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Autore: MisterPulp    25/05/2015    1 recensioni
Glauco è un trentenne mite e introverso, come un bambino; il fato vuole che si unisca ad un gruppo di teatranti vagabondi capitanati da Antonio, brusco individuo. Questo gruppo, appunto, vaga per locali e teatri d’Italia in cerca di fortuna, grazie a dei camper che fungono anche da “case”. Glauco si dimostra subito in gamba e pieno di creatività: finalmente, sul palcoscenico, egli si sente vivo.
Purtroppo si innamora a prima vista di Carol, la compagna di Antonio e viene da lei ricambiato, ma questo lo porta ad essere allontanato dal gruppo: inizierà così un viaggio per salvare la sua amata, in compagnia di una ladruncola evasa di galera.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: AU, Movieverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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Un barbone seduto in terra fu irradiato dai raggi di una luce artificiale.
Era vestito da un cappotto lungo e verde scuro, una camicia grigia, sbottonata e sgualcita e un pantalone nero pieno di buchi. E ai piedi aveva due sandali neri.
Aprì gli occhi e guardò stupito la platea. Si alzò in piedi e si diede un’aggiustata ai vestiti.
Ai suoi piedi c’era un bicchiere di plastica, per l’elemosina.
Una coppia, maschio e femmina, passarono lungo il palco.
E il vagabondo decise di mettersi all’opera per guadagnare qualche spicciolo.
La coppia riapparve dal punto in cui era sparita e si fermò ad osservarlo.
Il barbone iniziò un balletto ridicolo, con tanto di canzoncina cantata.
Le parole sembravano un misto tra parole finto – africane e degli starnuti.
Si udirono le prime risate.
Il vagabondo scuoteva i piedi a destra e a sinistra. La coppia andò via.
Egli continuò il balletto, scuotendo le gambe.
La coppia riapparve e lo osservò. Egli scosse anche le braccia, dal petto ruotando all’infuori verso i lati: sbatteva nervosamente le gambe e i piedi.
La coppia andò via di nuovo, nel buio.
Il barbone prese a saltellare, prima su una gamba, poi sull’altra.
Comparve un nanetto e il vagabondo prese a saltellare goffamente sulle gambe, indicando con un dito il bicchiere.
Datemi da mangiare, ve ne prego.
Ma anche il nano sparì dal palco nell’oscurità.
Le parole sconclusionate della canzone non volevano cedere. Uscirono urlanti dalla bocca del barbone, ma nessuno voleva aiutarlo.
Ricomparve il nano: il vagabondo gli urlò contro l’ultima parola della “canzone”, un autentico starnuto.
Non ricevette un centesimo.
Il pubblico rideva a crepapelle di quell’assurdo numero.
Il barbone si risedette in terra.
Apparve in scena una barbona, vestita allo stesso modo, solo con un cappello di lana nero e una camicia bianca. Le sue guance erano ricoperte di fuliggine.
Si sedette accanto al barbone e cacciò fuori un medesimo bicchiere di plastica per l’elemosina.
I due si osservarono: lui era sospettoso, lei gli sorrideva, cordiale.
La barbona cominciò a ballare e a cantare: imitò perfettamente il barbone uomo, che la guardava sbalordito.
La coppia e il nano ricomparvero più volte e lasciarono numerose monete nel bicchiere della donna, prima di sparire per sempre.
Finita la buffa canzone, il pubblico applaudì, sorpreso e divertito.
Il vagabondo maschio era diventato una statua. La vagabonda gli sorrise nuovamente.
Fu lei a prendere parola:
  • Geloso? – chiese la di lei voce buffa.
Risate.
Il maschio si limitò a scuotere la testa.
  • Non puoi parlare?
Scosse di nuovo la testa, offeso come un bambino.
La mano della donna afferrò dolcemente il suo braccio.
  • Facciamo a metà?
Il viso del vagabondo si allargò in un sorriso buffo.
Risate.
Divisero le monete guadagnate dalla donna. Fu ancora lei a parlare:
  • Senti … ma perché non scappiamo da questa vita? Da questo mondo? Gente come me e te non hanno un avvenire in questa società. Perché non scappiamo in un posto isolato, tranquilli, dove poter esser felici, io e te? Per sempre?
Il viso del maschio si allargò lentamente in un nuovo sorriso buffo.
Altre risate.
  • Allora andiamo! – disse la donna, afferrandolo e baciando la sua guancia.
Fece per tirarlo via, ma comparve in scena un nobiluomo, vestito da un frac nero, una panciotto grigio chiaro, camicia e cravatta color crema, pantalone grigio a strisce blu scure e scarpe degne di un lord inglese di fine ottocento.
E due baffoni grigi e una bombetta nera.
Il pubblico sorrise alla sua vista.
Il gentiluomo si rivolse alla vagabonda.
  • Madame … io sono un galantuomo, un uomo ricco e con un futuro roseo davanti a me. Visto che sono “zitello”, per non dire “scapolo” e dato che non trovo una compagna dato il mio alito insopportabile, perché non si unisce a me per un avvenire ricco di soldi, potere e forse bambini?
I due barboni si guardarono confusi negli occhi.
Il tono da zio Paperone, da cartone animato, con il quale l’uomo parlava, non poté non far ridere la platea.
  • Certo – continuò – dovrete esser preparata ad una sopportazione immensa per il mio … “problema” … ma sono quasi sicuro che basterà un semplice tè con biscotti al cacao e un buon bagno caldo a farle cambiare idea. Ovviamente i primi di una lunga vita. Che ne dice?
Il viso della donna si irradiò. Diede uno spintone al barbone e balzò in braccio al nobiluomo che abbracciò e baciò sulla guancia, tra le risate generali.
  • Accetto ad occhi chiusi!
Ed infatti gli occhi li chiuse ed anche le narici del naso, disgustata dal fetore del suo alito.
Porse la sua migliore espressione di disgusto ad un pubblico piegato dalle risate, per poi sparire dalla scena in braccio al nobile signore.
Il vagabondo restò solo, illuminato da un’unica luce, immobile, con lo sguardo basso.
C’era ancora qualche risata nell’aria …
Egli alzò gli occhi e guardò tutti: lacrime infinite bagnarono il suo volto triste.
Nessuno rideva più.
Lentamente, egli si girò e si avviò verso l’oscurità, ma poi ritornò nella luce, un’ultima volta, per osservare il suo pubblico.
Rimase a guardare tutti, per quasi un minuto, tutti quegli sguardi confusi, innocenti, colpevoli …
Piangendo a dirotto, scomparve nell’oscurità.
Il palco rimase vuoto.
Per sempre.


