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Autore: Mary P_Stark    23/05/2015    2 recensioni
Stheta mac Lir è il principe ereditario della casata dei mac Lir, prossimo re di Mag Mell e valente condottiero fomoriano. Il suo essere primogenito è stato spesso fonte di drammi interiori, così come di conflitti con il padre e la madre. L'aver tradito, seppur inconsapevole, il fratello minore Rohnyn, ha causato in lui ulteriori dubbi e ulteriori sofferenze, portandolo a rivalutare concretamente tutta la sua esistenza. E' giusto che il suo popolo sia così chiuso in se stesso, che i sentimenti vengano banditi dalla vita quotidiana? Perché, l'essere come gli umani, è visto come un difetto, quando la vita sulla terraferma pare, ai suoi occhi curiosi, piena di meraviglie? Ciara, suo capitano delle guardie e fidata amica di una vita, è preoccupata dalla svolta pericolosa presa dai pensieri del suo principe, soprattutto quando scorge in lui un interesse sempre crescente per l'umana Eithe, amica di Sheridan. In questo triangolo di interessi sovrapposti, Stheta scopre anche una nuova realtà, creature ancor più mistiche di quanto già loro non siano e che, per ironia della sorte, lo aiuteranno a scoprire le verità che cercava. - 2° RACCONTO SERIE "SAGA DEI FOMORIANI"- Riferimenti presenti nel racconto precedente. Crossover con ALL'OMBRA DELL'ECLISSI
Genere: Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Saga dei Fomoriani'
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Díomán non aveva scherzato, dicendo che si sarebbe sdebitato con me e Ciara per l'aiuto che avevamo fornito a lui e al branco.

L'invito mi arrivò a sorpresa, un pomeriggio grigio ma senza pioggia, quando andai a trovare Eithe per sapere come stesse.

Ciara preferì rimanere a Mag Mell, quel giorno.

I suoi impegni come capitano delle guardie non le permettevano di muoversi con la libertà concessa, invece, a me.

Inoltre, desiderava che io parlassi da solo con Eithe.

Ora che sapeva di non dover temere nulla da lei, aveva anche chiaro quanto fosse importante, per Eithe, parlare con me di ciò che era avvenuto sull’isola.

E non soltanto riguardo alla sua prima vittoria come licantropa.

Come sempre, perciò, raggiungemmo il Phoenix Park e, all'ombra dell'ormai nostro acero rosso, mi disse cosa era successo dopo la nostra separazione dall’isola.

Mi spiegò come Díomán l'avesse sgridata per non aver parlato con lui di ciò che le stesse succedendo, per aver mantenuto il segreto sulle minacce di Caitlinn.

Ma, soprattutto, mi disse quanto si fosse dichiarato sorpreso di sapere dei suoi sentimenti per lui.

Rise, nel dirlo, come se solo uno sciocco non avrebbe potuto arrivarci anche da solo.

Le domandai come andassero le cose, tra loro, e lei ammise che stavano uscendo insieme per conoscersi un po' meglio.

Ne fui lieto per lei.

Ma fu a quel punto che arrivò la bomba.

Díomán aveva informato la loro Fenrir del nostro impegno per salvare una situazione potenzialmente pericolosa, e ora la capobranco voleva conoscerci personalmente.

Assieme a una presenza esterna al branco, desiderosa di partecipare a quella riunione così insolita quanto unica, per un clan mannaro.

Non mi disse di chi si trattava, ma la cosa mi incuriosì molto.

Eithe mi spiegò succintamente che, essere ammessi al cospetto della loro quercia sacra, che sorgeva in ogni loro Luogo di Potere, era considerato un grande onore.

Avendo ormai saggiato con mano il misticismo di quelle creature, oltre al loro profondo legame con la natura, non faticai a credere alla mia cara amica.

Da sempre, le religioni pagane erano legate ai culti della Terra, perciò non faceva specie che anche i licantropi avessero simili credenze.

Inoltre la quercia, in quasi tutti i territori del nord, era considerata pianta sacra, perciò non mi stupii neppure di quel particolare.

Considerai questo invito una cortesia davvero inaspettata e doppiamente gradita perché, all’evento, sarebbe stata ammessa anche Ciara.

Dopo aver lasciato parlare Eithe, la ringraziai per il generoso quanto inaspettato invito.

Sorridendomi nello scuotere il capo, lei però replicò: «La nostra Fenrir ti è grata anche per l’aiuto che mi hai dato come amico. Ciò che hai fatto per me è stato molto importante. Lei riconosce questo, prima di tutto. Il fatto che tu sia un principe fomoriano, viene soltanto dopo.»

