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Autore: Sissi Bennett    17/04/2015    2 recensioni
«Questa tua costanza è assurda. Perché ti ostini a rimanere fedele a quell’arpia di tua moglie?»
«Parola chiave: mia moglie»
«Il vostro matrimonio è stato praticamente combinato, è una farsa. Tu non sei felice con lei. Che c’è di male a concedersi una piccola distrazione?»
«Chiamami antiquato, ma considero il matrimonio ancora una cosa seria, un atto di responsabilità. Non ho intenzione di rimangiarmi la parola e i miei principi per una distrazione».
«Discorso sensato se fossi innamorato di lei».
«Non sono neanche innamorato di nessun’altra. Non romperò la mia promessa se non ne varrà la pena».
[...]
Victoria e Christopher non erano una coppia atipica, erano proprio mal assortiti. Costretti dalla sorte, puniti dalle circostanze, beffati dal loro stesso egoistico interesse.
Non si amavano e non si erano mai amati.
Christopher provava indifferenza nei confronti di sua moglie, malcelata da una fredda cortesia; Victoria avrebbe voluto attaccare la testa di suo marito al muro come un trofeo di caccia.
Genere: Angst | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Absence-that common cure of love

 

 

 

 

 

Secondo capitolo: Victoria Lyndon Price

 

«I swear 'tis better to be much abused than but to know 't a little[1]».

William Shakespeare, Othello

 

Una tazzina rotta in casa Price era un nonnulla.

A volte il rumore della ceramica in frantumi suonava come un buon auspicio: la settimana non cominciava bene se qualche pezzo del servizio buono non volava per terra. Di solito era un rituale mattutino e le tazze erano le vittime predilette.

All’occorrenza ci si accontentava anche di un bicchiere o di un piattino per antipasto. Le posate non davano la stessa soddisfazione. In un paio di occasioni avevano assaggiato il piacere di colpire la parete della sala da pranzo, ma loro – bastarde – rimanevano intatte e ciò non era di alcun sollievo per la povera signora Price.

Sì, perché le tazzine in casa Price non cadevano semplicemente sul pavimento, venivano lanciate come palle da cricket contro ai muri. O meglio contro la figura dell’altrettanto povero signor Price che ormai era diventato un vero portento a schivarle, decretandone così l’inevitabile scontro con l’intonaco.

Victoria e Christopher non erano una coppia atipica, erano proprio mal assortiti. Costretti dalla sorte, puniti dalle circostanze, beffati dal loro stesso egoistico interesse.

Non si amavano e non si erano mai amati.

Christopher provava indifferenza nei confronti di sua moglie, malcelata da una fredda cortesia; Victoria avrebbe voluto attaccare la testa di suo marito al muro come un trofeo di caccia.

«Se non la smetti, dovrai spiegare a tua madre che fine ha fatto il servizio che ci ha regalato per le nozze» l’avvisò Christopher, impassibile come sempre.

«Che cosa devo fare per cambiare la tua espressione? Correggere il caffè con il cianuro?» domandò tagliente lei, mentre si ricomponeva sulla sedia.

«Quello mi manderebbe di certo all’ospedale, se non direttamente al cimitero. Cosa che, ne sono sicuro, ti procurerebbe un immenso sollievo» replicò suo marito piegando a metà il giornale che stava leggendo e poggiandolo accanto a sé sul tavolo.

Victoria gettò un’occhiata velenosa a quelle pagine grigiastre coperte d’inchiostro.

Discussioni come quella erano la regola di mattina a casa Price e la colpa era da imputare a quel dannato ammasso di carta da riciclo.

Una sola cosa Victoria odiava in suo marito più della sua calma disinteressata: il fatto che avesse un’opinione su tutto e che non riuscisse mai a tenerla per sé.

Le notizie riportate sul quotidiano erano, di norma, un ottimo spunto per elargire i suoi pareri assolutamente non richiesti.

Come se non bastasse, si trattava di riflessioni molto intelligenti e sensate, tanto che Victoria spesso si trovava costretta a condividerle, ma questo non lo avrebbe ammesso ad alta voce nemmeno sotto tortura.

