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Autore: hikachu    08/05/2015    1 recensioni
I Gold Saint tra infanzia ed adolescenza, negli anni prima della Notte degli Inganni.
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Casa è dove noi non siamo II (Camus)




Ci sarà un giorno in cui, non più bambini, non ancora adulti, eppure più stanchi e più segnati e più vecchi dei propri anni, si guarderanno negli occhi, incerti, veramente smarriti per la prima volta nella loro vita.

Ci sarà un giorno, in cui una ragazzina verrà a reclamare per sé il nome di Pallade e il Pontefice urlerà ai Santi che il nome di Pallade proteggono, un editto di morte per la spergiura.

Milo abbasserà allora gli occhi, resterà immobile a pensare pensieri che non condividerà mai con nessuno; rialzato poi il capo, ci sarà la bestia nei suoi occhi e nel suo pugno; si dirà pronto a lavare l'onta col sangue e le sue saranno parole sincere, eppure.

Eppure, mai come allora il Pontefice gli parrà una sfinge: creatura imperscrutabile, maschera vuota. Si dirà, tuttavia, che non è suo compito riflettere su simili sciocchezze, né su qualsiasi altra cosa, ché il suo ruolo è quello di spaccare le montagne con i pugni qualora gli venga ordinato, da Atena o dal Sacerdote, le uniche due bocche che su questa terra siano in grado di scomporre in parole la giustizia, di comunicarla e ridurla alla cosa giusta da fare, all'istruzione per i semplici. Tuttavia, il Sacerdote, che fa le veci della Dea e scruta le stelle, quale giustizia scorge mentre Atena è così lontana?, la domanda come un fuoco d'artificio pronto ad esplodergli in testa se non sulla lingua, ma Milo è innanzitutto fedele, e quando, rialzato il capo, sposterà gli occhi su Camus, Camus rimarrà in silenzio, senza dirgli come al solito, sciocco, sei troppo avventato. Ebbene, sentenzierà in quell'istante Milo, ebbene, non vi è altro che debba esser detto, nient'altro che debba esser fatto: che il sangue dei traditori lavi l'onta; che possa essere la mia mano, a versare quel sangue.

Camus, che il dubbio l'aveva conosciuto tanti anni fa assieme alla Grecia, non si dispererà alla ricerca di una risposta, non in quel momento. Perché, vedi, aveva detto una volta, tanti anni fa, a Milo; vedi, fa male e fa paura perché cerchiamo un appiglio che non c'è. Siamo naufraghi dal momento in cui siamo concepiti. Il liquido amniotico nel grembo materno in realtà ci prepara all'incertezza che ci attende nel mondo esterno. Viviamo, giorno dopo giorno, cercando di creare punti fermi che reggono solo nelle nostre convinzioni.

Sii sicuro di te stesso, aveva ammonito Milo, sotto un tramonto che li vedeva tornare alle baracche per la sera, prima di una parca cena. Pensaci bene Milo, pensa bene a quel che credi sia giusto e tienitelo stretto, non chiedere e non aspettarti mai risposte da qualcuno che non sia te stesso. Erano cose che Camus aveva sentito da suo nonno, che era stato l'unica persona a prestargli veramente attenzione, ché sebbene avesse vissuto in una splendida casa con una splendida famiglia, Camus era l'ultimo di quattro figli, e il tempo dei suoi genitori non era mai sufficiente perché se ne dedicasse un po' anche a lui. Non era odiato, né visto con indifferenza, ma troppe cose erano state date per scontate; l'affetto che veniva riversato su di lui prendeva troppo spesso la forma di bigliettini lasciati accanto ad un pasto freddo o di un bacio della buona notte dato quando lui era già perso nei sogni. Restava, così, più una convinzione astratta che un fatto tangibile e Camus aveva imparato ad amare ed essere amato in una maniera distante, rarefatta.