Allungandomi una mano, mi spinse ad alzarmi da terra e aggiunse: «Vorrei mi accompagnassi in ufficio, oggi. Desidero fare una cosa.»

Le sorrisi spontaneamente, annuendo, e accettai quella mano che, ora, stringeva la mia con maggiore forza.

Non aveva più bisogno del mio aiuto e, qualora lei avesse avuto bisogno di qualcosa, un’altra mano avrebbe stretto la sua.

Le sarei sempre stato amico, ma ora potevo stare più tranquillo, sapendola al fianco di un licantropo potente come Díomán.

Raggiungemmo la sede del National Geografic nel giro di mezz'ora e, quando ci presentammo in ufficio, trovammo ad attenderci sia Todd che Sheridan, impegnati in una discussione colorita.

Risi nel sentirla così sboccata e lei, vedendomi, si interruppe per salutarmi e lanciarmi un bacio con lo schiocco.

«Ma come? Tampini ancora Eithe? Devo suonartele di nuovo, cognatuccio?» ironizzò, scusandosi con il loro capo per raggiungerci.

Mi diede un bacio sulla guancia, tutta sorrisi e allegria e infine guardò l'amica, notando subito qualcosa di diverso, in lei.

Storse il naso, la fissò con maggiore attenzione e infine dichiarò: «Ti sei fatta un uomo!»

Le nostre reazioni furono differenti, ma tutti noi esprimemmo chiaramente cosa ne pensassimo della mancanza di filtri nella testa di Sheridan.

Todd si affrettò a rifugiarsi nel suo ufficio, io mi passai una mano sulla faccia, esasperato ed Eithe, scoppiando a ridere, arrossì in viso ma annuì.

«Non sei tu, ne sono sicura. Altrimenti, Ciara ti avrebbe già castrato. Quindi?...»

Fissai malissimo Sheridan, che pareva del tutto priva di freni, in quel momento, ma lei scrollò le spalle, replicando serafica: «Oh, andiamo! Pensavi davvero che non sarebbe venuta a dirmelo? Non ci sei solo tu, che passeggi allegramente per Dublino. Cosa credi?»

La notizia mi lasciò sconcertato per un attimo, ma poi mi ritrovai a sorridere.

Cosa mi ero aspettato, dopo tutto?

Mi ero convinto davvero che, in tutte quelle settimane passate a bighellonare per la terraferma assieme a Eithe e Konag, Ciara fosse rimasta semplicemente a palazzo?

No, aveva agito nell’ombra per non irritarmi – come aveva sempre fatto nel corso dei secoli – e si era rivolta all’unica persona possibile.

Sheridan.

Dopotutto, quelle due, si erano piaciute al primo sguardo.

Nessuna stranezza che, in un caso come quello, Ciara avesse cercato la compagnia di Sheridan e il suo consiglio.

In parte, ne fui lieto. Era bello sapere che anche lei aveva un'amica con cui confidarsi, oltra a una spalla a cui chiedere assistenza.

Dall'altro, mi chiesi quanto Ciara si fosse aperta con Sheridan.

Non ero sicuro di voler far sapere proprio tutto, alla mia cara cognata.

«Sherry, posso parlarti un momento?» intervenne a quel punto Eithe, afferrando una mano dell'amica con aria speranzosa.

«Eh? Ma certo.»

Ci guardammo un momento, e Sheridan parve un po' confusa da quello scambio di sguardi. Ma io ormai avevo compreso.

Voleva dirle la verità, e chiedeva il mio sostegno in quell'impresa.

Insieme, la accompagnammo nel suo ufficio e, dopo essermi appoggiato alla porta chiusa, Eithe prese un gran respiro e disse: «Quel giorno, al matrimonio, non ho capito che Stheta era diverso a causa di Krilash. Sapevo già da prima che anche Ronan, lo era. Vederli tutti assieme, mi ha solo dato la conferma che qualcosa non quadrava.»

Sheridan annuì, il fianco poggiato contro la scrivania, l'aria attenta e pensosa.

Non mi arrischiai a curiosare.

Eithe mi aveva detto che, con gli umani, poteva essere rischioso, o addirittura del tutto inutile, ficcare il naso nei loro pensieri.

Non volevo correre rischi, con la mia adorata cognata, perciò dovetti accontentarmi di attendere che Eithe proseguisse.

«Visto che sai già che esistono creature diverse dagli umani, al mondo, forse non ti sarà difficile accettare anche me» mormorò, guardandola speranzosa.