Allora si metteva a controbattere ogni singola parola, giusto per dargli un fastidio, per provare a scalfire quell’autocontrollo così irritante e innaturale.

Christopher non si lasciava ingannare e da perfetto gentleman le spiegava ogni volta, punto per punto, le sue ragioni in maniera così accurata e logica – e snervante – che Victoria finiva sempre per brandire qualche ceramica nell’intento di zittirlo.

A conti fatti, la psicopatica isterica era lei, con sua somma frustrazione.

«Se ti uccidessi, nessuna giuria mi condannerebbe[2]» osservò tagliente.

«Non ne dubito. Cadi sempre in piedi con grazia, tu».

Christopher non si scomponeva mai, nemmeno quando la sua dolce metà si mostrava al meglio della sua cattiveria. Non le aveva mai risposto male, mai insultata, mai mortificata. In tutte le sue repliche c’era qualcosa di delicato e puro, sinceramente cristallino, per niente inquinato.

Per Victoria quello rappresentava il principale problema di comunicazione: lui era troppo innocente, a differenza sua.

Eppure a volte aveva il sospetto che Christopher, in una sorta di spinta inconscia, sentisse il desiderio di insinuare qualcosa, come uno spiacevole ricordo o un rancore che ogni tanto riaffiorava.

Quando percepiva certe tracce, Victoria rimaneva ad aspettare speranzosa che l’uomo scoppiasse. Attesa vana, fino a quel momento.

«Ti vedi con Sully oggi?» gli chiese, cambiando del tutto discorso.

«No, è impegnato con lo studio» le disse «Ho un pranzo di lavoro con tuo padre. Dobbiamo discutere la gestione di una nuova unità produttiva».

Si rese conto di aver toccato un tasto dolente non appena finì di parlare. Victoria gli lanciò un’occhiata di fuoco e poi distolse lo sguardo, infastidita.

«Perché non ti unisci a noi?» la invitò, augurandosi che la proposta facesse piacere.

«No ti ringrazio» rifiutò lapidaria «Non vorrei mai intromettermi nelle vostre riunioni segrete. Scommetto che lo stupirai con una delle tue intuizioni rivoluzionarie», la sua voce graffiava ogni parola, palesando volontariamente il disprezzo dietro quella sorta di complimento.

«E poi ho già un impegno con Adele a mezzogiorno. Vuole presentarmi un suo amico. Non posso rimandare: riparte domani per la Francia».

Alle orecchie di un qualunque uomo quella affermazione sarebbe parsa priva di malizia, ma con Victoria niente era come in effetti sembrava e Christopher era perfettamente consapevole che un semplice incontro poteva celare molteplici significati se sua moglie era implicata.

Dopo l’uscita incauta riguardo suo padre e l’azienda, quella frase acquisiva proprio il senso che qualsiasi marito non avrebbe mai ignorato.

Fortunatamente, Christopher si riteneva ben lontano dall’ideale tipico di sposo e, sebbene fosse ben deciso ad assolvere comunque i suoi doveri e a mantenere le sue promesse coniugali, non poteva pretendere che Victoria facesse altrettanto.

Il che a onor del vero, neppure gli interessava molto.

«È  il caso che vada. Credo che stiano facendo dei lavori alla Central Line e il giro sarà più lungo» annunciò. Prese la cartella appoggiata alla gamba del tavolo e dopo un cordiale saluto, si diresse verso la porta.

«Di’ ciao a papà da parte mia» gli urlò Victoria «E nel caso decidessi di farla finita, ricordati che nella Jubilee[3] hanno messo le barriere anti suicidio, quindi attrezzati diversamente» gli consigliò, ansiosa di dimostrargli tutto il suo affetto.

Non appena udì il rumore dell’uscio chiudersi, il finto sorriso le sparì dal viso.

Se fosse andata avanti così lo avrebbe ammazzato o lui avrebbe ammazzato lei con i suoi atteggiamenti al limite della noia mortale. Victoria non ci teneva né a finire nella tomba, né in galera.

