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Autore: _A m a l i a_    22/05/2015    4 recensioni
Milano, Seconda guerra mondiale.
Una storia d'amore più forte del tempo. Più forte della guerra e delle proibizioni.
Clarissa è la giovane figlia di un sostenitore del partito fascista. Cesare è l'uomo di cui s'innamora. Un uomo che combatte la dittatura e mette a repentaglio la propria vita per salvare quella degli altri. Un eroe silenzioso.
La loro storia cammina di pari passo con la disperazione, con la morte e cresce nascosta dagli occhi indiscreti di chi non potrebbe accettarla.
***
Dal 13esimo capitolo:
«Prometti di gridarmi che mi ami e che il suono delle tue parole mi arrivi anche sopra gli spari e lo scoppio delle bombe. Prometti di custodire una parte della mia vita nella tua, così che saprò che non ti lascerai mai morire, per non uccidere anche me.»
Genere: Drammatico, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Guerre mondiali, Dopoguerra
Capitoli:
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Come d’autunno le foglie




~ prima parte ~





 
12.

3 Giugno, 1944

Ore  10.30

La bellezza dei vent’ anni era tutta sul suo viso. Il corpo era smagrito con il tempo e il riflesso che la guardava dallo specchio glielo riconfermava.
 

Protetta dalle mura del piccolo stanzino, fece scivolare una mano sulle costole troppo marcare e risalì, con disagio, fino a toccare il tessuto del suo reggipetto. Le venne spontaneo voltarsi e controllare la porta chiusa alle sue spalle, oltre la quale sua nonna e la sarta del negozio, l’ attendevano da minuti.

Non avrebbe voluto sprecare il suo tempo in quel modo, ma a ben poco erano servite le sue obbiezioni, mentre si era vista trascinare nell’atelier di fiducia di sua nonna. Aveva persino creduto di vomitare quando si era accorta del cartello esposto al suo esterno: ‘Questo è un negozio fascista.’. Un marchio nero, indelebile, copriva quelle parole, scritte dal pugno di una mano onorata di poterle mostrare ad occhi esterni.

 
Quando, guardando il suo corpo una volta ancora, si rassegnò all’idea che ciò che vedeva non erano certo prosperose forme femminili per cui smaniare di desiderio, scelse uno dei vestiti datole dalla sarta e lo indossò, con il solo scopo di coprire quel che preferiva nascondere ed uscì dal camerino.

Notò, all’istante, lo sguardo malcontento della nonna. «No.» sentenziò. «E’ enorme. Non sei in grado di accorgertene da sola? Che cosa hai fatto là dentro per tutto questo tempo?»

Clarissa alzò gli occhi al cielo; non era affatto imbarazzata quanto la sarta per la durezza di quelle parole, perché conviveva quotidianamente con l’umore dispotico della signora Marchesi.

«Sarà il caso di provare modelli di una taglia inferiore.» commentò la sarta. «Oppure potremmo pensare di commissionare un abito su misura.» si avvicinò a Clarissa e le cinse un metro in vita, senza attendere risposta. Lo stucchevole profumo della cipria che le ricopriva il viso si muoveva ad ogni suo spostamento.

«Faremo così.» confermò la signora Marchesi, levandosi i guanti neri dalle mani e chiedendo alla sarta di mostrarle il catalogo dei tessuti leggeri.
 

 
Ore  11.42

Il silenzio che precede la tragedia è facilmente riconoscibile. Lo è da sempre. Dalla notte dei tempi, alcuni si arrischierebbero a dire.

E’ un silenzio accompagnato da una strana sensazione d’impotenza, che permette di definire l’imminente pericolo con lucidità, di abituare ogni fibra del proprio corpo a lui, ma mai potrà concedere la libertà di agire perché nulla d’irreversibile accada. Se è destinato ad accadere, accadrà.

 
In quel silenzio, Clarissa era finalmente sola.

Aveva indossato di nuovo il suo vecchio vestito, nascosta dietro uno degli enormi cassoni della spazzatura e con gioia calpestava quello appena acquistato nel negozio fascista, dalle traboccanti tasche di sua nonna.