Sheridan si irrigidì un poco ma annuì cauta, replicando: «Sei un abitante delle stelle anche tu?»

Scosse il capo e, mordendosi il labbro inferiore, quasi si sentisse in colpa per ciò che stava per dirle, sussurrò d'un fiato: «Sono un licantropo.»

Sheridan, come al solito, mi sorprese.

Non solo non diede di matto, ma si limitò a sorridere.

Forse il suo fu un sorriso un po' isterico, lo ammetto, ma non si alterò minimamente, né esplose a ridere di fronte a una simile dichiarazione.

Si limitò ad avvicinarsi a Eithe, la abbracciò e, rasserenata, dichiarò: «Allora, d'ora in poi starò più tranquilla, perché so che puoi difenderti anche da sola, se qualcuno fa il bullo con te.»

«Oh, Sherry!» esalò Eithe, stringendola a sé con veemenza.

«Ahia! Ehi, calma! Ci sono io, qui in mezzo!» gracchiò Sheridan, scoppiando a ridere con l'amica, che era in lacrime. «No, tesoro, non devi piangere. Mi sta bene, davvero. E poi, cosa c'è di peggio che avere per cognato un uomo pesce? Niente, credo.»

Nel dirlo, mi strizzò l'occhio. «C'è di bello che, per lo meno, dopo tre giorni non puzza.»

Quest'ultima battuta mi fece tossicchiare, ma lei non vi badò.

Era troppo impegnata a guardare l'amica con i suoi brillanti occhi di cielo, e ad asciugare quelli di Eithe con gesti materni.

«Avevo paura che non avresti potuto accettarlo ma, quando ho saputo di Stheta, Ronan e gli altri, mi sono sentita più fiduciosa.»

«Eppure sono passati mesi, da quel giorno. Siamo a novembre, e il matrimonio si è tenuto ad agosto.»

Eithe allora mi guardò da sopra la spalla, e disse: «Prima, dovevamo risolvere un paio di cosette.»

Sheridan ci guardò dubbiosa, ma chiosò: «Cose vostre. Non mi impiccerò. Quindi, devo supporre che quella specie di armadio a tre ante che vidi quel giorno, al parco, sia un lupo mannaro a sua volta... e che sia lui l'uomo che tu hai nel tuo carnet, ora.»

«Diciamo che Díomán e io stiamo esplorando vari sentieri, al momento...»

«E detto da una lupa, ha tutta una serie di significati piccanti e divertenti» ridacchiò Sheridan, tornando ad abbracciare l'amica. «Ah, cara, sono così contenta!»

«Anch'io, Sherry. Anch'io

 
***

La zona di Glenncullen, a sud di Dublino, è immersa in un bosco di faggi, querce e infiniti pendii verdeggianti.

Al chiarore del tramonto, appaiono oscuri e cupi, ombrosi come l’umore di un drago appena destato dal suo sonno.

Nessun drago, comunque, ci avrebbe disturbati, quella notte.

Per lo meno, fu quello che sperai quando raggiungemmo il limitare della stradina imboccata dall’auto di Eithe.

Aperto un cancello in ferro, che delimitava una proprietà privata – appartenente al branco – Eithe proseguì per un altro mezzo miglio.

Si fermò poco più avanti, in prossimità di un altro paio di auto, diversi minivan e una moto da cross.

Chi fosse venuto, a novembre inoltrato, con una moto dalle gomme chiodate, era da stabilire.

Di sicuro, con la neve caduta in quei giorni, era un veicolo per pochi eletti.

Eletti pazzi, ovviamente.

Nel vederla, Eithe ridacchiò e, scesa che fu assieme a me e Ciara, dichiarò: «Quella è sicuramente di Kenneth, il nostro Geri. Non lo vedrete su un'auto neanche da morto.»

Io e Ciara ci rattrappimmo nei nostri parka imbottiti, chiedendoci come  potesse sopportare, un comune umano – pur se sicario – un gelo simile in groppa a una moto.

Era proprio vero che, per certe cose, si doveva essere portati.

Quando iniziammo infine a penetrare nella fitta faggeta, lo scricchiolio della neve sotto i nostri piedi ci fece venire ancor più freddo.

Il sole terminò la sua discesa oltre l'orizzonte, e le prime stelle iniziarono a intravedersi nel cielo.

L'aria si fece gelida e, proseguendo lungo un sentiero che solo Eithe vedeva – non grazie alla torcia che teneva in mano – , mi chiesi cosa avremmo trovato al nostro arrivo.