Anche se doveva ammettere di essere già in un certo senso in prigione. Dorata certo, ma pur sempre una gabbia rimaneva.

Benché fosse più che determinata a liberarsi da quel matrimonio, sapeva che per lei non esistevano vie di fuga; almeno non nell’immediato futuro.

Ricordava ancora quando sua madre aveva sganciato la bomba.

 

Le dieci e mezza di un giovedì sera piovoso e freddo.

Victoria aveva avvisato che non sarebbe tornata per cena e Irene Lyndon aveva pazientemente atteso il rientro della figlia maggiore. Non era mai stata una ragazza tranquilla, ma nell’ultimo periodo aveva preso brutte abitudini, per non parlare delle compagnie che si era messa a frequentare: bande di perditempo senza un briciolo di volontà di combinare qualcosa delle loro vite.

Victoria era sempre stata l’opposto: ambiziosa e determinata a dimostrare il suo valore. Non aveva niente a che spartire con quelli e Irene ancora non capiva come potesse tollerare la loro indolente presenza.

Incredibilmente la serratura della porta di casa scattò prima del previsto.

Irene aveva già messo in conto di dover aspettare buona parte della notte e invece sua figlia era comparsa a un orario decente.

«Mamma?» si stupì la ragazza «Che cosa ci fai qui, all’ingresso e al buio?»

«Ti aspettavo».

«Davvero? Ti mancavano i tempi delle superiori quando rimanevi in piedi per accertarti che rincasassi tutta intera?»

«Ho l’impressione che mancheranno presto anche a te» mormorò la madre visibilmente agitata «Ho visto Sybil Price a pranzo. Da Weston» raccontò con voce più squillante.

Victoria si scrollò la giacca di dosso e guardò la donna in attesa che continuasse. Non era molto interessata, ma non c’era modo d’interrompere sua madre quando cominciava.

«Mi ha parlato di Christopher. Ti ricordi di Christopher?»

Il tono acuto nascondeva ben altre insinuazioni: Irene era convinta che sua figlia e il rampollo dei Price avessero avuto una storia anni prima, al college.

Victoria non aveva avuto il cuore di dirle che si era trattata solo di una notte di sesso, trainata da un gran consumo d’alcol che aveva provocato un drastico calo delle inibizioni, soprattutto in Christopher.

«So che ha rifiutato un posto nell’albergo per fare esperienza altrove» disse Victoria distrattamente.

Irene prese un bel respiro e continuò «Purtroppo gli affari non stanno andando bene per i Price. Sembra che saranno costretti a vendere o almeno è quello che sostiene Sybil».

«Mi dispiace» commentò Victoria con falsa preoccupazione.

«Tuo padre pensava di dare un posto a Christopher nella nostra azienda. Per aiutarli».

«Mi pare un’ottima idea» replicò la giovane. Non aveva la minima idea di dove volesse parare quel discorso e sperava di cavarsela con risposte brevi e contentini.

«Un posto come amministratore delegato» svelò Irene a bruciapelo.

Le orecchie di Victoria si drizzarono all’improvviso: la questione si era appena fatta cruciale.

«Ma solo un membro della famiglia può ricoprire quella carica. È sempre stato così» obiettò.

Irene non fiatò. Si limitò a guardare la figlia di sottecchi, tenendo la testa bassa.

La bomba sarebbe esplosa da lì a poco. Giusto il tempo per Victoria di elaborare le informazioni.

Ci mise meno del previsto: i suoi occhi fiammeggiarono mentre realizzava il significato di quelle parole.

Partì con passo spedito verso una delle stanze adiacenti al grande salone. Aprì la porta con una spinta e la mandò a sbattere contro la parete.

«Non ne hai il diritto» urlò con un dito puntato di fronte a sé.

Un uomo sulla sessantina alzò lo sguardo dall’agenda poggiata sulla scrivania, per poi spostarlo sull’orologio accanto.

«A casa prima delle tre e sobria? È morto qualcuno?» chiese quasi speranzoso.

«Non hai alcun diritto di dare la carica di amministratore delegato a Christopher Price» ripeté ignorando la domanda sarcastica del padre.