Ed ora lasciava che le sue scarpe lo pestassero con infinito piacere. Con incoscienza, forse, ma cosa poteva importare di fronte il bisogno di scaricare un po’ di sana rabbia. La bloccò soltanto uno strano vociferare, che si muoveva sempre più nitidamente verso il luogo in cui si trovava.

Si sistemò il vestito e fece qualche passo, per avvicinarsi ad una via più popolata. Il barbiere, davanti al suo sguardo, serrò la tenda del negozio con urgenza e una signora richiamò a gran voce, dalla finestra del suo appartamento, alcuni bambini radunati sulla strada.
In pochi istanti, l’unica a riempire quella via rimase Clarissa.

Le sembrava di distinguere lo strusciare delle suole di scarpe, che avanzavano sul terreno ghiaioso. Fu immediato dare un volto a quel suono, quando un gruppo di uomini – di primo acchito non si accorse che si trattava di giovani ragazzi – svoltò l’angolo e si riversò sulla via. Uno di loro, nella foga, si scagliò sulla sua spalla, insultandola e rischiando di farle perdere l’equilibrio.

Nell’abbassare lo sguardo a terra, Clarissa notò che il loro passaggio seguiva una scia di volantini, sparsi per la strada, che ricadevano dalle loro mani, dalle loro giacche o da sotto i loro cappelli. Si chinò per raccoglierne uno. Era rosso e incitava parole che aveva imparato a conoscere molto bene. Libertà, resistenza, coraggio.

Un sorriso di eccitazione e di adrenalina le sfuggì alla razionalità. Sapeva a cosa portavano le incursioni partigiane organizzate al centro della città, nel cuore della tana nemica, ma mai ne era stata testimone così ravvicinata.

Si voltò, appena in tempo ad evitare che una bicicletta la investisse. Il ragazzo sterzò e frenò al suo fianco.

«Scappa! Scappa!» le urlò, spingendole la schiena.

Quelle lentiggini marcate e quei ricci rossi. «Davide.» sussurrò, Clarissa, guardando meglio il suo volto.

«Mio Dio! Marchesi.» d’un tratto sbiancò. Si guardò le spalle e si accorse di essere l’unico rimasto del suo gruppo. «C-cosa ci fai? Tuo padre è con te?»

«No. No, Davide, sono sola.» si affrettò a dire. Non ci sarebbe stato bisogno di chiedere spiegazioni. Sapeva che la fama di suo padre lo precedeva e, per quanto s’impegnasse nel contrario, quella stessa fama precedeva anche lei. «Non avevo idea che facessi parte della Resistenza, ero convinta fossi partito per la guerra, come tutti gli altri.»

«Avrei dovuto.» Davide montò sulla sella e fece per ripartire, ma Clarissa lo fermò  «Andrai a spifferare tutto a tuo padre?»

«Sei il solito fifone, non sei cambiato di una virgola.»  scosse la testa. «No, che non andrò da mio padre. A patto che non lo faccia nemmeno tu.» così dicendo, gli mostrò il volantino che aveva tra le mani. Lo richiuse e lo nascose in una tasca del vestito.

Davide rise, sebbene la paura rimanesse ben visibile sul suo volto. «Lo ripeteva sempre il preside Colombi che eri la disgrazia della tua famiglia.»

«Si, beh, non era l’unico a pensarlo.»

I tempi della scuola era recenti eppure troppo lontani per essere riportati in memoria. Clarissa non ne aveva mai avuto occasione. Aveva preferito perdere i contatti con ognuno dei suoi compagni. Troppo superficiali, troppo altezzosi, troppo crudeli. Nessuno era come lei. Persino quel timido ragazzo della classe maschile, accanto alla sua, con quei folti capelli rossi e le lentiggini che gli costavano tremendi oltraggi da chi si era sempre ritenuto superiore. Lo stesso ragazzo che scriveva poesie, occultandole tra le pagine dei quaderni. Persino lui, aveva pensato fosse diverso da lei. O, forse, non si era mai fermata a considerarlo come avrebbe dovuto.

