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Autore: ReaVi    21/04/2015    7 recensioni
Aline Dupont ha diciassette anni e vive in una Parigi controllata. I suoi richiami alla Centrale sono tutti positivi, non c'è nessuna traccia di ribellione in lei; suo fratello Tristan è gentile, sua madre e suo padre si prendono cura della famiglia, ed è l’incontro con due fuggiaschi a stravolgere tutto. Il suo mondo inizia a vacillare e la libertà si interpone quasi prepotentemente nella sua vita.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
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Avevo detto che non avrei postato niente finché non avessi terminato di scrivere, ma la verità è che sono una poppante e mi sono gasata così tanto che non ce la facevo più, perciò ho deciso di pubblicare lo stesso, anche se la mia esistenza va per i fatti suoi! Ci vediamo a fine capitolo con le note d'autore, buona lettura :*
 


CAPITOLO UNO
Victoire apre la porta facendomi quasi sussultare, la poltrona su cui siedo da venti minuti si è riscaldata, ma io continuo ad avere freddo. Questa stanza è troppo piccola, l’aria è irrespirabile e io mi sento uno schifo, voglio andarmene. Gli occhi scuri e penetranti di Victoire mi guardano con sufficienza, ha i capelli raccolti nel solito chignon nero, il collo bianco, le labbra pallide e un neo su una guancia.
« Aline? »
Deglutisco e la guardo, stretta nel suo abito scuro. Mi riserva un sorriso sottile, di quelli di circostanza. « Abbiamo finito. Puoi andare. »
Afferro la mia borsa e con una rapidità fulminante supero la sua figura e cammino a passo svelto tra i corridoi di questo posto, cercando le scale per l’uscita.
Fuori il cielo è bianco, potrebbe nevicare. Mi concedo di prendere una boccata d’aria solo quando varco il cancello in ferro scuro e mi appoggio al muro in mattoni. Lunghe e piccole trecce castane mi cadono lungo il corpo, mentre mi guardo attorno esausta. Due persone mi superano per entrare a passo lento oltre il cancello alla mia sinistra. Mi sistemo la borsa su una spalla e mi allontano da questo posto immenso, prendendo il primo autobus che passa e che mi può portare in centro.
Notre Dame mi osserva, la fronte pressata contro il vetro freddo, qualche passeggero addormentato in un pomeriggio tra tanti, il mio pollice sinistro massacrato dalle mie unghie per l’ansia. Quando arrivo alla fermata non c’è nessuno. Mi guardo attorno e mi concedo un sospiro di sollievo, anche se non si può mai stare sicuri in questa città. Mi volto per tornare a casa mia, la via è vuota e le case si susseguono in un ordine che conosco a memoria: ci sono i Martin, i Dubois, i Garcia, i Morel e i Bonnet, ma non ho mai parlato con nessuna di queste famiglie.
Cammino per dieci minuti buoni osservandomi le scarpe, finché poi raggiungo una casa bianca incastrata tra le altre, la porta d’ingresso di un verde bottiglia. Supero il cancelletto e apro con le mie chiavi. L’inconfondibile odore della cena di mio padre mi avvolge, e il calore domestico si porta via quel nodo allo stomaco e tutto il freddo di Dicembre.
Vedo i capelli color mogano di mia madre affacciarsi dal salotto, e poi mi viene incontro.
« Aline, » mi guarda preoccupata. « tutto bene? »
Annuisco soltanto, dirigendomi verso il piano di sopra.
« Com’è andato l’esame? »
« Il solito. » dico. « Nessuna incongruenza. »
« Non ceni? Tuo padre ha fatto la pizza. »
Mi blocco sul secondo scalino e mi mordo l’interno del labbro inferiore.
« Non ho fame. »
I passi di mio padre raggiungono mia madre, e i suoi occhi chiari mi guardano con apprensione.
« Aline, » è la terza volta che sento il mio nome nel giro di un’ora e mezza, e già non ce la faccio più. « sicura che vada tutto bene? »
Adesso mi volto, li osservo entrambi, vicini, preoccupati, la classica espressione da genitori. Mi sforzo di sorridere senza guardarli.
« Sì. Sono solo stanca. Ho bisogno di riposare. »
Mio padre annuisce. « D’accordo. »
Ho quindi il via libera per salire al piano di sopra. La camera di mio fratello Tristan è chiusa, ci passo di fronte per entrare in camera mia. Mi appoggio alla mia porta in legno scuro e mi lascio andare ad un sospiro stanco e rassegnato. Mi guardo attorno e riconosco il posto esattamente come l’ho lasciato.
Il mio letto è attaccato alla parete davanti ai miei occhi, c’è una panca di fronte ad esso, e poi un tappeto per terra, uno di quelli che mia madre compra ai mercatini. C’è una finestra sul soffitto, perché camera mia dà al tetto, e poi una scrivania ad un lato, con un tablet spento attaccato alla corrente. Lascio cadere la borsa e mi butto di peso sul letto cosparso di cuscini, trattenendo il respiro più a lungo che posso. Quando non reggo più, mi volto col viso verso la finestra sul tetto, e osservo le gocce di pioggia cadere contro il vetro.
Il calendario appeso affianco alla mia scrivania segna l’anno 2089, e tutto ciò che vorrei accadesse è chiudere gli occhi per non riaprirli mai più. Le cartoline appese in un riquadro accanto al mio letto mostrano la vecchia Parigi, con le sue luci, la sua magia e la sua libertà, fantasmi di città che adesso non esistono quasi più, ombre di un passato che è stato oscurato da guerre e da dittature severe.
Mi chiamo Aline Dupont, ho diciassette anni e non ho mai conosciuto la libertà. Questa mattina sono stata convocata per fare uno degli esami di routine che stabiliscono se la popolazione stia rispettando le regole imposte dal governo, o se la minaccia di una ribellione stia prendendo piede.
Io non sono una ribelle, o almeno non una di quelle che credono loro. C’è gente là fuori che cerca di combattere, di reagire per avere un futuro migliore, ma niente di tutto quello che fanno sembra andare a buon fine perché ogni nostra singola azione, ogni misero movimento, è tenuto sotto controllo. Non possiamo informarci come vogliamo, non possiamo navigare liberamente su Internet, le conversazioni via telefono e web sono lette da supervisori assunti con l’unico scopo di informare i dirigenti superiori di eventuali disobbedienze o oscillamenti nell’ordine cittadino. Non possiamo leggere, non possiamo scrivere, non possiamo andare in discoteca perché non esistono più posti per divertirsi e conoscere altra gente. Non possiamo giocare all’aperto, non possiamo svagarci con un videogame per più di un’ora e mezza, non possiamo parlare liberamente di ciò che vogliamo e non possiamo assentarci da scuola. La dittatura sotto la quale vivo non mi permette di esprimermi al meglio, sono incatenata alla mia esistenza e non so più come stare a galla. Non ci è permesso trasferirci, cambiare stato o nazionalità, conoscere gente straniera, fare amicizia con persone che sono ritenute pericolose per la società. Non so di preciso cosa succeda a chi tenta di mettersi contro il governo, mio padre non mi lascia guardare i notiziari che ne parlano e il web è off-limits per chiunque.
Allargo le braccia e raggiungo le due estremità del letto, sono perfettamente centrata. Potrei sbilanciarmi un po’ a destra o a sinistra, e le mie mani sarebbero oltre il materasso, penzolanti. Mi viene da pensare all’esame che ho fatto oggi in Centrale, e non mi sembra di stare in una situazione diversa. Non c’è niente di sbilanciato o di disobbediente in me, sono perfettamente al centro. Obbedisco agli ordini, non manco di riguardo, rispetto gli orari, sono educata e gentile anche quando non mi va, non commetto crimini, non oppongo resistenza. Sono una delle tante, una di quelle che nessuno potrebbe mai temere. Il test è, di conseguenza, andato bene, ma tutto questo mi soffoca. Vorrei non esistere, vivere in un mondo diverso, più libero, più adatto a me.
Sento la porta della camera di mio fratello aprirsi e chiudersi, e i suoi passi giù per le scale. La mia pancia non brontola, non ho fame. Non mangio da ventiquattro ore e non ne sento il bisogno.
Chiudo gli occhi e sento il rumore della pioggia contro casa, le braccia ancora aperte e le gambe distese che non toccano la fine del letto. Il mio respiro è regolare, il mio cuore batte con naturalezza. È tutto tremendamente controllato.
 