Eithe ci aveva spiegato che il Vigrond era un luogo sacro, dove venivano celebrati gli eventi più importanti del branco, tra cui nascite e morti.

La nostra venuta nel loro sacrario aveva un che di unico e, da quello che la stessa Eithe ci aveva accennato, non solo per la nostra presenza del tutto eccezionale.

Qualcuno di molto speciale desiderava vederci.

«Com’è successo che questo qualcuno di così importante è venuto a sapere di noi?» domandai a un certo punto, scostando un ramo basso di un carpino bianco.

Un frullare leggero di neve mi cadde su una spalla, e Ciara la spazzò via con la mano.

«Quando Díomán ha parlato di voi alla nostra capobranco, lei ha girato l’informazione a una persona molto speciale. Ricordi che ti dissi che l’anno passato, a Belfast,  un clan fu attaccato da un branco di uomini-orso?»

«Sì, lo rammento.»

«A quell’evento se ne è legato un altro molto importante, avvenuto negli ultimi giorni di agosto. Si è rischiato molto, pur se nessuno di noi ne era al corrente, e questo evento straordinario ha portato alla luce alcune verità1

Mi sorrise da sopra la spalla, come scusandosi per tutti quei misteri, e aggiunse: «Tra queste verità, è presente anche colui che conoscerete stasera.»

«Perché tanti misteri?» si intromise Ciara.

Quella sera, indossava abiti pesanti non meno di me, ma aveva lasciato i capelli liberi dal solito intreccio di chignon e trecce, con cui era solita acconciarli.

Li portava, molto più semplicemente, legati in un’unica, pesante treccia, che riposava sulla sua spalla destra.

A ogni mio sguardo, desideravo scioglierla per affondarvi dentro le dita, ma quello non era sicuramente il momento per indulgere in simili piaceri.

Più tardi, quando fossimo tornati a Mag Mell…

Eithe rise, interrompendo il flusso dei miei pensieri e, sorridendomi divertita, mi confidò: «Io alzerei ben bene le barriere mentali, Stheta. Stai trasmettendo come una radio.»

«Accidenti!» bofonchiai indispettito.

Mi ero del tutto dimenticato che i licantropi, più ancora di noi, potevano avvertire i pensieri fluttuanti.

Ciara rise sommessamente, forse immaginando quale corso avesse preso la mia mente e, ancora una volta, mi diedi dello stupido.

Dovevo stare attento, o avrei fatto sapere a degli estranei più di quel che volevo.

Quando finalmente scorgemmo un bagliore nella foresta, fummo sicuri di aver raggiunto la meta.

Lì, in una radura nel fitto bosco, scorgemmo la sagoma enorme e dalle fronde spaziose della loro quercia sacra.

Attorno a lei, sul limitare della radura, erano presenti una decina di licantropi enormi, oltre a una trentina di persone di ogni ordine ed età.

Sia io che Ciara ammirammo sbalorditi la grande pianta secolare avvertendo, nell’aria che respiravamo, tutta la potenza mistica che ci circondava.

Non erano solo i licantropi presenti, a rendere quasi fisico il loro potere sulla nostra pelle, ma soprattutto la potenza mistica della pianta.

La quercia sacra era la loro memoria storica, recava in sé i ricordi di tutti i lupi che erano stati lì sepolti e, finché essa avesse avuto vita, queste memorie sarebbero state a disposizione dei vari Fenrir.

Alla sua morte, una ghianda sarebbe stata piantata poco distante, perché tutto potesse continuare senza una fine reale, e il branco continuasse a trattenere con sé i ricordi dei defunti.

Questo, rendeva quel luogo così importante, così fisicamente sconcertante. Poterlo sentire sulla pelle mi fece venire i brividi e, a giudicare dall’espressione di reverenziale timore di Ciara, immaginai valesse anche per lei.

Pur avendo poteri mistici differenti dai licantropi, non faticammo a renderci conto dell’unicità di quel luogo, di quel momento.

Sorrisi a Ciara, al mio fianco. I suoi occhi erano ancora incatenati a quella meraviglia dalle fronde apparentemente infinite.

Pur se i licantropi, e la loro forma animale, avrebbero dovuto distrarci, era la quercia ad avere la nostra totale attenzione.

Quando finalmente riuscii a discostare lo sguardo da quella splendida creatura, notai infine la presenza di diversi bracieri ardenti.

Erano loro che ci avevano consentito di scorgere il Vigrond in lontananza.

Splendenti come stelle nel cielo, lanciavano lunghe ombre fluttuanti sul terreno ghiacciato e ricoperto di neve.