«Christopher si è laureato a pieni voti, ha un ottimo curriculum. È serio, meticoloso. Ha idee geniali» lo elogiò l’uomo.

«Quella posizione è di Peter. Lo hai cresciuto per questo» gli ricordò Victoria.

«A tuo fratello interessa solo avere i soldi per continuare a godersi la vita. Non è adatto. Io sto andando in pensione e devo valutare il candidato migliore».

«Allora scegli me!» lo pregò «Sono brava e mi sono impegnata per anni. Ho solo bisogno di una possibilità».

«Vicky, non sono soltanto io a decidere. Abbiamo votato».

«Al diavolo il consiglio. Sei il maggiore azionista: l’azienda è tua».

«Ne abbiamo già parlato» ribadì stancamente lui.

«È perché sono femmina, vero?» si inalberò la ragazza «So che avresti voluto che il tuo primogenito fosse maschio, ma sono nata io! Non puoi continuare a punirmi perché sono uscita del sesso sbagliato».

«Sei irresponsabile e incostante» tuonò l’uomo deciso a mettere una pietra sopra a quell’argomento una volta per tutte «Un attimo sei la figlia perfetta e un secondo dopo frequenti gentaglia, torni a orari improponibili ogni notte, vieni continuamente fotografata in pose discutibili, ubriaca. Pensi che questo faccia stare tranquilli gli investitori? La tua unica ambizione è soddisfare te stessa».

Victoria s’impose di non arretrare e soprattutto di non mostrare la delusione e il dispiacere per quelle parole.

«Credi che quel pezzo di legno di Christopher Price possa salvare l’azienda?» chiese con voce controllata «Be’, fa’ pure. Ma non userai me come merce di scambio».

Aveva capito subito quale fosse l’idea di suo padre: l’unico modo per rendere Christopher parte della famiglia, e quindi candidabile per la carica di amministratore, era un matrimonio combinato.

«Non ti sto dicendo di sposarlo domani mattina. Potresti sforzarti di conoscerlo. Ti farebbe solo bene una persona come lui».

«Cedi l’azienda ai Price, vendila, bruciala. Per quel che mi riguarda non esiste più. e scordati che io lo sposi!» gridò istericamente uscendo dallo studio come una furia.

Irene era rimasta sulla soglia e aveva assistito alla litigata. Arricciò le labbra e si staccò dallo stipite della porta con una mossa elegante.

«È andata piuttosto bene» considerò «Mi aspettavo che ti cavasse gli occhi con il tagliacarte».

 

Victoria aveva fatto le valigie e se n’era andata di casa quella sera stessa.

Dopo tre mesi era ritornata con la coda tra le gambe, acconsentendo a quello stupido matrimonio di convenienza.

I suoi genitori non avevano capito quel cambio di idea così repentino, ma non avevano nemmeno indagato troppo.

Quanto a lei, più volte si era pentita di non aver resistito più a lungo, non essere stata più forte e malediceva la sua determinazione venuta meno proprio nel momento meno opportuno.

Alla fine, le sue mire egoistiche avevano prevalso. L’istinto di sopravvivenza l’aveva spinta al punto di rinunciare a tutto pur di conservare un minimo di dignità, perché il nome della sua famiglia valeva questo e altri sacrifici.

E forse, inconsciamente, aveva cercato ancora una volta di accontentare suo padre.

Non poteva fare a meno di ambire alla sua approvazione, che tanto le era stata negata. Aveva provato a scappare, ribellarsi, fregarsene e alla fine era ritornata sempre lì.

August Lyndon non era nemmeno così un sessista come lei lo dipingeva: non aveva mai nascosto di desiderare un maschio come primogenito, un maschio che portasse avanti il cognome e l’eredità dei Lyndon, che si occupasse dell’azienda, ma non si era neppure strappato i capelli quando all’ospedale gli avevano detto che sua moglie aveva partorito una bambina; anzi, come ogni padre che si rispettasse, aveva trattato la sua adorata figliola come una principessa.

