a pennello» osservò
Victoria «D’altronde che cosa
potevo aspettarmi da uno che porta il nome del dittatore più
furbo della
storia?»
«Augusto?
Non è l’imperatore che ha riportato la pace a
Roma?»
«Primus inter pares. Senato di facciata:
tutti uguali, lui un pochino meglio» recitò
Victoria come una perfetta studentesca.
«Hai
sempre la tendenza a esagerare le cose» minimizzò
Adele «Tuo padre ha solo
eseguito i voleri di tuo nonno: nel testamento c’era scritto
che proprietà e
gestione dovevano rimanere in famiglia o sbaglio?»
«Da
che parte stai?» s’indignò Victoria
«Io e Peter siamo la famiglia. Mio nonno
aveva scritto quella clausola per salvaguardare i nostri diritti. Aveva
già
capito che razza di stronzo fosse suo figlio».
«E
allo stronzo, io ordinerei» cambiò velocemente
argomento Adele.
«Non
aspettiamo il tuo amico?» chiese Victoria.
«Mi
ha scritto che è un po’ in ritardo e di cominciare
pure senza di lui» la
informò «A proposito di amici, ho visto Jeff
Connelly ieri pomeriggio e
sembrava piuttosto arrabbiato con te. C’è qualcosa
che mi devi dire?»
«Non
molto» ammise Victoria mentre studiava la carta dei vini
«Si sarà arrabbiato
proprio perché non è successo nulla, suppongo.
Oppure è per la faccenda del
balcone».
Adele
la guardava incuriosita e divertita, domandole tacitamente spiegazioni.
«Si
è dovuto nascondere sul balcone per non farsi scoprire da
Christopher. È
tornato a casa prima del previsto»
l’accontentò Victoria «Precauzione
inutile
dato che si è dimenticato la giacca in bella
vista».
Adele
si mise una mano sulla bocca esibendo una smorfia scioccata
«Christopher se n’è
accorto? E come ha reagito?»
«Non
ha fatto una piega, come al solito. Gli ho detto che Geoffrey era
passato per
un saluto e lui ha educatamente finto che fosse stata una visita
innocente.
Perché si dovrebbe preoccupare che sua moglie incontri un
altro uomo nella sua
camera da letto privata?» commentò ironicamente.
«Tuo
marito è un santo».
«Non
ha spina dorsale» replicò Victoria
«Preferisce coprirsi occhi, bocca e orecchie
piuttosto che litigare o perdere il suo prezioso autocontrollo. Se vede
uno
scandalo, corre dalla parte opposta. È uno smidollato e
sarò costretta a
sopportarlo finché morte non ci separi. E se andiamo avanti
così, probabilmente
si tratterà della sua per omicidio, o della mia per
suicidio».
«Esagerata»
ribadì Adele «Aspetta, la tua camera non ha un
balcone!»
Prima
che Victoria si potesse lanciare in quel ridicolo racconto di Jeff a
penzoloni
sul cornicione, un uomo di bella presenza e vestito elegantemente si
fermò al
loro tavolo.
Adele
lo riconobbe e sorrise «Oh, hai fatto in fretta!»
si stupì, per poi rivolgersi
all’altra donna «Vicky, questo è il mio
amico Mathieu» li presentò.
Victoria
piegò le labbra all’insù e gli porse la
mano.
La
giornata era appena diventata molto più godibile.
Christopher
perlustrò guardingo l’ingresso di casa sua e il
corridoio che portava fino al
salone principale: percepiva qualcosa di diverso nell’aria.
Tutte
le stanze si presentavano apparentemente silenziose e buie. Victoria
non gli
era ancora corsa in contro, urlandogli addosso che era in ritardo per
la cena.
Volubile
com’era, probabilmente aveva deciso di andare a mangiare
fuori, ma normalmente
lo avvisava sempre, per lo meno per dargli fastidio.
Il
suo cellulare non registrava nessun messaggio.
Erano
le otto e mezza passate e Eloise aveva finito il turno di lavoro. In
casa
rimaneva solamente Betty, la cuoca che lavorava per loro da quando si
erano
sposati.
Christopher
corrugò la fronte quando accese la luce e scoprì
che la cucina era vuota e
perfettamente pulita come se non fosse stata usata.
«Uso
un attimo il bagno» gli urlò dall’altra
stanza Tachery.
Christopher
non rispose e si diresse nell’ala dell’appartamento
riservata a Betty. Dovette
bussare alla porta due volte prima che la cuoca aprisse.
Nel
vederlo quasi le prese un infarto, si strinse la vestaglia addosso
imbarazzata
e si sistemò i capelli «Signor Price»
balbettò «Mi scusi, non pensavo che
avesse bisogno di me. La signora mi aveva detto che questa sera non era
necessario preparare la cena. Sono davvero desolata di presentarmi
così».