In parte, permettevano a tutti di poter visionare senza problema i presenti, in parte riscaldavano l’aria gelida della notte.

Dubitai, però, che li avessero messi per loro stessi. Pensai, piuttosto, fosse una cortesia nei nostri confronti.

La pelle di Eithe mi era sempre parsa febbricitante, ma lei mi aveva confermato che, per un licantropo, era normale avere quel calore corporeo.

Perciò, non faticai a capire che, solo per pura cortesia, avevano pensato di riscaldare un poco l’ambiente.

Mi volsi ancora, curioso di scoprire altro, quindi non mi colse del tutto impreparato l’arrivo di due nuovi personaggi.

Felicity, la Fenrir del branco, e il suo successore.

La donna, esile e alta, teneva una mano sulla spalla del giovane al suo fianco, biondo di capelli e dalla pelle candida. Non poteva avere più di diciotto, diciannove anni.

Appariva troppo giovane per poter detenere il potere con mani salde, eppure sapevo quanto le apparenze potessero ingannare.
Eithe ci sorrise, a quel punto, sospingendomi perché avanzassi assieme a Ciara.

Quando ci ritrovammo nel mezzo della radura, gli occhi di tutti puntati su di noi, Fenrir infine parlò.

«Siate i benvenuti nel nostro luogo sacro, fomoriani di Mag Mell. Importante è la vostra visita, poiché ci rallegra sapere dell’esistenza di altre creature mistiche, sopravvissute al passare dei millenni e alle ingiurie del Destino.»

La sua voce flautata catturò subito l’attenzione di tutti, me e Ciara compresi.

Non fu come ascoltare il tono stentoreo di mio padre, o la possente voce di Muath.

Felicity O’Carolan, Fenrir di Dublino, possedeva un genere di potere che non veniva rimarcato nel tono di voce, quanto piuttosto nella postura regale e fiera.

Pur se donna avanti con gli anni, non appariva né fragile né debole, ma esprimeva un’autorità tangibile con mano, e visibile senza fallo.

Reclinai perciò il viso, omaggiandola come era mio dovere, e replicai: «Siamo onorati di poter muovere i nostri passi su queste sacre terre, e lieti di aver ricevuto il vostro così gradito invito.»

«La nostra gente vi è grata, fomoriani, per aver prestato soccorso a uno dei nostri figli.»

Lo sguardo che mi tributò Felicity disse altro.

Non si riferiva solo all’incidente con Caitlinn, ma all’addestramento di Eithe di cui, evidentemente, sapeva ogni cosa.

«L’amicizia ce lo imponeva, Fenrir» dissi semplicemente, sorridendo a Eithe, che era ancora al nostro fianco. «Anche solo per questo, avremmo smosso mari e monti, per trovarla.»

Felicity allora lanciò uno sguardo in direzione di Eithe, che arrossì visibilmente, e asserì: «La nostra cara lupa ha commesso una sciocchezza, cedendo alla rabbia, ma ne capisco i motivi, e sono lieta che le sue paure siano state dissipate. Mi è giunta voce che uno dei tuoi guerrieri, principe, l’ha addestrata perché annientasse i suoi demoni.»

«Così è, Fenrir» assentii, lasciando che decidesse lei cosa dire, e cosa omettere.

Felicity si volse infine verso Ciara, accennando un sorrisino divertito, e infine disse: «Il mio Freki ha lodato il tuo sangue freddo, guerriera, così come lo sprezzo del pericolo dimostrato nel difendere la mia avventurosa figliola.»

Rammentano il pugno rivolto a Caitlinn, Ciara non poté che sorridere ma, con un aplomb degno della fomoriana quale era, si limitò a dire: «Il duello era terminato, perciò ho ritenuto saggio intervenire.»

Fenrir assentì, accentuando il suo sorriso e, dopo aver rivolto uno sguardo ai suoi lupi, proseguì nel suo discorso.

«Le vostre azioni sono state lodevoli, così come il vostro silenzio. Anche se comprendo quando, i segreti, siano pane quotidiano anche per voi.»

Rise, nel dirlo, e quel suono scampanellante mi diede pace.

«In virtù di un recente patto tra branchi, mi sono sentita in dovere di comunicare la vostra presenza a una persona molto speciale, che rappresenta per noi speranza nel futuro e immensa gloria per la nostra genia» continuò Felicity, lanciando uno sguardo orgoglioso dietro di sé, vero il bosco adombrato dalla notte.

