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Autore: Rei_    21/04/2015    9 recensioni
(!) Attenzione! Questa storia parla di bullismo, saranno presenti alcune scene di violenza! (!)
Michele, 27 anni, è appena entrato in un mondo a lui ancora sconosciuto: palazzo Montecitorio.
Lui, giovane insicuro, nasconde un lato fragile causato da un passato buio che vuole dimenticare. A differenza di Nicolò, che invece non ha mai perso nella sua vita e anche nel mondo politico a breve acquisterà una crescente leadership causata dal suo forte carisma naturale.
Due persone di partiti diversi, che inevitabilmente finiranno per scontrarsi, ma se è vero che l'odio è una forma d'amore allora il loro rapporto è destinato presto a cambiare...

Spalancò le braccia nella neve e allargò le gambe. Sarebbe dovuta uscire disegnata la figura di un angelo, ma mentre Michele chiudeva lentamente gli occhi, vinto da quell'insolita stanchezza, pensò che era impossibile che uno come lui potesse essere capace anche lontanamente di assomigliarci.
Perchè gli angeli non finiscono nudi nella neve.
Non vengono chiusi negli sgabuzzini.
Gli angeli sono luminosi, e lui invece era fatto di buio.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lemon, Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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Dopo il giorno della fiducia, le cose sembravano procedere senza tanti intoppi alla Camera dei deputati.
Michele era quasi riuscito ad imparare a memoria il regolamento della Camera, che gli altri suoi colleghi invece avevano a malapena letto. Arturo sembrava molto felice di questa sua propensione naturale allo studio dei meccanismi parlamentari e parlava sempre bene di lui agli altri, ma tutte le volte Michele non rispondeva ai complimenti. Gli sembrava insensato che si congratulassero per qualcosa che avrebbe dovuto essere una buona norma di tutti, anche se in realtà non lo era.
In ogni caso, erano rare le volte in cui gli altri deputati di SD lo trattavano alla pari. Nel migliore dei casi era riconosciuto come "il figlioccio di Arturo", nel peggiore "il pischello del partito", e la sua bassa statura certo non aiutava nello scrollarsi di dosso i nomignoli. I lavori parlamentari, comunque, richiedevano molto impegno. Si alternavano giorni dove la seduta durava un'ora o due a giorni in cui invece poteva durare da mattina fino a tarda sera, con pochissime pause. I deputati che erano sempre presenti non erano poi tanti e Michele, dopo qualche settimana di presenze costanti, li aveva conosciuti un po' tutti.
Aveva così capito che molti non erano finiti lì dentro per passione o per un’ideale. Questi parlamentari stavano in aula solo un'ora o due, prendevano l'aperitivo al bar parlando sempre al telefono, e all'uscita scansavano in malo modo tutti i giornalisti, per poi farsi rivedere solo dopo diverse settimane. A Michele non piacevano per niente. Non offrivano un contributo, non erano nessuno se non degli intermediari di affari probabilmente poco puliti.
Per lui la politica vera era un’altra cosa. Ancora si ricordava quando, in prima liceo, aveva studiato la definizione di politica a lezione di greco, scoprendo che il suo significato era “l’arte del bene comune”. A solo quattordici anni, quelle parole lo avevano colpito. Quel giorno aveva passato il resto della lezione a immaginare uomini seri, che avevano a cuore il bene comune, riuniti in una sala. Lì decidevano se iniziare una guerra, se costruire un asilo, come e dove alzare le tasse. Ma era stato dall’anno successivo che aveva iniziato a pensare davvero alla politica, trovandosi nel mezzo della sua prima manifestazione studentesca.
Era ancora molto piccolo, ma quella volta aveva sentito una forza dentro che non si sarebbe più dimenticato: la forza di tante voci che si univano in una sola, i pugni che si alzavano in aria, la musica che riempiva le strade della sua città. Era sentirsi parte di qualcosa, qualcosa di ancora sconosciuto. Con il tempo, quelle emozioni si erano sedimentate dentro di lui, e il desiderio di continuare a essere parte di quella forza immensa che portava le persone a stare insieme diventò sempre più importante.