Quattro anni dopo era nato Peter e Victoria si era improvvisamente ritrovata non più al centro dell’attenzione. Aveva subito compreso che suo fratello le avrebbe rubato i riflettori in un modo o nell’altro. Non aveva, tuttavia, mai serbato rancore nei confronti di Peter; gli voleva troppo bene.

Tutta la rabbia provocata dalla gelosia era stata incanalata contro suo padre, contro quell’uomo che, senza dirlo mai ad alta voce, aveva sempre favorito Peter per qualunque cosa collegata all’azienda.

Arrivato alle scuole superiori, era stato chiaro che Peter non avesse la stoffa del vero leader o meglio che non avesse alcun interesse a diventarlo. A quel punto Victoria, prima della classe per anni, si era iscritta a economia e si era laureata con lode, conseguendo anche due master.

August si era congratulato e l’aveva spronata a continuare per quella strada, ma non si era mai sbilanciato su un possibile futuro per lei nei panni di capo dell’impresa.

Poi era arrivata la doccia gelata con la nomina di Christopher Price. Non aveva mai perdonato suo padre per quell’affronto. Poco importava che le avesse offerto un posto nel consiglio e poco importava che le sue motivazioni fossero vere: Victoria sapeva essere incostante, permalosa e irresponsabile, capricciosa ed egoista. Caratteristiche non propriamente adatte a una posizione di rilievo.

Per quanto la riguardava, l’unica discriminante possibile consisteva nel suo essere nata femmina e questa convinzione radicata era ormai divenuta più una scusa dietro cui nascondere i suoi insuccessi e insoddisfazioni.

Ciliegina sulla torta: aveva sposato l’uomo che le aveva soffiato il posto.

Un uomo che a suoi occhi era carceriere e rivale. Un uomo che Victoria considerava pedante, monotono e saccente. Un signor Perfettini capace d’irritarla con la sua sola presenza. Un continuo promemoria di quanto lei non fosse abbastanza.

Per questo aveva insistito per conservare il suo vecchio cognome assieme a quello nuovo: per rimarcare ancora una volta la distanza da quel marito che le era estraneo.

Victoria era una Lyndon, non una Price e tutto lo dovevano tenere bene a mente. Soprattutto i poveri camerieri dei suoi ristoranti abituali che, dopo le nozze, erano stati malamente ripresi per averla chiamata signora Price, dimenticandosi il Lyndon.

L’ennesima trovata per sottolineare il suo status di donna indipendente, senza accorgersi di rimanere comunque legata, in tal modo, a quel padre che le aveva rovinato la vita.

«Dannato despota, megalomane e maschilista» berciò ad alta voce.

Dall’altro lato del tavolo, Adele Foster si sporse oltre il menù e sbirciò la sua amica intenta ancora a imprecare.

«Sei inquietante quando parli da sola» le fece notare.

Victoria spostò la lista dal suo volto e sbuffò «Scusami, pensavo a mio padre».

«Despota, megalomane e maschilista? Sì, l’avevo intuito».

«È una descrizione che calza a pennello» osservò Victoria «D’altronde che cosa potevo aspettarmi da uno che porta il nome del dittatore più furbo della storia?»

«Augusto? Non è l’imperatore che ha riportato la pace a Roma?»

«Primus inter pares. Senato di facciata: tutti uguali, lui un pochino meglio» recitò Victoria come una perfetta studentesca.

«Hai sempre la tendenza a esagerare le cose» minimizzò Adele «Tuo padre ha solo eseguito i voleri di tuo nonno: nel testamento c’era scritto che proprietà e gestione dovevano rimanere in famiglia o sbaglio?»

«Da che parte stai?» s’indignò Victoria «Io e Peter siamo la famiglia. Mio nonno aveva scritto quella clausola per salvaguardare i nostri diritti. Aveva già capito che razza di stronzo fosse suo figlio».

«E allo stronzo, io ordinerei» cambiò velocemente argomento Adele.

«Non aspettiamo il tuo amico?» chiese Victoria.

«Mi ha scritto che è un po’ in ritardo e di cominciare pure senza di lui» la informò «A proposito di amici, ho visto Jeff Connelly ieri pomeriggio e sembrava piuttosto arrabbiato con te. C’è qualcosa che mi devi dire?»