Fu in quel momento che avvertimmo un frusciare di rami e foglie, oltre a uno scalpiccio di rami spezzati e neve schiacciata.

Nulla, però, poteva essere così imponente da poter produrre un simile suono!

O così pensai, finché non mi ritrovai a fissare un lupo gigantesco, molto più grande dei licantropi che avevo fin lì incontrato.

Questo, interamente bianco – anche se definire bianca la sua livrea, era riduttivo – superava i quattro metri alla spalla e il suo muso, enorme, si puntò su di noi con curiosità.

Dalla bocca scaturì una voce metallica, e le sue parole suonarono strane, alle nostre orecchie, come se vi fosse un’eco di fondo a disturbarle.

O giungessero dal profondo degli abissi del cosmo.

«Non appena Felicity mi ha detto dell’esistenza di alcuni fomoriani, il mio cuore ha gioito come poche altre volte» tuonò la voce del lupo bianco, inondando la foresta con la sua forza.

Eithe, reclinando ossequiosa il capo, al pari di tutti gli altri lupi presenti, mormorò: «Il capostipite della nostra razza. Fenrir.»

Fu in quel momento che ricollegai la sua figura a un’altra, persa negli abissi del tempo e dello spazio, relegata nei miei racconti di bambino.

Invero, avevo dunque visto giusto,  quando Eithe mi aveva narrato i miti del suo popolo, ma mai mi sarei aspettato di incontrare un Asgardiano!

Anche Ciara parve pensare la mia stessa cosa e, ansando sconvolta, si inchinò elegantemente, prima di domandare: «Siete… siete quel Fenrir, vero?»

La risata stentorea del lupo risuonò nella foresta mentre, oltre la sua figura, la natura del bosco riprendeva magicamente la sua forma originaria, come se lui non fosse mai passato da lì.

Solo un dio poteva tanto.

Solo il dio-lupo degli Asi, l’enorme lupo che, nelle guerre ancestrali, aveva combattuto per il predominio della sua razza su quella dei nostri dèi, i Vani.

«La guerra tra Asghardr e Vanaheimr fu epica, e si perde negli abissi del tempo, a un tempo in cui io ero spirito di guerra e di sangue, a un tempo in cui il mio procedere nel cosmo era preceduto da orrori e terrore.»

Lo disse come se si pentisse di ciò che aveva commesso millenni e millenni prima, e ora fosse redento da quei peccati.

«Rischiammo di distruggere un luogo stupendo come Vanaheimr, e tutto per avere l’opportunità di dimostrare la superiorità l’uno sull’altro. Mi rincuora sapere che molti di voi sono sopravvissuti alla morte della vostra stella, oltre che del vostro pianeta di origine.»

«Il Saggio Savarhne fu in grado di portarci qui proprio grazie ai consigli dei vostri compatrioti. Essi aprirono il passaggio del Sentiero del Gigante2, e i nostri dèi diedero allo Specchio Oscuro l’energia necessaria per rimanere aperto, così che il nostro popolo potesse avere salva la vita» gli spiegai succintamente, ancora incredulo all’idea di parlare con un dio.

Pur se dotati di lunga vita, grazie al sangue dei Vani che scorreva in noi, non potevamo essere messi allo stesso livello di creature come Fenrir, dotate di poteri oltre l’immaginabile.

Annuendo, l’enorme lupo bianco asserì: «Hœnir e Mímir impiegarono bene le loro conoscenze, creando ciò che voi conoscete come lo Specchio Oscuro. Esso, altro non è stato che un passaggio per il Bifrönt, la porta che collega i Nove Regni… tra cui anche Manaheimr, la Terra.»

Sorpresi, io e Ciara ci guardammo vicendevolmente, incapaci di proferire alcunché.

Era dunque il Ponte dell’Arcobaleno, ciò che avevano utilizzato i nostri avi, i miei genitori, per giungere fin lì?

«I Tuatha de Danann, Mio Signore… chi sono, dunque?» mi permisi di chiedere, ormai desideroso di avere tutte le risposte.

«Sono… erano i figli di Dana, una dea Æsin conosciuta come la Dea Madre, qui su Manaheimr, ed è la dea dai tre volti. Essendo figli di una dea, con la scomparsa del culto, videro svanire anche la loro essenza di carne, e ora sopravvivono solo in forma di spirito all’interno di Colei-Che-Tutto-Regge. Solo i loro figli dal sangue misto, hanno potuto preservare la loro forza, e avanzare come carne e sangue nel corso dei secoli, esattamente come voi.»