A questo continuò a pensare mentre apriva la porta della sua casa romana, stanco morto, tornando a rinchiudersi nella solitudine del suo appartamento. Estrasse subito dalla dispensa un pezzo di spianata e accese la TV.
Si ritrovò inaspettatamente nello schermo Thomas Greco, in primo piano con il suo solito sorriso smagliante ad un talk-show. Michele rise tra sé per come si era vestito: non solo era in un appariscente completo giallo canarino, ma aveva anche il colletto della camicia fuori posto e nessuno degli altri ospiti glielo aveva fatto notare. Tra i deputati presenti in studio riconobbe Nicolò Andreani, il deputato che con il suo primo discorso alla Camera lo aveva indignato profondamente. Dopo quel discorso, molti colleghi di vari partiti avevano iniziato a chiamarlo “buffone rompicoglioni” per i suoi modi di fare strafottenti. Non piaceva a nessuno, a parte a quelli del suo gruppo che sembravano adorarlo. Quando passava per i corridoi fissava tutti con aria di superiorità, la faccia tosta sicuramente non gli mancava.
Quella sera, comunque, non era vestito con la divisa del Fronte, ma aveva una normalissima giacca grigia e una camicia bianca. Le telecamere mostravano il suo primo piano mentre sorrideva con fare ironico durante l’intervento di Thomas.
«Forse l'onorevole Greco non ha ancora capito che il taglio delle tasse è solo una mossa propagandistica per tagliare ancora i servizi essenziali. Vorrei che uno del suo partito ci spiegasse come si può dare la fiducia a un governo del genere, con un ministro con un’indagine in corso. Nessuno di noi presterebbe dei soldi a qualcuno che ha la fama di essere un ladro, non crede?»
Thomas arrossì un po', strabuzzò gli occhi e si schiarì la voce. Si vedeva chiaramente quanto non fosse a suo agio.
«Il collega Andreani è sicuramente un uomo con seri principi garantisti se considera un indagato alla pari di un ladro...» L'altro lo interruppe subito, rispondendo a tono.
«Lei invece li ha sicuramente i principi morali se non batte ciglio mentre un indagato del suo partito siede al governo. Sono sicuro che Berlinguer avrebbe fatto la stessa cosa».
Andreani sorrise sprezzante. Non stava urlando come in aula, il suo tono era molto più pacato ma proprio per questo motivo le sue parole sembravano ancora più taglienti. Michele si preoccupò di vedere Thomas in difficoltà, i salotti televisivi erano sempre stati il suo campo di battaglia. Per fortuna il giornalista lo tolse dall'imbarazzo di rispondere, mandando un servizio.
L'argomento poi cambiò, passando alla lotta alla mafia, e anche lì Thomas arrancò, privo della solita enfasi che tanto entusiasmava il pubblico. Il problema principale era che nel programma di governo non c'era neanche una menzione riguardante quell’argomento, e tale mancanza era indifendibile da chiunque. E, come se non bastasse, Andreani aveva iniziato a portare il dibattito intorno agli scandali, raccontando di quanto la mafia era cresciuta a Milano negli ultimi anni e di quanto nessuno stava denunciando per la paura di finirci in mezzo.
«Una volta avevo appena finito un comizio, quando si avvicina una persona e mi intima di stare attento a ciò che vado a dire in giro. Una volta a casa ho trovato le finestre di casa mia tutte rotte, e nessuno dei vicini ha visto niente».
Lo studio rimase in silenzio mentre Andreani finiva di raccontare l'episodio. Michele pensò subito a una storia messa lì solo per far scena, ma la voce di quell'uomo non tradiva la minima esitazione.
«A quel punto ho avuto paura, ma poi ho capito che era proprio questo che volevano ottenere. E allora ho continuato a parlare e a denunciare. Loro hanno paura del Fronte, perché noi siamo quelli che non accetteranno mai di piegarsi a loro».
Una parte del pubblico applaudì l’intervento. La trasmissione finì poco dopo e l'ultimo fotogramma mostrò un primo piano del suo collega romano, evidentemente amareggiato da quella che era stata una vera e propria sconfitta.
 