Suo nonno materno si era trasferito a vivere con loro dopo la morte di sua moglie, in una stanzetta al secondo piano che sarebbe stata di Camus, se solo Camus fosse nato una manciata di anni prima: gli era stata invece assegnata la mansarda, ripulita e ammobiliata per l'occasione. Il nonno, che era burbero e bizzarro, ma non senza cuore, aveva annunciato che averebbe naturalmente lasciato la stanza al marmocchio, ma sua figlia si era opposta, ricordandogli dei reumatismi e l'umidità che d'inverno prendeva d'assalto la mansarda. Forse, era nata da qui una qualche specie di senso di colpa, un bisogno di compensare, che l'aveva portato a stare vicino a Camus come non aveva mai fatto con le tre nipoti più grandi. Forse, aveva avvertito in lui uno spirito affine, o forse aveva inconsapevolmente condizionato Camus ad essergli affine, con tutti i suoi discorsi. Forse, stava cercando di scacciare quel vuoto che aveva sempre avuto dentro e che si era ingigantito tra la pensione e la vedovanza, fino a rendergli impossibile la convivenza con i propri istinti nichilisti. Forse, si trattava di tutte queste cose insieme, perché il nonno di Camus non era poi tanto diverso da qualsiasi altro essere umano.

Si era laureato a pieni voti alla Sorbona, con una tesi che voleva rimettere in discussione le basi del concetto di intersoggettività nella fenomenologia hegeliana, facendo storcere il naso a non pochi dei suoi insegnanti, vetusti, romantici idealisti intrisi di germanismo; aveva continuato a guadagnarsi diversi nemici con quelle che erano state definite poco più che stravaganze marxiste, vacui tentativi di sovversione tipici della gioventù frustrata ed ignorante, ma c'era stato anche chi era pronto a scommettere su di lui e, a poco meno di quarant'anni, il nonno di Camus venne nominato professore e detentore della cattedra di filosofia morale nella sua stessa alma mater. Con ogni probabilità, quel giorno ebbe per lui molta più significanza che quello del suo matrimonio: aveva amato sua moglie, certo, ma la filosofia era stata la sua compagna da prima ancora che ne conoscesse il nome. Era la certezza dell'incertezza, il punto fermo che aveva cercato e trovato e che l'avrebbe accompagnato fino alla fine insieme con tutti i suoi dubbi. Oltre alla maniera distaccata d'amare della sua famiglia, Camus aveva ereditato quell'irrequietezza interiore che suo nonno aveva provveduto a nutrire nella manciata d'anni che avevano trascorso assieme. La separazione, la vita nuova e il mondo incredibile che aveva scoperto in Grecia avevano ulteriormente fomentato il suo spirito, indipendente al punto di essere solitario, oppure gli avevano reso necessario aggrapparsi alle incertezze, gli interrogativi che gli erano stati insegnati: ironicamente, le uniche cose che conoscesse davvero, così come era stato per suo nonno.

Il giorno in cui lo portarono via resta un susseguirsi di immagini più o meno sfocate, una pellicola cui mancano in realtà parecchi fotogrammi. Premesse e scene determinanti sono state tagliate via: non gli è stato permesso di conoscerle. Camus era in salotto e poi, ad un certo punto, non lo era più, non lo sarebbe stato mai più, perché lo portavano via, verso il suo destino. Se aveva pianto o protestato, se la sua famiglia l'aveva lasciato andare o qualcuno si era frapposto tra lui e il Saint che lo stava portando via, Camus, ormai adolescente ed ormai adulto per il mondo segreto, non avrebbe saputo dirlo. Talvolta, prima che possa fermare se stesso dal nutrire certi pensieri, l'ipotesi sibillina che tutti quei dettagli fossero stati rimossi e scolorati per sua stessa volontà si insinua tra le crepe delle massicce difese che circondano il cuore di Camus. Non desidera essere senza cuore: ha ben visto cosa ciò comporti osservando alcuni degli altri guardiani dei sacri templi, eppure, ritiene, senza dubbio alcuno, che rimpianti e sentimentalismi siano imperdonabili fragilità, per un Saint, per una creatura che ha rinunciato alla propria esistenza di uomo per poter vivere come la spada e lo scudo della Dea che ripudia le armi.