«Yggdrasil, che Tutto-Sorregge, protegge le anime immortali di ogni creatura vivente» aggiunse per noi Eithe, riferendosi all’Albero della Vita della mitologia norrena.

Reclinai il viso, impressionato da tali scoperte, e mormorai: «Fu per merito loro, che il passaggio sulla Terra fu aperto per noi… e non sono molto orgoglioso di dire che, secoli dopo, combattemmo contro di loro per il predominio, contribuendo alla loro definitiva scomparsa.»

Fenrir rise ancora, forse divertito dalla mia contrizione.

«Non crucciarti per eventi di cui non hai colpa alcuna, Stheta mac Lir. Così doveva essere, e così è stato. Come ho avuto modo di apprendere, nei lunghi millenni passati nell’abbraccio della Madre, anche noi dèi seguiamo un destino prefissato. Possiamo solo cercare di sgattaiolare qua e là, quando possiamo, e rendere le cose più difficili a chi cerca di guidarci ma, se una cosa deve succedere, prima o poi succederà. Così come so che, domani o tra mille anni, io guiderò le schiere di divinità oscure per il Crepuscolo degli dèi, così so che la guerra tra fomoriani e Tuatha doveva avvenire. Per uno scopo che ora ti è oscuro, ma che presto scoprirai.»

Quelle ultime parole mi lasciarono interdetto, non comprendendo cosa potesse esservi, legato a quelle antiche guerre, che mi coinvolgesse personalmente.

Ugualmente, lo ringraziai per il suo dire, e così fece Ciara.

«In virtù del fatto che hai aiutato uno dei miei figli, ritengo di avere con te un debito d’onore. Hai perciò la mia amicizia e alleanza, Stheta mac Lir.»

«Come ho detto alla tua stimata figlia, è un gesto che ho compiuto per affetto, senza pretendere nulla in cambio, ma ritengo un onore avere la tua amicizia, nobile Fenrir.»

Ciò detto, tornai a reclinare ossequioso il capo, e a me si unì Ciara.

«Cammina in pace sulle terre in cui noi viviamo, Stheta mac Lir. La mia tana sarà tua, nelle notti di tempesta, e il mio artiglio sarà tuo, nei giorni di lotta.»

«Così sarà per me, nobile Fenrir. La mia mano e la mia mente saranno tue alleate, se mai ne avrai bisogno, perché ho trovato amici sinceri e sincera comprensione, tra i tuoi figli.»

Le parole mi vennero dal cuore e, quando scorsi uguali sorrisi sui volti di Eithe e della sua capobranco, seppi di aver agito nel modo giusto.

Dal folto dei licantropi, a sorpresa, fece la sua comparsa un uomo alto, dalla corta chioma corvina e l’aspetto imponente.

Si accostò a Fenrir senza timore alcuno, ne carezzò la gamba con fare intimo e il lupo, volgendosi nella sua direzione, annuì.

Un attimo dopo, un intenso bagliore avvolse l’enorme bestia e, da quel rifulgere intenso, scaturì una giovane donna dalla chioma castano dorata.

Con un rapido drappeggio, l’uomo al suo fianco la avvolse con un pesante mantello, che lei si strinse addosso, grata.

La giovane, dai curiosi occhi ambrati e il sorriso spontaneo, allungò una mano verso di me e dichiarò brillante: «E’ un piacere conoscerti anche in questa forma, Stheta mac Lir. Io sono Brianna Ann Smithson, wicca dei tre shires e Prima Lupa del Clan di Matlock. Lui è il mio Fenrir, Duncan McKalister, e siamo lieti di annoverare te e la tua compagna tra le fila dei nostri amici.»

Fui più che mai sorpreso di scoprire che, all’interno di quella giovane spigliata e propensa al riso, vivesse l’anima immortale di Fenrir.

Così come fui sorpreso nell’apprendere che Duncan, invece, possedeva l’anima dell’amata di Fenrir, Avya, colei aveva dato il via alla stirpe dei licantropi, più di seimila anni addietro.

Dall’unione di Fenrir e Avya, erano nati Hati e Sköll, i primi lupi mannari a camminare sulla Terra.

Dal sangue di Fenrir, poi, Avya aveva ricevuto in dono la divinazione e il controllo dei Poteri della Natura, divenendo la prima e più potente wicca, o Saggia, conosciuta a memoria d’uomo.

Sempre dal compagno immortale, aveva appreso l’arte di parlare con i lupi, di governare le energie della Luna e della Terra, e Brianna ne possedeva in gran parte gli antichi poteri.