«Mi ha praticamente asfaltato!» borbottò il deputato romano con tono mogio, mentre faceva passare dalla mano alla bocca la spianata che Michele gli aveva portato.
«Non hai dato proprio il meglio di te» commentò Arturo, sfogliando distrattamente il giornale.
Era un tranquillo lunedì a Montecitorio. Michele aveva notato che quel giorno c’erano ancora meno deputati che in tutti gli altri giorni della settimana. Alla buvette c'erano solo loro tre e pochi altri.
«Avrei voluto vedere te!» abbaiò Thomas, «non è facile parlare quando ogni parola che dici viene usata per tirare fuori uno sproloquio senza capo né coda! Ma hai sentito ‘sto soggetto?
Minacciato dalla mafia! Ma chi si crede di essere?»
Il deputato romano smise di mangiare e iniziò con la mano a tirarsi indietro il ricciolo biondo in modo quasi ossessivo. Gli occhi strabici erano contornati di rosso, segno che quella notte non aveva dormito. Michele gli appoggiò una mano sulla spalla.
«Dai, andrà meglio la prossima volta. Se Andreani è un buffone, tu devi usare la forza degli argomenti».
Thomas gli sorrise e il giovane calabrese fece per tirargli una pacca amichevole di consolazione, ma poi sentì una mano estranea afferrare la sua spalla, costringendolo a voltarsi.
«Come mi hai chiamato, scusa?»
Era Andreani. I suoi occhi verdi perforarono quelli di Michele come due raggi laser. Il giovane, preso alla sprovvista, simulò una parvenza di calma, mentre sentiva il battito cardiaco accelerare contro la sua volontà.
«Dicevo che ti ho visto in TV ieri sera. Non hai fatto una bella figura» disse velocemente, curandosi di non alzare troppo la voce. Si sentiva intimidito da quella vicinanza e faceva fatica a mantenere il contatto visivo per la differenza di altezza.
«Quindi io sarei un buffone? Hai il coraggio di ripetermelo in faccia?»
Il tono di Andreani era fermo e pacato, tanto da risultare minaccioso. Michele resse poco quello sguardo. Gli occhi verdi di quell'uomo sembravano trapassarlo da parte a parte.
Si guardò in giro, non sapendo cosa fare, finché intervenne Arturo.
«A posto le mani, giovane».
Gli altri pochi presenti li guardavano, incuriositi. Michele sentì la mano allentare lentamente la presa, mentre quegli occhi erano ancora puntati dentro i suoi. Non riusciva a dire niente, e ogni secondo che passava sapeva di dover dire qualcosa per spezzare la tensione, ma la sua mente in quel momento era completamente annebbiata.
Un uomo prese il braccio di Andreani, staccandoglielo del tutto dalla sua spalla. Poi fissò per un attimo il suo collega negli occhi, come per comunicargli qualcosa. Era il capogruppo del Fronte, Augusto Chiarelli.
I due se ne andarono per il corridoio. Michele cercò di riprendere il ritmo regolare del respiro, mentre delle immagini stavano riaffiorando davanti ai suoi occhi, contro la sua volontà.
Sangue. Buio. La gola secca per la troppa corsa.
Risate. Il riflesso dei suoi occhi arrossati nello specchio di camera sua.
«Avanti, scappa!»
Arturo lo toccò piano.
«Tutto bene?»
Michele ingoiò quelle immagini nei suoi occhi scuri. Guardò i suoi amici e compagni con un finto sorriso tranquillo sulla faccia.
«Sì».
 
Thomas gli diede uno spintone amichevole.
«Dillo che ti piace cacciarti nei guai, Miché!»
 
 
*
 
 
«Si può sapere che stavi facendo?»
Il capogruppo del Fronte stava praticamente gridando addosso a Nicolò, in un corridoio del secondo piano della Camera, ma il giovane deputato milanese evitava il suo sguardo. Odiava essere rimproverato come uno scolaretto. Non aveva mai permesso a nessuno di farlo.
«Un bel niente. Stavo solo parlando, non hai visto?»
«Ma bravo! Ci manca solo che facciamo partire una rissa per farci parlare dietro dalla stampa. Non ti hanno spiegato come ci si comporta qui dentro?»
Andreani si avvicinò di più all’uomo, arrivando a far sfiorare le punte dei loro nasi.
«Che pensi, che lo avrei preso a pugni? Volevo solo insegnargli ad avere rispetto. E tu, abbassa la voce, che non sei mio padre!»
Il capogruppo non rispose più. Gli rivolse un'ultima occhiata di odio prima di allontanarsi del tutto.
 