Eccoci qui! Per chi non mi conoscesse e non avesse mai letto niente di mio, ne approfitto per presentarmi: mi chiamo Andrea, sono una studentessa con la passione per i casi umani e questo è il mio modo preferito per sfogare le mie frustrazioni. I miei spazi d'autrice sono sempre dei piccoli diari, non ce la faccio proprio a fare la persona seria e responsabile!
Comunque, siamo qui per un motivo soltanto: la storia. Ambientata a Parigi, ma non la capitale dell'amore, bensì una città sottomessa ad una dittatura spregevole, che voi lettori ancora non conoscete bene né a fondo, che esercita un controllo forzato sulla sua popolazione, convincendola che tutto ciò sia giusto e normale. La nostra protagonista è Aline, che narra la storia in prima persona e al presente, e perciò seguiremo le vicende dal suo punto di vista, a volte un po' distorto e altre volte chiaro e più comprensibile. Aline è un personaggio molto particolare, ci lavoro su da mesi e ne sono abbastanza soddisfatta. Non è la classica eroina timida che poi si rivela essere la migliore in tutto, ma una ragazzina come tante, che si trova catapultata in qualcosa più grande di lei.
Ho preso ispirazione leggendo i libri della saga di Divergent e degli Hunger Games, perciò non è un caso se qualcosa vi ricorda una delle due saghe.
In questo primo capitolo si parla soltanto di Aline, viene introdotta in maniera superficiale la sua famiglia, e la Centrale, il luogo dove si svolgono i controlli. Come vengono svolti questi controlli e che effetti hanno sulla popolazione, verrà spiegato passo per passo. Per ora spero di avervi incuriositi/e!
Aggiornerò una volta alla settimana, ma siccome domani parto e torno mercoledì prossimo, credo che aggiornerò o mercoledì stesso, oppure giovedì, dipende da quanto sarò distrutta da uno a sempre.
Grazie per aver letto, spero che la storia vi piaccia a tal punto da continuare a leggere :) Buon proseguimento di settimana :*

Andrea

 
 
   
 
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