I ricordi di Camus bambino – un po' meno bambino di quando lo portarono via, ancora bambino per quel mondo cui era stato strappato, ormai adulto per il mondo segreto – sono popolati di macchie sfocate che gli parlano, lo abbracciano, lo sgridano, lo coccolano; in questo mare di fantasmi che nulla significano per la spada e lo scudo di Atena, le mani di sua sorella—di colei che era stata un tempo sua sorella maggiore, risaltano con una chiarezza surreale nei contorni delle dita fini e le unghie ovali, e il colore rosso, brillante come le ciliegie mature, con cui era solita dipingerle. Camus bambino, che sopporta coraggiosamente il peso delle vestigia di Aquarius, ricorda quelle mani anche se non dovrebbe, anche se non ha più senso, carezzargli la fronte bollente per la febbre, disporre blocchi di legno colorato in forme di case o animali davanti ai suoi occhi; vede quelle dita sottili che pizzicano la cerniera di un borsello nero e la tirano da parte a parte con un gesto secco, rivelando le meraviglie variopinte di ombretti, rossetti, matite e smalti. Aveva la cattiva abitudine di lasciare tutto sparso sul tavolo del salotto, quando si truccava prima di uscire; un'abitudine che non aveva mai corretto, nonostante i rimproveri infiniti da parte della donna che era stata la madre di Camus. Forse, era pigra, o forse non le interessava: per qualche motivo, Camus avverte con fermezza la nozione di uno spirito deciso e un po' ribelle, quando pensa a quelle mani. Forse, era stato per rubarle un po' di quel coraggio, che Camus aveva afferrato la boccetta di vetro smerigliato dal tavolo del salotto, prima di varcare l'uscio di casa per l'ultima volta. Forse, si dice altre volte, più spesso, si era trattato di un gesto involontario, avevo cercato di aggrapparmi a qualcosa ma avevo stupidamente afferrato un oggetto totalmente inutile.

Eppure, nelle notti insonni del viaggio verso Atene, Camus aveva fissato la luce che si rifrangeva sulle sfaccettature del vetro, coprendo il rosso ciliegia all'interno con piccole stelle color arcobaleno. Aveva preso, ad un certo punto, a dipingere le proprie unghie come aveva visto fare innumerevoli volte, per misurare il tempo, per ingannare l'attesa dell'ignoto e per dimenticare l'angoscia che gli attanagliava lo stomaco. Il Camus che non sarà mai più bambino ripete il rituale nella solitudine delle sue stanze, e si sforza di dimenticarne origine e significato. Milo, che di tatto ne possiede ben poco ed è ostinato al punto da riuscire intollerabile, alle volte, chiede perché e tace quando Camus scrolla le spalle, mormorando, abitudine. Ci sono momenti in cui Camus riesce a credere che Milo sia la sua metà migliore, se una cosa del genere davvero esiste.

Ci sarà poi un giorno in cui, non più bambini, non ancora adulti, eppure più stanchi e più segnati e più vecchi dei propri anni, si lasceranno finalmente dietro ogni vestigia d'infanzia; dimenticheranno il raro, tenue seme di normalità, di fiducia, di ciò di quanto più simile ad una famiglia delle creature sperdute come loro potessero avere, che colorava le giornate di pace al Santuario. Camus scivolerà via dalle fresche ombre dell'Undicesima Casa nella semioscurità di quella notte maledetta, rischiarata dai dodici fuochi fatui del grande orologio ed incupita dallo spettro del tradimento.

Camus correrà a perdifiato tra gli strapiombi e le rovine abbandonate; sfiorerà con la coda dell'occhio il grande campo incolto dove Saint e soldati sono sepolti senza distinzione di rango e penserà, con un macigno sul cuore e l'acido in gola, che, se riuscirà a raggiungerlo, non ci sarà posto per Aiolos, lì. Quale mano ti abbatterà, compagno d'armi, fratello, guida per noi tutti? Guidaci tu, Atena, pregherà Camus, ma Atena non risponde.

Camus abbasserà allora gli occhi, resterà immobile a pensare pensieri che non condividerà mai con nessuno; rialzato poi il capo, ci sarà lo sguardo di Aiolos puntato sul suo; Camus si dirà pronto a lavare l'onta col sangue e le sue saranno parole a loro modo sincere, eppure, la figura di Aiolos rifulge, nobile come le stelle che lo proteggono, anche nelle tenebre di quella notte d'inganni. Tra le sue braccia, la Dea è placida. Atena dorme, forse. Atena non risponde. Camus sferra allora il primo colpo, perché non vuole essere un traditore, ma Aiolos afferra il suo braccio, stringe le dita attorno al suo polso senza la minima difficoltà.

“Se non sei in grado di decidere per te stesso, non vivrai a lungo, Camus dell'Acquario,” e c'è qualcosa di così vicino alla pietà, nei suoi occhi, che Camus trema, si vergogna; ripensa al Pontefice che mai come allora gli era parso una sfinge: creatura imperscrutabile, maschera vuota, e poi ad Aiolos e alla natura duplice dell'uomo, e sentirà che il mondo intorno a lui sta crollando.

Guidaci tu, Atena. Guidami. Aiutami. Ma Atena non risponde. Camus è solo con i suoi dubbi.








 


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