 
*
 
 
Dopo cinque minuti dall’inizio della seduta, Michele uscì dall’aula per andare in bagno.
La testa gli girava per l’episodio di prima. Aveva sentito qualcosa rompersi dentro di sé, e sapeva che doveva soffocarlo prima che tornasse a galla.
«Martino!»
Vide il segretario Marchesi chiamarlo dal corridoio. Non gli aveva mai rivolto la parola, e Michele non sapeva nemmeno se avesse dovuto dargli del “lei”, anche se sapeva che tra compagni di partito ci si dava del tu.
«Non ho ancora avuto occasione di dirtelo, ma le tue uscite con i giornalisti sono state ottime. Non me l'aspettavo, vista la tua moderata esperienza».
Vide un sorriso smagliante comparire sul viso del suo segretario. Non era abituato a rispondere ai complimenti, tantomeno a sorridere, quindi produsse una specie di smorfia di stupore cercando di non sembrare scortese.
«Ti ringrazio».
Il segretario fece per battergli una pacca sulla spalla, ma Michele si scansò istintivamente. Non amava farsi toccare da chi non conosceva, ma subito dopo si rese conto di essere stato sgarbato.
«Scusa, devo tornare dentro». E tornò indietro a passo svelto.
 
 
*
 
 
Nicolò Andreani percorse con lo sguardo i banchi di Sinistra Democratica. Fino a quel giorno sapeva chi fosse Michele Martino solo per alcune brevi interviste. In quelle prime settimane si era documentato su molti deputati della maggioranza, alla ricerca di qualche scheletro nell'armadio che un giorno poteva essergli utile in caso di attacco. Aveva seguito in modo maniacale tutte le interviste, i telegiornali e i talk e alla fine aveva scoperto che erano tutti uguali: difendevano bene o male la linea del loro partito senza tante storie.
Alcuni argomentavano bene, altri facevano pena, ma nessuno aveva un pensiero personale di spessore. E tal Michele Martino era solo un pesce piccolo che sembrava esser finito lì per caso. Sempre a posto, pulito, obbediente e in ordine come uno scolaretto. Vomitevolmente mediocre.
Nelle sue interviste, Nicolò aveva visto chiaramente quanto quel deputato non pensava nemmeno una delle parole che diceva. Bastava notare il tremolio della sua mano o i suoi occhi che cambiavano direzione.
Inoltre, giravano voci che Martino fosse uno raccomandato. Era stato Arturo Costa, ex deputato del PCI ed ex candidato alla segreteria a curargli in ogni dettaglio la campagna elettorale. Nessuno di così giovane, senza esperienza e senza talento, avrebbe mai preso da solo quella decina di migliaia di preferenze, e Nicolò sentiva già l’odore inconfondibile della mafia. Doppiamente vomitevole.
Il suo sguardo si soffermò su di lui, in alto sui banchi c’entrali. Incrociò i suoi occhi per un secondo solo prima che l’altro deviò lo sguardo, e tinse la sua espressione di tutto il disprezzo di cui era capace.
 