«E’ meglio se torni a casa.» le disse, Davide, pensando a quanto avrebbe impiegato per raggiungere il resto del gruppo.

«Potrei accompagnarti, invece. Vi posso aiutare, qualsiasi cosa stiate facendo. Dove state andando?»

«Non ne posso parlare.»

«Allora ti seguirò, senza costringerti a dirmi niente.»

«No.» cominciò a pedalare, troppo lentamente perché Clarissa non riuscisse a mantenere il suo andare. «No, penso sia meglio di no. Torna a casa.»

«Non ti metterai a discutere con me, vero Davide?» sorrise. «Non è proprio nel tuo stile. Su, forza, fammi spazio.» Si sistemò sulla canna della bicicletta ed il foglio del manifesto partigiano, nascosto nella sua tasca, le scivolò via senza che se ne accorgesse. Davide rischiò di perdere il controllo della bici. In un’ altra situazione, forse, sarebbe arrossito per essere il solito maldestro.

Ma non ebbe nemmeno il tempo di vergognarsi.


Davanti a loro tornarono, a passi spediti, i ragazzi passati accanto a Clarissa soltanto pochi istanti prima. Le sembrò naturale cercare tra di loro qualche volto famigliare, ma si accorse di non conoscere nessuno, seppur non dimostrassero molti anni più dei suoi. Si spaventò nel trovare anche un ragazzino a cui non avrebbe dato più di dieci anni. Aveva lo sguardo scavato, ma vigile e caricava sulle spalle, con eroico coraggio, uno zaino quasi più grande della sua schiena.

Un ragazzo del gruppo si avvicinò a Davide. «Ci hanno visti quando abbiamo attraversato la piazza e hanno iniziato a sparare.» mise una mano sulla sua spalla. «Hanno preso Sergio, Davide. L’hanno preso. Era dietro di me e l’ ho sentito cadere.»

Davide non reagì. Il suo corpo sembrò paralizzato, totalmente incapace di replicare a quanto aveva appena sentito.

«Lascia la bicicletta, Davide. Saranno qui a momenti.» gridò un altro, scuotendolo. «Dobbiamo rifugiarci da qualche parte.»

«Sì, ma dove?» chiese un terzo ragazzo, dal volto arrossato e il respiro faticante.

«Chiediamo a qualcuno di farci entrare.»s’intromise, Clarissa, indicando le abitazioni attorno a loro.

La guardarono, ma non le chiesero chi fosse. Senza aspettare una loro riposta, Clarissa bussò ad ognuna delle case e incitò gli altri a fare lo stesso, pur sapendo che non l’avrebbero mai ascoltata.

I suoi sforzi non ottennero altro che silenzio. Terrorizzato ed egoistico silenzio.

Alcune vetture svoltarono l’angolo alla loro destra e, nel giro di pochi secondi, una schiera di uomini armati avanzava dal lato opposto, con la lentezza di chi sa di avere la sorte dalla propria parte.

In quel preciso istante, una porta si aprì a pochi passi da Clarissa. Una donna le strinse il braccio. «Sbrigati, ragazzina.» parlò sottovoce e la spinse verso di sé, per farla entrare.

Le vetture si fermarono e ne scesero tre ufficiali e una manciata di soldati di grado inferiore. Alcuni di loro sputarono per terra, con disprezzo, altri raccolsero le pistole dalle loro cinture e le puntarono contro il gruppo di partigiani. Ammassato in un cerchio, senza vie di fuga.

Per quale motivo, lei avrebbe dovuto averne una? Era forse migliore di loro? Meritava di essere salvata, più di quanto non lo meritassero loro? Non trovò una risposta sufficiente a convincerla e abbandonò la stretta della donna, che si affrettò a chiudere la porta con la stessa velocità con cui l’aveva aperto.
 



Quando la sua faccia venne scagliata contro il muro di una stradina isolata, dove il resto dei ragazzi era già stato allineato – con le mani rinchiuse in alcuni lacci di corda ruvida e lo sguardo basso - , l’impatto fu meno violento di quanto si aspettasse, nonostante sentisse alcune gocce di sangue scivolarle oltre la tempia.
 