Da lei, venimmo a sapere della sua unicità di wicca e lupa, evento mai avvenuto a memoria di tribù.

Nell’avvicinarci alla quercia sacra, Brianna mi spiegò della loro recente alleanza con gli uomini-orso, i berserkir, che tempo addietro avevano attentato alla sicurezza dei licantropi.

Sorrise nel dirmi che, anche grazie a noi fomoriani, ora i licantropi potevano contare su altri potenti e validi alleati.

«Come vedi, il mondo brulica di creature bizzarre quanto mistiche, di questo e di altri mondi» asserì a quel punto la giovane guardiana dell’anima di Fenrir, dando una pacca sul braccio a Ciara, di fianco a noi.

Rise poi deliziata quando Duncan, il suo compagno, le ricordò il suo scetticismo iniziale e la sua paura di essere finita in un covo di pazzi.

Per un attimo, invidiai la loro armonia, la semplicità dei loro gesti, accompagnati però da tutto l’amore possibile.

Quando, però, lanciai un’occhiata a Ciara, mi tranquillizzai.

Anche noi avremmo avuto questo, nella nostra vita futura, a costo di spezzare Mag Mell in due.

«Essere alleati tra di noi è un bene, in considerazione del fatto che, presto o tardi, una qualsiasi delle nostre genti potrebbe avere bisogno dell’altra. Ho imparato a mie spese cosa vuol dire agire in solitudine e quanto, invece, conti avere un branco coeso alle spalle» terminò di spiegarci Brianna, lanciando uno sguardo eloquente al suo compagno.

«Sono più che d’accordo con te. La fratellanza e l’amore sono aspetti importanti, nella vita, e non vanno mai presi sotto gamba. E’ tempo che anche il mio popolo lo ricordi» assentii, trovandomi pienamente d’accordo con la giovane wicca.

«Ebbene, mio millenario amico, sappi che noi saremo al tuo fianco, d’ora in poi» decretò Brianna, poggiando infine una mano sulla corteccia nodosa della quercia.

Un attimo dopo, una potente luce dorata dilavò il Vigrond, inondando i nostri animi e, nello scrutare il viso sconcertato di Ciara, seppi con certezza che nulla avrebbe potuto fermarci.

Non con la benedizione di un dio a proteggerci.

 
***

Molte ore più tardi, chiusi nelle mie stanze, il corpo nudo di Ciara stretto al mio, ripensai alle parole di Brianna e alla cerimonia di benvenuto, a tutto ciò che avevo avvertito in quel luogo sacro.

«Vuoi ancora cambiare le cose, per i fomoriani?» mi domandò Ciara, sorprendendomi.

Avevo pensato fosse addormentata tra le mie braccia, invece stava osservandomi con i suoi caldi occhi di zaffiro.

Annuii, carezzandole delicatamente una spalla con le dita.

Lei si sollevò a mezzo, il mantello di capelli a velarne in parte le morbide curve, e disse: «Se mi vorrai al fianco, combatterò con te. Non per te.»

Mi aprii in un sorriso orgoglioso e, annuendo, mi levai a mia volta a sedere.

Le carezzai il viso con il dorso della mano, fiero del coraggio che leggevo nei suoi occhi, della forza che scorgevo sul suo viso, della tenacia che sapeva irradiare dal corpo, e mormorai: «Sii la mia regina, Ciara.»

Non mi disse nulla. Mi carezzò il labbro inferiore, sorrise e calò su di me con la bocca, suggellando con un bacio il suo tacito assenso.

Non mi occorse altro. Avremmo combattuto assieme contro il Consiglio dei Saggi e mio padre e, alla fine, avremmo prevalso.

Perché non poteva esserci altro destino, per noi due.

Non lo avrei permesso.








Note: 1. 
In questa frase, si fa riferimento a ciò che succede in “All’Ombra dell’Eclissi”, in cui Fenrir, il capostipite della razza dei licantropi, fa la sua comparsa vera e propria, mostrandosi ad altri clan mannari prima di incontrare gli uomini-orso, i berserkir. In quella storia, Fenrir incontrerà anche Wotan (il dio Odino), mettendo in moto una serie di eventi che, infine, salverà il pianeta dalla distruzione che Loki, il dio del Caos, voleva scatenare sulla Terra.
         2.Il Sentiero del Gigante esiste davvero, e si trova in Irlanda del Nord. Essendo i fomoriani Originari creature di oltre tre metri di altezza, ho pensato che il luogo si addicesse alla perfezione, come luogo in cui far aprire il Bifröst per loro.



  
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