 
*
 
 
«Mah!»
Thomas ripiegò il giornale, abbandonandolo su un angolo del tavolo. Erano solo le sette di mattina e al bar dove li aveva portati Arturo quella mattina c'era solo qualche turista.
«Il buffone è stato eletto nuovo capogruppo del Fronte. Ci faremo grasse risate quando gli toccherà contrattare con Pasqui. L’hanno scelto perché sa alzare la voce, ma la politica vera è ben altra cosa» rise Thomas.
Michele non commentò. Non era per niente stupito che quell’uomo fosse riuscito a fare carriera così velocemente, tutti sarebbero stati capaci con quella faccia tosta. Ma Thomas aveva ragione, la politica era un’altra cosa.
Camminarono a piedi fino alla Camera dei deputati. Michele passò dal suo ufficio come ogni mattina, prendendo dal suo assistente i documenti che avrebbe dovuto studiare.
«Buona giornata anche a te» scherzò Michele, reggendo a fatica il faldone contenente le nuove leggi in discussione.
«Ti ho messo anche una schedina con il riassunto» strizzò l’occhio lui, «ah, poi hanno chiamato da La7 per invitarti a un talk stasera. Che faccio, gli dico di sì?»
Michele rimase un attimo impietrito. Perché proprio lui? Era tra i deputati più nuovi e sconosciuti del Parlamento - a parte la tanto detestata storia dell'età - e desiderava solo continuare a esserlo.
Poi, però, si ricordò dei complimenti del suo segretario ed ebbe un moto di orgoglio. Non poteva essere così difficile, bastava prepararsi bene.
«Va bene».
Entrò in un’aula deserta. Quella mattina c’era il question time, e solo i deputati che avevano delle domande da fare ai ministri erano presenti, gli altri stavano in ufficio o a farsi gli affari loro. Lui però ci andava lo stesso, un po’ per rispetto delle istituzioni, un po’ per fare esperienza di come si parla in aula.
Si sedette al suo solito posto. La voce del presidente della Camera rimbombava nell'aula semivuota. L'aria era pesante, e le luci soffuse sembravano invitarlo a dormire.
Il giovane si armò di buona volontà e tirò fuori la propria agenda per prendere appunti. Ogni tanto si distrasse, facendo passare lo sguardo su tutto l'emiciclo. Gli capitava spesso di immaginare che nel posto dove era lui ora, prima si erano seduti uomini come Togliatti, De Gasperi o Berlinguer. Forse era proprio in quel punto lì che Matteotti aveva fatto il suo ultimo intervento prima di essere ucciso. Forse anche loro avevano visto quell'aula da quell'esatto punto di vista, si erano alzati in piedi per fare interventi come lui e avevano allungato la mano per votare le leggi come aveva fatto anche lui. Solo a pensarci gli venivano i brividi.
I suoi pensieri vennero bloccati da un uomo che gli parlò da dietro, facendolo sobbalzare.
«Che fai qui?»
Era il suo segretario, Riccardo Marchesi, unico altro deputato di Sinistra Democratica presente in aula.
«Beh... ascolto» farfugliò Michele, preso alla sprovvista dall’insolita domanda.
«Scusa se mi intrometto» sorrise il segretario, appoggiando il cellulare sul banco accanto a lui, “ma di solito al question time non viene mai nessuno, a meno che non si deve fare un'interrogazione».
«Sto prendendo appunti» si giustificò, indicando l'agendina sul banco. Il segretario restò molto colpito.
«Però! Penso che tu sia il primo della storia della Repubblica a fare una cosa simile. Ti spiace se mi siedo qui?»
Prima di ricevere una risposta si trasferì nel posto accanto. Michele continuò a prendere appunti, ma si sentiva un po’ oppresso da quella presenza. Aveva l'impressione che l’altro lo stesse studiando, anche se in realtà guardava il cellulare. Non riuscì a non far cadere l’occhio sui gemelli che aveva ai polsi, dorati e luccicanti.
«Domani mi tocca andare al Minerva con un imprenditore. Conosci il posto?»
«No».
«Certo, tu non sei di qui» sorrise Marchesi, come se si fosse ricordato solo in quel momento, «allora ti ci dovrò portare. Una volta nella vita bisogna andarci».
«È tipo un ristorante?» Marchesi sgranò gli occhi.
«Ristorante!» rise di gusto, «è uno dei posti più chic di Roma, e io li conosco tutti».
Michele lo guardò di sbieco, tornando a concentrarsi sui suoi appunti.
«Mi spiace, ma non credo sia roba per me».