«C’era anche lei, comandante.» commentò un solato, portandole le braccia dietro la schiena e intimandola a non muoversi.

Un bisbiglio di voci, dietro i loro corpi, si consumava con ferocia. Non era semplice seguire i loro discorsi, o distinguere chiaramente le parole che pronunciavano, quando i battiti del cuore coprivano ogni singolo rumore.

Accanto a Clarissa, Davide muoveva le labbra senza emettere alcun suono. Stava forse tremando o recitava preghiere che lo accompagnavano lentamente verso il suo destino?

Clarissa si spostò verso di lui, così che i loro gomiti potessero toccarsi. Al solo contatto, Davide trasalì e si girò verso di lei.

Mai, nella loro giovane e spensierata vita, avevano incontrato sguardi come i loro;che raccontavano di paura, di rassegnazione, di delusione e di gioia. Una vita breve sembrava immensamente lunga e in quegli sguardi ripercorreva i suoi momenti cruciali.

Uno sparo sovrastò la gelida attesa e un primo corpo cadde a terra, incidendo le tinte del suo passaggio sul muro,dove altri continuavano ad attendere.

I soldati, alle loro spalle, risero. Avrebbero continuato quel gioco fino ad annoiarsene.

 
«Cosa ci rimane, Clarissa?» sussurrò Davide. Era già lontano da quel mondo crudele. Nelle sue parole, nello scoraggio del suo volto, Clarissa comprese quanto fosse già lontano. «Dimmi. Cosa ci rimane?»

Il respiro di Clarissa accelerò, quando il secondo colpo di pistola si scagliò e un altro corpo cadde.

Ci rimangono i momenti. Quelli rapidi che si confondono nel tempo, ma che non lo abbandonano mai. Quelli che si appiccicano alla pelle. Le mani, ci rimangono. Le mani sul collo che potrebbero stringerlo perché ne hanno la forza, eppure non fanno altro che accarezzarlo con delicatezza.

Sentì il bisogno di urlare, di gridare al mondo quanto ancora desiderava vivere.

Ci rimane la profondità del sentimento appena scoperto e quello che si conosce da sempre.

Clarissa guardò Davide abbassare il collo e lasciarsi andare. «Davide, no. Non ancora. Continua a parlarmi. Davide.» lo chiamò con disperazione, dimenticando per un istante gli uomini accanto a lei.

Il comandante che dirigeva la squadra di soldati fascisti, le si avvicinò, non appena la sentì parlare. Si levò il berretto dalla testa e lo mantenne sotto il braccio, curvando il petto all’infuori in una posa terribilmente innaturale. Scrutando la ragazza con viscida curiosità, fece segno ad uno dei suoi subordinati di perquisirla.

Clarissa si dimenò per sfuggire alle mani che correvano su di lei. Appoggiò la testa al muro e serrò forte gli occhi, per reprimere l’odio che non avrebbe controllato le sue azioni.

Una forza maggiore, dentro di lei, le impose di non muoversi, di non reagire.

Le venne strappata la borsetta che le cingeva la spalla. «Faceva parte del gruppo? Chi lo conferma di voi?» domandò il comandante. Nessuno dei suoi uomini rispose.

«Allora?» gridò. «Mandria di idioti.» li guardò con sufficienza e rovistò nella borsa di Clarissa. «E’ stata trovata in mezzo agli altri, oppure no?»

«Quasi, signore.» qualcuno osò dire.

«Cosa significa quasi, soldato Perni?»
 


Il brusio di voci continuò, senza che Clarissa consumasse le sue energie per concentrarsi in esso. Avvicinò una mano a quelle di Davide, ancora legate dietro la schiena.

«Parla con mia madre.» disse lui, all’improvviso. Le parve di non capire e rimase in silenzio, ma Davide tornò a dire la stessa frase.