«Non molto» ammise Victoria mentre studiava la carta dei vini «Si sarà arrabbiato proprio perché non è successo nulla, suppongo. Oppure è per la faccenda del balcone».

Adele la guardava incuriosita e divertita, domandole tacitamente spiegazioni.

«Si è dovuto nascondere sul balcone per non farsi scoprire da Christopher. È tornato a casa prima del previsto» l’accontentò Victoria «Precauzione inutile dato che si è dimenticato la giacca in bella vista».

Adele si mise una mano sulla bocca esibendo una smorfia scioccata «Christopher se n’è accorto? E come ha reagito?»

«Non ha fatto una piega, come al solito. Gli ho detto che Geoffrey era passato per un saluto e lui ha educatamente finto che fosse stata una visita innocente. Perché si dovrebbe preoccupare che sua moglie incontri un altro uomo nella sua camera da letto privata?» commentò ironicamente.

«Tuo marito è un santo».

«Non ha spina dorsale» replicò Victoria «Preferisce coprirsi occhi, bocca e orecchie piuttosto che litigare o perdere il suo prezioso autocontrollo. Se vede uno scandalo, corre dalla parte opposta. È uno smidollato e sarò costretta a sopportarlo finché morte non ci separi. E se andiamo avanti così, probabilmente si tratterà della sua per omicidio, o della mia per suicidio».

«Esagerata» ribadì Adele «Aspetta, la tua camera non ha un balcone!»

Prima che Victoria si potesse lanciare in quel ridicolo racconto di Jeff a penzoloni sul cornicione, un uomo di bella presenza e vestito elegantemente si fermò al loro tavolo.

Adele lo riconobbe e sorrise «Oh, hai fatto in fretta!» si stupì, per poi rivolgersi all’altra donna «Vicky, questo è il mio amico Mathieu» li presentò.

Victoria piegò le labbra all’insù e gli porse la mano.

La giornata era appena diventata molto più godibile.

 

Christopher perlustrò guardingo l’ingresso di casa sua e il corridoio che portava fino al salone principale: percepiva qualcosa di diverso nell’aria.

Tutte le stanze si presentavano apparentemente silenziose e buie. Victoria non gli era ancora corsa in contro, urlandogli addosso che era in ritardo per la cena.

Volubile com’era, probabilmente aveva deciso di andare a mangiare fuori, ma normalmente lo avvisava sempre, per lo meno per dargli fastidio.

Il suo cellulare non registrava nessun messaggio.

Erano le otto e mezza passate e Eloise aveva finito il turno di lavoro. In casa rimaneva solamente Betty, la cuoca che lavorava per loro da quando si erano sposati.

Christopher corrugò la fronte quando accese la luce e scoprì che la cucina era vuota e perfettamente pulita come se non fosse stata usata.

«Uso un attimo il bagno» gli urlò dall’altra stanza Tachery.

Christopher non rispose e si diresse nell’ala dell’appartamento riservata a Betty. Dovette bussare alla porta due volte prima che la cuoca aprisse.

Nel vederlo quasi le prese un infarto, si strinse la vestaglia addosso imbarazzata e si sistemò i capelli «Signor Price» balbettò «Mi scusi, non pensavo che avesse bisogno di me. La signora mi aveva detto che questa sera non era necessario preparare la cena. Sono davvero desolata di presentarmi così».

Cristopher alzò la mano per fermarla prima che si prostrasse in cerca di perdono. Betty Wheeler era una donna molto all’antica, ancora legata allo stile di servizio degli anni in cui aveva imparato la professione.

Gran rispetto per il datore di lavoro, massimo decoro nel mostrarsi in pubblico.

«Non si preoccupi, signora Wheeler» e Christopher non era da meno nelle regole delle cortesia «Cercavo mia moglie».

«Oh, è uscita questo pomeriggio tardi e mi ha avvisato che non ci sareste stati per cena questa sera».

Christopher sorvolò sull’ennesimo scherzetto della sua dolce consorte e ringraziò la cuoca, congedandola con un sorriso.