 
*****
 

La gente rimase sorpresa da quello strano sketch più tragico che comico.
Io, il vagabondo, Carol, la vagabonda e Antonio, il nobiluomo, fummo inondati da infinti applausi.
Nessuno dei due sorrideva. Fissavano me.
Piangevo a dirotto mentre il pubblico mi applaudiva.
Lacrime vere. Lacrime di addio.
E tutto finì. In quell’istante, tra mani scroscianti e le mie lacrime liberatorie.
Avevo unito insieme lo squallore della realtà umana e la magnificenza della fantasia, del palcoscenico.
Quella era la mia storia.
Un’esistenza tra il palco e la vita.
E si concluse tutto lì.
Non avrei più camminato su un palcoscenico: mai più.
Avevo raccontato tutto.
In lontananza, tra la gente festante, riconobbi un poliziotto che comunicava qualcosa ad un telefonino.
Capii che mi avevano beccato, ma non mi importava più.
La fantasia era finita: una vita mi attendeva al di là del palco.
 

 
 
Percorsi il parcheggio a passo svelto.
Dinanzi al mio camper vidi Nanni.
Lo abbracciai un’ultima volta: non l’avrei più rivisto.
Era il mio migliore amico.  Un padre.
Mi staccai da lui ed entrai dentro.
Non avevo tempo per cambiarmi: dovevo prendere la valigetta e scappare via.
Non riuscii ad afferrarla che entrò dentro Carol.
Si era piazzata davanti alla porta.
  • Che vuoi fare? – mi chiese, secca.
Evitai di guardarla.
  • Me ne vado!
Fui costretta a fissarle gli occhi quando tentai di uscire.
  • FAMMI PASSARE, MOSTRO!
Una capocciata mi investì in pieno volto.
Caddi all’indietro, per terra, stordito.
Carol era sopra di me, mi osservava con l’aria crudele e folle che aveva quando torturava Antonio.
La donna che avevo amato era davvero sparita, morta. Per sempre.
Urlò frasi folli in lingua madre:
  • SIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII’! SIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII’, SOY UN MONSTRUOOOOOO! Y TE QUIEEEEEEEEEROOOOOOOOOOOOOOOOO! TE QUIEEEEEEEEEEEEEEROOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!
(SIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII’! SIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII’, SONO UN MOSTROOOOOOO! E TI AMOOOOOOOOOOOOOOOO! IO TI AMOOOOOOOOOOOOOOOOO!)