L'altro non rispose. Lo fissò con aria pensierosa, come se non si aspettasse proprio quel tipo di risposta,
«Capisco» sospirò, evidentemente deluso, «se un’altra volta vorrai venire, l’invito è valido, naturalmente».
Michele cercò i suoi occhi, cercando di intercettare un barlume di senso a quella proposta che gli era stato appena fatta senza alcun apparente motivo, ma Marchesi stava già raccogliendo le sue cose, preso da una fretta improvvisa.
«A presto, buona giornata!»
E uscì, senza dare il tempo a Michele di rispondere.
«Qui ti servono i consigli dell'esperto!» ammiccò Thomas, una volta che l’ebbe raggiunto nel cortile.
Michele non lo sopportava quando si vantava in quel modo, ma in effetti era così. Tra tutti i colleghi che aveva conosciuto, Thomas era senza dubbio il più spavaldo con le telecamere, oltre che quello con cui era più in confidenza.
«Prima regola: conosci il tuo nemico. Chi sono gli altri invitati?»
«Devo ancora controllare».
Michele cercò tra le e-mail. Quando scorse i nomi degli ospiti, però, un nodo gli attorcigliò lo stomaco. Con lui in studio c’era il nuovo capogruppo del Fronte.
«C’è quel pazzo di Andreani. Quello mi asfalta!»
«Uh, però!» si esaltò Thomas, «grande, hai l’occasione di dire due cose a quel pallone gonfiato! Il segreto è interromperlo sempre, non fagli concludere una frase».
«Ma che dici?» lo interruppe Michele, «non posso andare in trasmissione con lui. Se non ce l’hai fatta te, figurati io!»
Deviò lo sguardo, imbarazzato dall’aver detto ciò che effettivamente pensava. Thomas rispose con uno sguardo di sufficienza.
«Peccato. Davvero un peccato. Ero convinto che fossi uno in gamba».
Michele restò impietrito, incapace di reagire a quelle parole così taglienti, dette da un collega che ormai stava iniziando a considerare un amico.
«Lo sento Arturo. Tutti ti fanno i complimenti, vero? Che sei così giovane, così precisino, così in gamba! Un ragazzino bello pulito, appena uscito dalla gavetta, vero? E tra uno, due, tre anni, sarai sempre il ragazzino. Non sarai mai responsabile di niente, e per ogni piccola cosa riceverai solo la parolina buona. È questo che sarai se ora rifiuti questo dibattito. Perché gli altri nostri colleghi ti daranno ragione. Anzi, ti diranno che sei stato saggio a non andarci!» Michele si era allontanato di un passo. Non aveva mai visto Thomas così serio.
«Quando è nata Sinistra Democratica, a fare politica si rischiavano le botte. Nessuno ci ha mai costretto ad andare avanti. Eravamo ragazzi, avevamo il diritto a stare in pace, a prenderci una laurea e farci la nostra vita. Pensa che stronzi che siamo stati, in quel dannato momento in cui invece abbiamo deciso di iniziare una resistenza.
Ogni tanto ci penso, forse avremmo dovuto farci i cazzi nostri». Thomas gli rivolse un rapido sguardo inespressivo e uscì dal cortile. Per tutto il resto della giornata non lo sentì, né lo vide.

 
Su via Tiburtina le macchine si accalcavano cercando di uscire per prime dal traffico. Michele era arrivato con l’auto blu, stupendosi di quanto una macchina così grande potesse cavalcare le strade affollate, schivando agilmente tutti gli ostacoli.
Per un moto di orgoglio non aveva detto a Thomas che aveva deciso di partecipare alla trasmissione, ma ora stava iniziando a pentirsene. In quel momento aveva davvero bisogno dei suoi consigli. Poteva anche cavarsela discretamente nelle interviste brevi, ma i talk erano tutt’altra cosa.
Si sentì completamente solo. Forse non era stata una buona idea accettare. Le parole del suo collega lo avevano scosso, ma coscientemente sapeva che non era pronto e che stava per fare una grande figura di merda. Aveva studiato, si era preparato sull’attualità, sulle leggi in discussione, sulla linea del partito che altri deputati ripetevano nelle interviste, ma non sarebbe bastato per rispondere ad un oratore esperto.
Non sapeva perché lo stesse facendo. Forse per convincere Thomas che era davvero in gamba come credeva. O forse per convincere se stesso.
Fece un profondo respiro e varcò la soglia degli Studios, con il cuore che batteva all’impazzata.
   
 
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