«Aspetti signor Price» lo richiamò «Se ha un attimo di pazienza, mi cambio e vengo a cucinarle qualcosa» si premurò.

«Sono qui con Tachery Sullivan. Siamo due uomini adulti, possiamo arrangiarci. Mi dispiace molto di averla disturbata».

«Nessun disturbo, signor Price. Se ha bisogno, non esiti a chiamarmi».

Cristopher le augurò la buona notte e ritornò sui suoi passi, piuttosto seccato. Anche la sua pazienza aveva un limite: non lo infastidiva che Victoria vivesse la sua vita come riteneva più opportuno, ma non capiva la necessità di quelle scaramucce infantili che di solito lo facevano apparire come un allocco.

Ammirava la personalità combattiva e irruente di sua moglie, non pretendeva di cambiarla; disiderava solo un po’ di maturità. Non era l’unica bloccata in quel matrimonio. Anche lui aveva sacrificato molto e soprattutto aveva buttato giù certi bocconi amari che gli provocavano ancora brividi di vergogna.

Si rifugiò nel suo studio per calmarsi e ricomporsi. Fu sedendosi alla scrivania che notò una busta bianca sulla superficie in legno.

Al suo interno vi era una lettera. Christopher la estrasse e lesse inizialmente curioso e poi sempre più perplesso.

Quasi al termine della lettura, Tachery entrò nello studio e si spaparanzò sulla sedia dall’altro lato della scrivania «Allora, dov’è la strega cattiva del West End[4]?» domandò stiracchiando le gambe per poi appoggiare i piedi sul tavolo.

In casi normali Christopher gli avrebbe intimato di tirare via le gambe dalla scrivania, ma in quel momento era talmente basito che non si sarebbe accorto nemmeno se il pavimento sotto di lui fosse crollato.

«Non qui» rispose.

«Bene, spero torni il più tardi possibile. Non ho voglia d’incrociarla».

«Non penso correrai il rischio. Victoria è partita per Parigi questo pomeriggio» spiegò porgendogli il foglio.

Tachery si mise a sedere e prese la lettera «Chi diavolo è questo Mathieu?» si stranì non appena lesse il nome.

«Un amico di Adele. Victoria lo ha conosciuto oggi a pranzo e pare l’abbia invitata a casa sua in Francia. Sarebbe stato scortese rifiutare» e citò le ultime parole.

«Sì, questo lo dice anche lei» confermò esterrefatto Tachery arrivato alla fine della lettera «Quindi tua moglie è scappata in un altro continente».

«Per una settimana o due» annuì Christopher senza cambiare espressione «Immagino che Eloise avrà più tempo libero in questi giorni».

«Penso di non aver mai visto un uomo tradito più tranquillo di te» commentò Tachery che appariva parecchio più scosso di Christopher.

«Almeno non mi crogiolo nel dubbio. Come vedi, mia moglie ha preso molto sul serio il voto di sincerità che ha pronunciato due anni fa».

«Bene, possiamo tirare un sospiro di sollievo. Malefica è finalmente volata oltreoceano e ci ha servito su un piatto d’argento la carta per la separazione. Chiamo subito mio padre per scrivere la lettera. Amico mio, tra qualche giorno sarai un uomo libero».

 

Il mio spazio:

Ecco il secondo capitolo della mia storia.

So che potrebbe sembrare strano parlare di un matrimonio combinato ai giorni nostri, ma le motivazioni che hanno portato a questo risultato verranno via via spiegate nel corso dei capitoli.

Ringrazio immensamente chi ha commentato e inserito la storia tra le seguite/preferite.

Spero di leggere i vostri pareri nelle recensioni!

Alla prossima,

Sissi Bennett.

 



[1] «Giuro che è meglio essere tradito che saperlo sì e no»

[2] Questa battuta e in generale la scena del lancio delle ceramiche è tratta dal primo episodio della serie Parade’s End della BBC.

[3] Central e Jubilee Line sono due vere linee della metropolitana londinese.

[4] West End è una zona di Londra.

  
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