Si gettò su di me, ma la respinsi con forza, sbattendola contro la porta, che si aprì di scatto.
Balzai fuori e iniziai a correre.
Il tuo non è “amore”, Carol. Non più.
Sentii alle mie spalle la sua voce furente:
  • GLAUCOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!
Non mi voltai.
Fui in strada e vidi un’auto della polizia che accendeva in quel momento le sirene.
Una voce gridò:
  • FERMO! POLIZIA!
Me ne fregai e corsi via.

 
*****
 

Correvo come un missile, incurante degli occhi dei passanti.
Sentivo le sirene della polizia incessanti e costanti alle mie spalle, ma non osavo voltarmi né fermarmi.
Mi sentivo pieno di energie, mi sentivo rinato.
Ero più veloce di non una volante degli sbirri, intenti a inseguirmi.
Sentii qualche sparo venirmi addosso, ma pallottole che colpivano solo l’aria.
Mi tolsi il cappotto di scena e lo lasciai volare in aria.
Mille pensieri mi martellavano il cervello, come il cuore sotto le costole.
Finalmente capii che tutti abbiamo un destino scritto e che prima o poi le carte della vita vengono scoperte.
E tutto ci risulta più chiaro.
Capii che il tempo dei sogni era finito e che d’ora in avanti dovevo pensare al mio futuro, alla mia vita vera, umana.
Che senso avrebbe una vita se non vissuta fino in fondo? Nessuna!
Tanto vale non nascere per niente.
E capii il ruolo che due donne importanti avevano occupato nel mio cuore.

Carol Banglesia, di madre spagnola, era un diavolo mascherato da angelo: una figura bellissima, ma tentatrice, all’esterno perfetta, all’interno putrida e folle.
Mia Carosky, di madre polacca, era l’angelo: una figura apparsa per caso e intervenuta per dare una raddrizzata alla mia esistenza. Lei mi aveva fatto vivere diverse disavventure assurde e surreali. Lei mi aveva salvato la vita più volte. Lei mi era stata accanto in quel mio assurdo viaggio e lei mi aveva donato una notte d’amore prima di svanire nel nulla.

Per ridarmi speranza.

Quella storia dell’ “Isola degli Emigrati” era una balla, anzi, una prova:

Preferisci la realtà o la fantasia? Esistere o vivere? Bloccarti nelle illusioni e nelle fantasie o lasciarti andare alla vita e alle sorprese che può riservarti?

Capii anche l’importanza che quel viaggio aveva avuto per me: non l’avevo fatto per una donna … l’avevo fatto per me.
Il viaggio della maturità.
La maturità. Il mio lato migliore, coraggioso, energico, sicuro di mé, che avevo sempre celato nel mio corpo e che di rado avevo mostrato all’infuori, se non mai.
Ed ero sicuro che da lì in avanti, in ogni istante della mia vita, avrei dato sempre e solo il meglio di me.
Sentivo sempre più energia durante quella corsa, le auto della polizia mi parevano sempre più lontane, nonostante continue urla alle mie spalle.
 

 
Saltellavo tra le rotaie di una ferrovia.
Dinanzi a me, un treno merci prendeva velocità.
Raggiunsi l’ultima carrozza semi – aperta e tentai di spalancare la portiera del vagone.
Forse avrei perso quel treno … ma così non fu.
Con un balzo, fui sulla carrozza.
Mi sedetti sul bordo, tra la carrozza e il vuoto.
Nonostante quella corsa, non mi sentivo stanco. Per niente.
Guardai fuori: nessun poliziotto, nessuna volante, nessuna sirena, nessun urlo.
E niente dolore, sofferenza, odio, follia, marciume.
Nulla.
L’avevo trovata, finalmente: la pace.
Misi una mano in tasca e tirai fuori gli ultimi soldi rimasti.
Aprii la mia vecchia valigetta in legno, contenente tutti i miei segreti e li misi dentro.
Poi la lanciai fuori. Nel vuoto. Senza chiuderla.
Vidi tutte le mie cose prendere aria e volare via.
Non avevo più nulla.

Sorrisi lievemente.

E iniziai a ridere. Come mai avevo riso in vita mia.  Una risata liberatoria.

Ero libero. E in pace.
   
 
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