«Le parlerai tu.» rispose, chiudendo gli occhi e lasciando che una lacrima solitaria scivolasse. Forse stava già pensando al loro futuro, al luogo in cui sarebbero finiti di li a poco. E il suo era un farneticare che non aveva senso contraddire. 

«No, Clarissa.» la richiamò con decisione, come fosse rianimato all’improvviso. «Devi andare da mia madre e parlare con lei.»

«Davide, come posso..»

Prima ancora di tutti gli altri, Davide aveva già capito cosa sarebbe successo.

La interruppe, guardandola con la fame di chi ha urgenza di dire e avverte in lontananza il ticchettio dell’ orologio finale; quello conclusivo. «Va da lei e dille che l’ ho amata sinceramente. Che sono stato troppo stupido per non ricordarglielo, come meritava.» appoggiò la fronte al muro e le sue labbra tornarono a tremare. «Dille che sapevo quanto soffriva nei giorni in cui non c’ero e raccontale che combattevo anche per lei e che ho fatto del mio meglio per essere un compagno fedele alla sua Patria.»

«Marchesi Clarissa!»  Clarissa sentì pronunciare il suo nome alle sue spalle. Non era un richiamò, quanto più una rilevazione. Non si voltò, non avrebbe mai abbandonato il volto di Davide.

«Ti lasceranno libera, vedrai.» le disse, Davide. «Ma tu devi andare da lei, perché merita di sapere. E’ una donna buona e merita di sapere.» sospirò. «Dille che la porto nel cuore anche ora. Che penso a lei e me ne vado sereno. E non ho paura, perché sono forte. Dille che non era vero tutto quello che dicevano su suo figlio, perché nessuno lo conosceva bene quanto lei.»

Clarissa annuì, presa dal panico.

«E se piange, dille che mi hai visto sorridere. Guardami.» Davide si sforzò di sorridere. «Devi ricordarti di dirglielo. Devi ricordati di abbracciarla, per me.»

«Non posso andarmene, Davide. Non sono così codarda.»

«Devi, invece. Altrimenti lei non saprà mai niente. Ho bisogno che lei sappia quello che ti ho detto.»

Alla sua giovane età, Clarissa non poteva sapere che esiste un coraggio dimostrato scegliendo di vivere, per chi non può più farlo.

«E’ giusto così.» sussurrò Davide.  «Non ero destinato a rimanere. Non mi metterò certo a discutere con il destino, no? L’hai detto anche tu; non sarebbe nel mio stile.»

«No che non è giusto. Nulla di tutto questo è giusto.»

 
I soldati presero Clarissa, che urlò loro di lasciarla andare. La strinsero per farla stare ferma, ma il comandante li richiamò ad avere più cura. «Abbiamo già commesso l’errore di confonderla con uno di loro, se la riportiamo a casa piena di lividi vi giustificate voi con Marchesi!» gridò.


Costretta ad allontanarsi, Clarissa allungò una mano verso Davide che non si girò. Le lacrime le impedirono di urlare il suo nome, con la stessa foga con cui rimbombava nella sua testa.

Si dimenava nella morsa del nemico, alla quale, con disgusto, si accorse di appartenere, mentre veniva chiusa in una delle loro macchine.


 
Ore 12.30

Un campanile rintoccò la mezz’ora.

Quante cose, in un preciso minuto possono accadere tra gli aggrovigliati viali di una grande città. In quelli nascosti e in quelli ben visibili. Quante cose possono accadere senza che nessun occhio riesca a raccontarle.

Gli occhi di Clarissa rimasero ben aperti sullo specchio retrovisore della macchina, che immortalava con scrupolosi dettagli l’intera scena.

Quando la macchina svoltò l’angolo, allontanandosi per sempre da quel luogo, assecondando il destino nella sua decisione, gli occhi di Clarissa continuarono a fissare quella scena, fino a quando sparì.

Il fuoco venne aperto e il suono echeggiò lungo i viali della grande città. E negli occhi di Clarissa, che in quel piccolo specchio ora, trovavano solo la sua immagine riflessa.

La bellezza dei vent’anni sarebbe sparita, per un po’.

 
 
 
 

 
  
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