Cristopher
alzò la mano per fermarla prima che si prostrasse in cerca
di perdono. Betty
Wheeler era una donna molto all’antica, ancora legata allo
stile di servizio
degli anni in cui aveva imparato la professione.
Gran
rispetto per il datore di lavoro, massimo decoro nel mostrarsi in
pubblico.
«Non
si preoccupi, signora Wheeler» e Christopher non era da meno
nelle regole delle
cortesia «Cercavo mia moglie».
«Oh,
è uscita questo pomeriggio tardi e mi ha avvisato che non ci
sareste stati per
cena questa sera».
Christopher
sorvolò sull’ennesimo scherzetto della sua dolce
consorte e ringraziò la cuoca,
congedandola con un sorriso.
«Aspetti
signor Price» lo richiamò «Se ha un
attimo di pazienza, mi cambio e vengo a
cucinarle qualcosa» si premurò.
«Sono
qui con Tachery Sullivan. Siamo due uomini adulti, possiamo
arrangiarci. Mi
dispiace molto di averla disturbata».
«Nessun
disturbo, signor Price. Se ha bisogno, non esiti a chiamarmi».
Cristopher
le augurò la buona notte e ritornò sui suoi
passi, piuttosto seccato. Anche la
sua pazienza aveva un limite: non lo infastidiva che Victoria vivesse
la sua
vita come riteneva più opportuno, ma non capiva la
necessità di quelle
scaramucce infantili che di solito lo facevano apparire come un allocco.
Ammirava
la personalità combattiva e irruente di sua moglie, non
pretendeva di
cambiarla; disiderava solo un po’ di maturità. Non
era l’unica bloccata in quel
matrimonio. Anche lui aveva sacrificato molto e soprattutto aveva
buttato giù
certi bocconi amari che gli provocavano ancora brividi di vergogna.
Si
rifugiò nel suo studio per calmarsi e ricomporsi. Fu
sedendosi alla scrivania
che notò una busta bianca sulla superficie in legno.
Al
suo interno vi era una lettera. Christopher la estrasse e lesse
inizialmente
curioso e poi sempre più perplesso.
Quasi
al termine della lettura, Tachery entrò nello studio e si
spaparanzò sulla
sedia dall’altro lato della scrivania «Allora,
dov’è la strega cattiva del West
End[4]?»
domandò stiracchiando le gambe per poi appoggiare i piedi
sul tavolo.
In
casi normali Christopher gli avrebbe intimato di tirare via le gambe
dalla
scrivania, ma in quel momento era talmente basito che non si sarebbe
accorto
nemmeno se il pavimento sotto di lui fosse crollato.
«Non
qui» rispose.
«Bene,
spero torni il più tardi possibile. Non ho voglia
d’incrociarla».
«Non
penso correrai il rischio. Victoria è partita per Parigi
questo pomeriggio»
spiegò porgendogli il foglio.
Tachery
si mise a sedere e prese la lettera «Chi diavolo è
questo Mathieu?» si stranì
non appena lesse il nome.
«Un
amico di Adele. Victoria lo ha conosciuto oggi a pranzo e pare
l’abbia invitata
a casa sua in Francia. Sarebbe stato scortese rifiutare» e
citò le ultime
parole.
«Sì,
questo lo dice anche lei» confermò esterrefatto
Tachery arrivato alla fine
della lettera «Quindi tua moglie è scappata in un
altro continente».
«Per
una settimana o due» annuì Christopher senza
cambiare espressione «Immagino che
Eloise avrà più tempo libero in questi
giorni».
«Penso
di non aver mai visto un uomo tradito più tranquillo di
te» commentò Tachery
che appariva parecchio più scosso di Christopher.
«Almeno
non mi crogiolo nel dubbio. Come vedi, mia moglie ha preso molto sul
serio il
voto di sincerità che ha pronunciato due anni fa».
«Bene,
possiamo tirare un sospiro di sollievo. Malefica
è finalmente volata oltreoceano e ci ha servito su
un piatto d’argento la
carta per la separazione. Chiamo subito mio padre per scrivere la
lettera.
Amico mio, tra qualche giorno sarai un uomo libero».
Il
mio spazio:
Ecco
il secondo capitolo della mia storia.
So
che potrebbe sembrare strano parlare di un matrimonio combinato ai
giorni
nostri, ma le motivazioni che hanno portato a questo risultato verranno
via via
spiegate nel corso dei capitoli.
Ringrazio
immensamente chi ha commentato e inserito la storia tra le
seguite/preferite.
Spero
di leggere i vostri pareri nelle recensioni!
Alla
prossima,
Sissi
Bennett.
[1]
«Giuro che
è meglio essere tradito
che saperlo sì e no»
[2]
Questa
battuta e in
generale la scena del lancio delle ceramiche è tratta dal
primo episodio della
serie Parade’s End della
BBC.
[3] Central e Jubilee
Line
sono due vere linee della metropolitana londinese.
[4]
West End è
una zona di Londra.